Citazioni


mercoledì 24 dicembre 2014

Canti di Natale

Parte prima.

‪#‎Christian‬ ‪#‎Autostrada‬ ‪#MilanoNapoli‬ ‪#‎A1‬
24 dicembre - 22:18
Notte tranquilla, troppo. Dopotutto è la vigilia di Natale, cosa potevo aspettarmi? La tranquillità del buio dell'autostrada con qualche rara auto sfrecciante, piccola stella cadente orizzontale in onore di gesùbambin. La vecchia Clio bianca del '97 è ancora calda per il troppo andare avanti nel buio ma. Dovevo. Dovevo trovare il posto giusto. Buio abbastanza. Ancora caldo il motore, rumore della ventola, e pensare che i miei volevano rottamarla, non so come li convinsi a tenerla: ci ero affezionato, ma adesso ho capito che è solo un oggetto, come una persona è solo una persona. Individuo tra tanti individui. Oggetto usato per un obiettivo. L'obiettivo è stare qui su questa piazzola di sosta dell'autostrada, vicino ad un inutile pulsantiera SOS, mentre la famiglia fa la sua solita cena a base di pesce e ipocrisia pensando che io sia in viaggio per Parigi con una ragazza che non ho mai avuto. Voglio solo attraversare l'autostrada e sopravvivere oppure no. Avere una evidente dimostrazione che c'è un disegno superiore che dia un senso a tutto ciò oppure che tutto dipende dalle nostre scelte. Probabilmente mi sento soltanto solo e voglio che il mio cuore batta forte. Ultima auto passata 5 minuti fa. Vedo tre tir in lontananza, qualche auto. Adrenalina. Cuore batte come quando pensavo di essermi innamorato. Ecco adesso! Le luci si avvicinano, pneumatici rotolano sull'asfalto, baccano insopportabile, tamburi dentro di me, finalmente sento qualcosa. Sento nel senso che provo sentimenti. Adesso. Adesso. Buon Natale.


Parte seconda.

‪#‎Veronica‬ ‪#‎Metropolitana‬ ‪#‎Parigi‬
24 dicembre - 19:41
Chissà che fanno mamma e papà. Quando mi sono trasferita in questo delirio di city. La city, altro che buco di culo in quel paese di falliti. Quando sconnetto da fatta non riesco a pensare in francese. Vorrei, ma anche quell'orribile lingua da schifosi porci. E' deserta già a quest'ora la city, 'sti francesi che mangiano così presto, meglio farsi una pera direttamente in vena. E' meglio di un orgasmo. Dio, non sapete cosa vi perdete. Non me ne frega di nessuno in momenti come questi, posso farmi in santa pace in questi vagoni vuoti. Godermi l'aria fresca sulla faccia e respirare. Respirare. Sentire, nel senso di provare dentro di me, la sensazione del treno che rotola inesorabile sulle rotaie. Treno che rotola dentro di me. A volte mi è capitato di emozionarmi. E' come quando invece di fare sesso, vai a letto con una persona per la quale provi dei sentimenti. Cioè, fare l'amore. Come quando fai l'amore: mi sarà capitato un paio di volte nella vita, di piangere mentre facevo l'amore. Non perché fossi triste o felice, è solo un'emozione molto forte. Le persone sono stupide, credono che si pianga solo per nero o bianco, situazione triste o felice, dolore o cipolla. Ecco, io a volte mi emoziono quando mi faccio, mi viene da piangere e non mi fermo. Piango. Anche se sono sola e ho dovuto fare un pompino per una dose. Come adesso, mentre tutti mangiano la loro cena di Natale e ridono e bevono piacevole vino bianco o rosso, io sono qui, a Parigi, sottoterra, ad emozionarmi. Buon Natale.




Parte terza.

‪#‎Valentina‬ ‪#‎Carcerefemminile‬ ‪#‎Pozzuoli‬
24 dicembre - 23:55
Da quando sono entrata mi hanno guardato tutte con rispetto. Che sarà stato? Dieci o dodici giorni fa. La considerazione che hanno di te in carcere, il tuo high-ranking, viene deciso in base a quello che hai fatto. Sono giovane, e ho fatto qualcosa di giusto secondo la gente che c'è qui dentro. Probabilmente sarò l'eroina di un'intera generazione, ma resta il fatto che la giustizia non la pensa così. "Occhio per occhio, dente per dente" non va più bene per l'etica, la morale e la giurisprudenza. Sinceramente non me ne frega più di tanto. Sono giovane, non mi interessano le attenuanti, non mi pento di quello che ho fatto. Riprovevole o giusto, finalmente mi salto quell'orribile e ipocrita incontro familiare natalizio. Non ne potevo più, sono venticinque anni che dovevo subirlo. I sorrisi, gli struffoli e farmi piacere la puzza di pesce. Poi, c'era mio padre che era un discorso a parte. Il grande uomo di famiglia che mi ha cresciuta e mi ha fatto conoscere il mondo. Mi ha sempre detto che ero più bella di mia madre, già da quando avevo dieci anni. Che i miei occhi avevano qualcosa di ipnotico. Poi mi ha fatto capire che anche la mia candida pelle incatenava le sue dita. Crescendo, per modo di dire, anche le labbra hanno iniziato a fare il loro effetto. Il suo regalo di Natale era doppio. C'era quello che mi dava davanti a tutta la famiglia, quello che lo faceva apparire il padre perfetto, poi mi dava il bacio della buonanotte, ricordandomi di pregare gesùbambin. Si metteva accanto a me nel letto, per riscaldarmi e soprattutto per riscaldarsi. E continuava a dirmi di pregare a gesùbambin. Mi faceva sentire bollente quando io non sapevo neanche cosa significasse esserlo. E voleva sempre che pregassi gesùbambin mentre lui ansimava. Quest'anno non ne ho potuto più di questo regalo di Natale. Mi sono avvicinato da dietro mentre era davanti al lavandino della cucina e l'ho abbracciato, dicendogli che gli volevo bene. Ti voglio bene. Gli ho tagliato la gola. Buon Natale.


Parte quarta.

‪#‎Paolo‬ ‪#‎Celine‬ ‪#‎Atticopanoramico‬ ‪#‎Vienna‬ 
24 dicembre 21:08
E' la prima volta che passo un Natale lontano dalla mia famiglia, nella città della mia vita, con la donna che amo. Dobbiamo festeggiare. Ci incontrammo qui per la prima volta nel Palazzo della Secessione, davanti al Fregio di Beethoven di Klimt. Ci innamorammo subito e da allora sono poco più di nove anni che stiamo insieme. Finalmente sono riuscito a trasferirmi qui anche io qualche mese fa. Le cose sono decollate, e già sogniamo la nostra famiglia, il nostro Natale in famiglia. Ecco, è come una foto di me e lei sorridenti e spensierati con la voglia di vivere dipinta in volto e immortalata in un millesimo di secondo, con dietro un albero di Natale con le lucine ad intermittenza immortalate anche loro, ancora più dietro, dall'altra parte della finestra, il Danubio. Oggi ho fatto l'uomo di casa, ho preparato la cena, tutta secondo la tradizione di casa mia, perché so che l'adora rispetto alla sua. Il pesce fresco, la pastiera, le pizze fritte, le acciughe. Ho preso un vino bianco del 2008: Cervaro della Sala. Lei è andata a comprare dei fuori che proprio adesso sta sistemando sparsi un po' per tutta la casa, dove ci ameremo dopo la cena. Il letto sarà solo l'ultimo step. Celine! Celine! Non risponde. Abbassa la musica. Vado a controllare cosa. Celine! Celine! Che fai? Posizione ridicola e innaturale, piegata sul tavolo con la faccia in una candela, spenta che fuma. Celine! Il polso non c'è. E' inerte. Telefono per un'ambulanza ma. Tardi. E' morta? Un infarto? Così? Lei è ancora qui, non voglio crederci. Cioè fino a poco fa, diceva che mi amava. I figli. La cena e i fiori. I nostri nove anni. Lei è ancora qui. Vero? Vero? Il Danubio mi risponderà prima o poi. Domande senza risposta. Celine! Celine! Non mi lasciare. Celine. Buon Natale.

Parte quinta.
Fine.
‪#‎Tanino‬ ‪#‎Piazza‬ ‪#‎Pioggiatorrenziale‬ ‪#‎Napoli‬
25 dicembre 17:48
Piove. Ma esco e respiro il freddo umido della mia città. Ho mangiato troppo. Il pollo profanato da altrinonsoquantianimali, uova e pancetta. La pancetta è un animale? Mi sembra di scoppiare, mi manca il respiro. Se ripenso allo sformato di pasta, avrò mangiato almeno trecento grammi compressi di pasta in una porzione soltanto. Lo skyline della città e la pioggia che cade infinita. Fa freddo. E' fredda ma magari mi fa riprendere. Avrei accettato volentieri il bicarbonato che mi ha offerto la zia. Quel muretto era dove io e Dalila ci baciammo per la prima volta, con tutto lo spettacolo di questa città. Ricordo che il Natale dello stesso anno mi mollò. Ero pazzo di lei. E adesso cos'è? Solo un ricordo, su quel muretto vuoto bagnato da litri di acqua. Era proprio bella però Dalia, non nel senso strettamente fisico, cioè era proprio una bella persona, almeno così mi appariva prima e dopo quel muretto, prima che mi mollasse. Ricordo che le avevo preso un regalo di Natale fantastico. Dio. Il cibo. Comunque era una sorpresa, volevo portarla con me a fare il volo dell'angelo. Noi eravamo così, prendevamo la vita dal punto di vista spettacolare e avventuroso. Ricordo che quando mi mollò non le dissi niente della sorpresa. Ho ancora i biglietti conservati da qualche parte. L'acqua è fredda. Dalila. Un regalo immortale. Tanto cibo. Fumare? No, sento proprio l'acido che sale. Dalila e l'acido. Vomito inondando di pollo profanato e pasta integra il muretto dell'amore. L'acqua fa scivolare via lungo i contorni del panorama il mio vomito. Buon Natale.

martedì 2 dicembre 2014

Biglietto di sola andata (?)

Tutti i riferimenti a persone o cose sono intenzionali ( a parte il nome del protagonista che non ha nulla a che vedere con l'attuale presidente del consiglio Matteo Renzi).








Aeroporto di Capodichino – Mattina:  05:17 –un giorno d’inverno.

L’aria fredda di una mattina che non accenna ancora ad albeggiare, è quello che si può sentire in un luogo del genere se si è costretti ad uscire per fumare. Lo sappiamo tutti che nei terminal degli aeroporti la temperatura è regolata artificialmente, non c’è motivo per cui lamentarsi.

L’atmosfera è: ancora buiofreddo e pochi rumori. Più che altro qualche trolley che fa rotolare le proprie rotelle di plastica sul pavimento e incostante e poco frequente viavai di taxi.  Ah, e anche la condensa dell’aria che si ispira che si confonde con il fumo dei fumatori.  Probabilmente fa parte dell’atmosfera l’odore del caffè e dei cornetti appena sfornati.

Adesso siete contenti?

 Nel senso ... non trovate che sia parecchio accomodante e convenzionale come descrizione? Certo, certo. E' colpa mia, lo so. Lo so, non c'è bisogno di sottolinearlo. D'accordo, sono il narratore della storia che sta per iniziare, ma niente di più che un portavoce dell'autore, dovete scusarmi. Noi narratori non abbiamo vita facile, siamo continuamente sotto pressione e dobbiamo stare al passo con i tempi, e come ben sapete la storia corre più veloce delle parole. Ok. Se continuo così, l'autore mi licenzia. Sono davvero così soporifero? Volevo soltanto dirvi in confidenza che se esistono dei mediatori tra voi lettori e gli autori siamo proprio noi narratori. Volevo anche chiedervi scusa se non siamo sempre al top della forma, ma il nostro è un lavoro stressante.
D’accordo, ho finito. Ho finito. Solo altre due parole sull'atmosfera. Credo di averla descritta abbastanza bene, sinteticamente e senza troppi fronzoli. In fondo parliamo di un aeroporto. Probabilmente non è una di quelle descrizioni magistrali che avrebbe fatto un narratore dell’ottocento francese, sapete, quelle descrizioni che con la cura del dettaglio ti fanno entrare nel mondo precisamente come l’immaginava l'autore, ma lui non è un bevitore d’assenzio e neanche uno scrittore di fin de siécle. E' solo un autore moderno. Fuma sigarette e beve birre e caffè perché fa tanto “scrittore dannato”, c’ha la barba e ha sempre con sé il moleskine, che costa un botto. In realtà è uno sconosciuto, quindi non può essere considerato un vero scrittore. Se mai diventerà qualcuno, lo farà perché vorrà piacere al pubblico e a fare sol-
 ----

NdA: In veste di Autore di questa storia vorrei umilmente chiedere perdono per l’interruzione del corso della storia dovuta agli interventi sopra le righe del nostro narratore. E' un brav'uomo, abbiamo avuto qualche discussione riguardo allo stile, ma non ha fatto altro che arricchire la nostra produzione. Adesso gli lascerò fare il suo lavoro
[…]
- Ora prenditi un tranquillante e torna a fare il tuo lavoro, come io sto facendo il mio.-

Eccomi di nuovo da voi. Vi prometto che d’ora in poi la mia narrazione sarà più lineare
Vorrei solo aggiungere che nel bar del terminal la radio trasmette un pezzo di Katy Perry. Un tormentone di Katy Perry più che altro. In realtà se si fa un po’ più di attenzione è uno schermo che trasmette un videocilp: c’è lei che nella sua veste di autoironica popstar superfetata è una Cleopatra un po’ porca che non si accontenta di nessun pretendente. Lei, alla guida di un corpo di ballo super sincronizzato di guardie egizie, flagellatori di schiavi ebrei che giustamente preferiscono realizzare una coreografia sinceramente molto virile che fa il verso ai rapper gangsta del ghetto.

[è lecito che a questo punto iniziate a chiedervi se questa sia una storia, non può certo raccontare di un televisore in un terminal di aeroporto che trasmette video di ironia sessuale, e va bene, ci sto arrivando datemi un attimo]

Matteo. Molti di voi lo conoscono già. Sì dai, lo so che lo conoscete. Una volta era considerato l’accompagnatore, non potete aver dimenticato di lui alla stazione centrale dei treni. Era una di quelle storielle di giovani sognatori e malinconici.  Forse non era il massimo, ma insomma, mi divertii  a scrivere quella storia. Abbiamo deciso di verificare che fine avesse fatto Matteo. L’autore mi ripeteva di controllare se nei post di facebook fosse specificata la posizione così da poterlo raggiungere facilmente, poi gli ho detto che non me la cavo con queste cose e che già avevo sempre rifiutato di ammettere l’utilità di Google Maps. Che miseria, c’è lo stradario, perché mai nessuno usa più gli stradari? E poi, gli ho detto, ti pare che Matteo sia uno che specifica la sua posizione nei post di facebook? L’Autore quindi mi ha guardato socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, perché che ci sarebbe di strano, cioè dico, che cambia tra una foto che descrive precisamente dove sei e la posizione specificata nello stato di facebook? Mi disse proprio così. Ahimè, noi narratori e autori, dobbiamo fare uno sforzo per interpretare il ruolo dell'intellettuale al giorno d'oggi. Ci ostiniamo in tutti i modi  di trovare almeno una componente tecnologica sulla quale accanirci per sottolinearne la sua completa inutilità. Già, come ho fatto stesso io poco fa con Google Maps. In realtà siamo esseri umani come voi, e lo sappiamo tutti che ormai non si può fare a meno di facebook e degli smartphone. Quindi ho spulciato un po' il profilo di Matteo e sono riuscito ad individuare la sua posizione. Certo, lo facevo  più intellettualoide, mi ha sorpreso ...
Chiedo scusa, sto divagando.

Insomma, Matteo è lì in aeroporto, ha appena finito di fumare e sta rientrando perché a breve deve portare ad imbarcare la valigia, passare la sicurezza e aspettare che l’aereo sia pronto ad accoglierlo. Aveva deciso che non avrebbe più accompagnato nessuno alla stazione dei treni, si chiedeva se avesse trovato qualcuno che l’avrebbe accompagnato all’aeroporto, ma in realtà adesso è lì a fissare il culo di Katy Perry e non pensa a niente di tutto questo. In fondo, pensa Matteo, non è poi tanto male decidere di dire basta con i treni e con il passato, quindi cosa è meglio di volare? Che bisogno c’è che qualcuno ti accompagni? L’aereo per New York è uno e solo andata e lui sa che lì ci sarà una nuova trama da ricamare con più dimestichezza. Trama da film o romanzo poco conta, ché tanto sono la stessa cosa.

Il Romanzo.
Appunto del Romanzo volevo parlarvi. E’ la storia di quel Romanzo che forse l’ha segnato più di qualunque altra donna accompagnata alla stazione centrale dei treni. Matteo scrive da quando è adolescente, lo fa perché tanto ormai lo fanno tutti e perché in fondo è giusto così, perché c’è sempre qualcosa da scrivere, anche se è stato scritto già tutto e forse l’unico modo per vivere è proprio scrivere. E’ una questione logica: se devi scrivere sai che hai bisogno di vivere, di conoscere il mondo e come vanno le cose e come sono le persone e come la letteratura può essere interessante e come la letteratura può essere terribilmente noiosa e, e … sto dicendo troppi “e”. In pratica, se devi scrivere hai bisogno di vivere, se hai bisogno di vivere hai risolto tutti i problemi di questo mondo.
Matteo e altri due tizi decisero di scrivere un romanzo, provare a pubblicarlo e magari ricavarci un po’ di soldi. Era una questione puramente materiale, infatti decisero tutto a tavolino. Sarebbe stata proprio una di quelle storie scritte per la gente, perché si sa che la gente vuole quello. Come biasimarli? A loro piaceva scrivere, lo facevano discretamente e avevano tante idee per concretizzare e vendere la cosa. Erano mesi che ci lavoravano, e ogni volta si incontravano a casa di Luca. Bella casa quella di Luca, fu questo il pensiero di Matteo la prima volta che ci entrò. Matteo, Luca e Alex non si conoscevano da molto tempo, entrarono in confidenza solo nel momento in cui decisero di scrivere il romanzo. Un altro pensiero che ebbe Matteo quando entrò a casa di Luca fu notare che anche la sorella di Luca era bella, non era soltanto un questione di casa. Probabilmente era una fatto genetico che riuscivano a trasmettere anche agli oggetti.
La ripetizione è la base di qualunque rapporto umano. L’essere umano vive grazie alla ripetizione e all’imitazione. L’educazione e la tradizione si basano su questo. La Storia si basa su questo.
Quindi i tre amici si incontravano due sere a settimana, per discutere e prendere appunti. Mai una volta in meno e sempre gli stessi giorni: la domenica e il mercoledì. Così Matteo poté conoscere ogni sfumatura della bella immagine della giovane sorella di Luca.

Viola. Aveva quindici anni, eppure l’espressione dei suoi occhi sembrava voler smentire la carta d’identità. Luca diceva sempre che era una pazza bipolare. Matteo non si fece troppe domande, capì che la ripetizione di quegli incontri  tra scrittori si alimentava anche nell’incontro con la sorella quindicenne del suo collega. Viola parve subito incuriosita da Matteo, come se lui avesse portato un’aura nuova e destabilizzante in quella casa. Un giorno furono le note di Do I Wanna Know degli Arctic Monkeys, che fuggivano dalla stanza della ragazza, a far smuovere qualcosa nella testa di Matteo. Decise infatti di alzarsi e di andare via. Aveva capito che il punto non era quel romanzo, ma il Romanzo che avrebbe scritto lui, un romanzo su Viola. Sarebbe stato un gioco che avrebbe avuto inizio con la seduzione. Sapeva che Viola era lì e non aspettava altro che lui le desse appuntamento. Decise quindi di creare una ripetizione. Finse di essere di passaggio presentandosi ogni  giorno fuori la scuola di Viola. Un giorno le sorrise soltanto, quello dopo la salutò agitando la mano da lontano, il terzo giorno le disse “ciao” e lei già sembrava pronta a concedersi, ma Matteo capì che doveva attendere ancora un po’. Il quarto giorno fecero un tratto di strada insieme, il quinto decisero di mangiare un panino insieme, il sesto giorno si ritrovarono in un parco e lì Matteo scoprì quanto una ragazzina di quindici anni possa saperne molto di più in materia di sesso rispetto a molte ragazze sue coetanee. Forse era questo che gli occhi di lei comunicavano. Dopo qualche minuto confessò di essere stata violentata costantemente per anni dal padre quando era più piccola, e che era tutto merito suo se se la cavava in materia di sesso. Viola sorrise riabbottonandosi  il jeans.
Matteo inizialmente pensò che fosse una battuta di dubbio gusto, ma non rise. Qualche secondo dopo comprese che era la verità quindi rimase senza fiato e con un gozzo alla gola. Era sconvolto, non sapeva se più dalla notizia in sé o dalla naturalezza che assunse Viola nel raccontarla. Era come se avesse appena raccontato del giorno in cui si era procurata una cicatrice ad un dito della mano destra, una di quelle cose che si raccontano ai fidanzati che mentre studiano ogni millimetro del tuo corpo, scoprono segni indelebili e li analizzano come se fossero delle prove di un’indagine. E’ così che lentamente ci si conosce scavando banali souvenir di una vita.
Matteo finse di non essere stato toccato, la ascoltò e ne parlarono come se si stesse parlando di una storiella del passato come un’altra. Il padre era poi morto circa due anni prima del momento in cui stavano parlando. La loro storia di educazione sessuale era durata circa tre anni. Lei ne aveva dieci quando “le lezioni” ebbero inizio.
Quella sera Matteo tornò a casa e non mangiò. Rimase steso sul letto a fissare il soffitto, poi capì che non avrebbe dormito. Iniziò a scrivere il Romanzo. Ogni incontro con Viola arricchiva la notizie che avrebbero infoltito il suo Romanzo. Eppure lo inquietava la rilassatezza con la quale la ragazzina raccontava di quell’orribile abuso, che anzi da lei era considerato un corso accelerato di educazione sessuale. Lui, Viola ne era convinta, non l’aveva violentata, più tecnicamente le aveva insegnanto a fare bene quello per cui era stata messa al mondo.
Matteo aveva lo stomaco chiuso da giorni per l’amarezza, eppure continuava  fingere pur di prendere appunti.
Luca non ha mai saputo niente di questa storia tra te e tuo padre?
La ragazzina rispose frettolosamente scuotendo la testa , non credo.
Quando il Romanzo di Matteo era quasi compiuto lo fece leggere a Luca. In fondo la storia era stata ben romanzata e solo lo scheletro poteva ricondursi agli abusi subiti da Viola, ma lo scheletro era stato ben coperto da tanta altra sostanza. Quando Luca ebbe letto il Romanzo, disse a Matteo che avrebbe dovuto cestinarlo tutto, perché era una storia che un editore non avrebbe mai pubblicato. Matteo fu sorpreso dalla inamovibilità del giudizio di Luca, non era mai stato così perentorio e duro nel dare un parere. Il giorno dopo Alex chiamò Matteo dicendogli che Luca aveva tagliato la gola a Viola e poi si era buttato giù dalla finestra. Il Romanzo fu cestinato.

Capodichino – Mattina: 05:59 –un giorno d’ inverno.

Matteo ha consegnato la valigia e si dirige lentamente verso la security. In questo momento riflette su quanto l’aeroporto sia un posto dinamico e potenzialmente pieno di storie succose. Come le stazioni dei treni, sono luoghi di passaggio per persone che sono in movimento per qualcosa. Ci si muove quando non se ne può fare a meno. Ci si sposta per due motivi soltanto, uno è istintivo e l’altro è emozionale.  Matteo pensa a quando lavorava in aeroporto e incontrava gente di tutti i tipi, ogni santo giorno. Era un lavoro emozionante. Adesso iniziavano a definirsi i motivi per cui le persone viaggiavano e soprattutto migravano. Non potevano che esserne essenzialmente due: la sopravvivenza e l’ amore. Matteo ricorda giovani come lui con gli occhi spenti che dopo una breve visita al loro paese natale erano tornati in quello che gli aveva dato un lavoro e un modo per sopravvivere. Non sempre chi vuole fare affari con te è pronto ad ubriacarsi, ridere e ballare con te. Ricorda madri che non spiccicavano una parola di altre lingue al di fuori di quella madre, e credetemi il gioco di parole non era voluto, fare viaggi intercontinentali per assicurarsi che i figli vivessero nel migliore dei modi. Matteo ricorda persone incazzate nere per l’aereo appena perso per colpa della compagnia di bus nella quale lavorava.
Ricorda di quell’uomo all’aeroporto di Cork. Un momento …
Dopo essersi slacciato la cinta, Matteo svuota le tasche e si leva l’anello che di solito porta all’anulare destro. E’ in procinto di passare il metal detector, ma proprio prima di lui gli addetti alla sicurezza strappano di mano una bottiglia d’acqua ad un tipo alto circa un metro e ottanta. Signore, ma lei qui non può bere, gli urlano contro, e il giovane risponde perplesso, mi scusi, pensavo di poterla finire prima. Matteo sorride pensando quanto il concetto di tempismo possa variare da persona a persona. Peccato che le regole per essere tali non possono essere arbitrarie.

L’uomo innamorato.
Era l’uomo a cui mi stavo riferendo prima, prima di divagare perché non era il caso di perdersi il momento in cui Matteo conosce il suo compagno di viaggio. E’ vero ve lo sto anticipando, ma intanto io ho il potere di narrare. Il massimo che potete fare voi è ignorare come la storia continui, ma stavo giusto per rimembrare una grottesca storia d’aeroporto. Davvero ve la perdereste?
L’incontro con l’uomo innamorato risale a quando Matteo lavorava all’aeroporto di Cork in Irlanda. E’ un piccolo aeroporto, che non sostiene neanche la metà dei voli che ha Dublino. Matteo lavorava per una compagnia di bus che collegava l’aeroporto di Cork con il centro di Dublino.  Stava in un ufficio e faceva un po’ tutto: addetto alle vendite e alla contabilità, assistente alla clientela,oltre che responsabile alle partenze dei bus. Era un lavoro piacevole anche se a turni. Quella notte era il suo ultimo giorno di lavoro. Aveva dato un preavviso giusto trenta giorni prima, perché doveva tornare nella sua città e chiudere alcuni conti con il passato. Quella notte avrebbe dovuto chiudere l’ufficio e far scivolare la chiave sotto la porta – così da farla trovare alla sua manager la mattina dopo -, riposare qualche ora su un divanetto di Starbuck’s per poi prendere un aereo che avrebbe fatto scalo ad Amsterdam. Un mese prima non vedeva l’ora di andare via, quel giorno qualcosa era cambiata: si rese conto che avrebbe detto addio a delle persone con le quali aveva vissuto una fase della sua vita, i suoi colleghi, ormai i suoi amici. Cercava di darsi un tono ma non faceva altro che arrovellarsi la mente, chiedendosi se fosse la cosa giusta quella che stava facendo.
Stava mettendo in ordine alcuni reports quando sentì avvicinarsi un uomo a passo lento che parlava al cellulare spensierato, gli sembrava spagnolo, sì, era proprio spagnolo. Attese che la chiamata terminasse prima di rivolgersi per chiedere come sarebbe potuto essere d’aiuto. L’uomo stava sicuramente parlando con una persona della quale era innamorato. Era più che evidente, sapete, si capiva da quel sorriso che un uomo non riesce a controllare neanche per preservare la sua virilità apparente.
Matteo: Hi! How can I help you?
L’uomo innamorato: Hi! Oh, well … It’s a little bit complicated. I should be in Edinburgh tomorrow at 3:00 p.m.
Matteo: Wow! You have the whole night! Ok, the next flight to Edinburgh is tomorrow at 7a.m.! It’s the fastest way.
L’uomo innamorato: Oh, no it’s very important that … I need to get a boat from Dublin to Liverpool.
(sorrise)
Matteo: Ah, ok. Perfect! I’m your man. Our company …
(credo che sia superfluo specificare tutto quello che disse Matteo , insomma spiegò che la loro compagnia aveva un bus che l’avrebbe portato a Dublino nei pressi del porto dove avrebbe potuto prendere il traghetto che partiva mezzora dopo l’arrivo del bus, quindi si trovava precisamente con la coincidenza, poi si preoccupò di spiegargli come da Liverpool avrebbe potuto prendere un altro bus di un’altra compagnia che l’avrebbe fatto arrivare prima delle due del pomeriggio ad Edimburgo).
L’uomo innamorato: Thank you very much, dude! I’ll get a one-way ticket. Oh … Do you accept pounds?
Matteo: Of course I do!
(gli pose una strana banconota che Matteo guardò attentamente e poi disse ridendo che non l’aveva mai vista prima, l’uomo gli chiese il motivo, poiché erano semplicemente 10£ scozzesi, erano molto comuni. Matteo distrattamente rispose che era italiano e quindi non conosceva tutte le banconote esistenti nel Regno Unito).
L’uomo innamorato: Sei italiano!
Matteo: Parla anche italiano? L’ho sentita parlare spagnolo poco fa, al telefono.
L’uomo innamorato: Ah sì, la mia ragazza è spagnola.
Matteo: E come mai conosce l’italiano? Anche lei è italiano?
L’uomo innamorato (ridendo): Ma no, io sono polacco, piacere Mark!
Matteo: Ma è incredibile, parla benissimo la mia lingua, complimenti.
I due nel giro di cinque minuti si ritrovarono subito in sintonia. Matteo gli chiese come facesse a conoscere tutte queste lingue e lui gli rispose che aveva lavorato tanto all’estero. Era cuoco in un ristorante di Edimburgo. Matteo non se la bevve, era davvero poco credibile, Mark avrà avuto massimo una trentina d’anni e nel giro di cinque minuti l’aveva sentito parlare senza alcuna inflessione tre lingue diverse e l’accento è quasi impossibile cancellarlo. Era come se Mark fosse stato cresciuto da genitori che parlavano correntemente più di una lingua. Matteo l’avrebbe messo subito alla prova per la quarta lingua, quella che sarebbe stata la sua lingua madre, con l’autista del bus che era polacco anche lui.
Waldek, l’autista, era un uomo sulle sue, anche se aveva un’espressione facciale placida. Nonostante comunicare con lui fosse quasi completamente impossibile, poiché la conoscenza del suo inglese si limitava ad alcune frasi elementari necessarie per sopravvivere, divenne un suo amico. Riusciva a comunicare con dimestichezza solo con i suoi colleghi, tutti polacchi. Pensate, un’intera azienda di bus con soli autisti polacchi in Irlanda. Waldek e Matteo erano diventati buoni amici comunicando per lo più con espressioni facciali. In quel momento Matteo non vedeva l’ora di far incontrare i suoi due amici e mettere alla prova Mark, il misterioso uomo innamorato che parlava mille lingue, magari erano solo chiacchiere. Tre lingue è quasi comprensibile conoscerle ad un livello madrelingua, quattro iniziano ad essere roba da fenomeno da baraccone.
Waldek stava fumando fuori al bus, e sembrava quasi offeso dal ritardo di Matteo, perché il bus di quell’ora era sempre quasi vuoto quindi avevano modo di scambiarsi qualche espressione e tentare di comunicare in qualche modo, e comunque nonostante tutto Waldek aveva capito che era l’ultima notte di Matteo e voleva salutarlo come si deve. Nel momento in cui Matteo giunse allo stazionamento di fronte al terminal dell’aeroporto, con al fianco un altro uomo, Waldek si immobilizzò, quindi prese il cellulare e mandò un messaggio. I due si presentarono e allora Matteo li fissò a turno dritto negli occhi. Mark is polish, disse a Waldek. I due appena presentatisi iniziarono a parlare in una lingua che non posso riportare qui, perché, chiedo venia, non conosco il polacco. Matteo stupefatto si sentì una nullità, così chiese a Mark quante altre lingue parlasse. Quest’ultimo sorrise, quindi gli disse che erano abbastanza quattro, no? Nel giro di circa una ventina secondi di silenzio ci furono scambi di occhiate tra i tre e negli ultimi sei, cinque, quattro, tre … Mark e Waldek si fissavano. Mark guardò Matteo e lo ringraziò dicendo che avrebbe preso un taxi, quindi fece per andare via. Waldek disse qualcosa in polacco. Mark si immobilizzò istantaneamente. Mantienes la calma, el hombre es bueno, gli disse. Waldek gli rispose paradossalmente in perfetto inglese, Ok, back on your steps, and you Matteo come back to the office, please. Matteo non capiva più nulla, all’improvviso Waldek capiva lo spagnolo e parlava perfettamente inglese e pareva minacciare il loro unico cliente. Waldek, fissò compassionevole Matteo quindi cambiò nuovamente lingua: torna dentro, per piacere, gli disse con calma. Mark parve approfittare del momento per provare a scappare, ma Waldek fu un fulmine e in due passi gli immobilizzò il braccio, mettendogli una mano sotto la giacca. Quella mano impugnava senz’altro una pistola, quindi Matteo rimase senza parole.
I due si riavvicinarono al bus. Mark guardò Matteo con un sorriso rassegnato. Waldek era serio, all’improvviso sembrava un’altra persona, un uomo pieno e sicuro di sé, una macchina abituata ad eseguire gli ordini alla perfezione. Mark, l’uomo innamorato, si rivolse al giovane italiano, mai fidarsi completamente dei mezzi di trasporto iper-proletari, e neanche di un piccolo aeroporto come questo. Rise. Comunque, continuò l’uomo mentre veniva spinto a salire sul bus, conosco anche il francese, l’arabo e il ted…
Waldek gli sparò dritto al centro della testa.
Matteo non si mosse.
 Waldek gli si rivolse con una delle sue solite espressioni fraterne, mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo, ti auguro buon ritorno, Matteo. Gli porse la mano per stringergliela e in quel momento il suo sguardo sembrava supplicarlo di non costringerlo a dover fare quello che non voleva fare. Si salutarono. Matteo tornò in ufficio, lo chiuse a chiave quindi fece scivolare quest’ultima sotto la porta. Attese l’ora per il check-in. Provò a riflettere e pensò alla ragazza di Mark. Due minuti prima si era sentita dire “te quiero” , poi il suo uomo l’aveva abbandonata per sempre. Matteo rifletteva che nei film o nei libri, a meno che non si tratti di storie di ossessioni, la morte degli amanti sembra sempre qualcosa che facilmente ci si butta dietro le spalle, come se tutti avessimo una vigile coscienza dell'inevitabilità della morte, sottovalutando la perdita e la mancanza della persona amata. La verità è che la mancanza di qualcuno finché non la si vive non si può descrivere, e che solo chi ama può provarla. Non c'è niente di più vero della morte, perché è definitiva, per sempre. L'amore non è per sempre, la morte sì. In quel momento la ragazza di Mark era ancora convinta che il cuore di Mark pompasse sangue e che il cervello fosse ancora in attività e che entrambi questi organi fossero ancora spinti a pulsare energia anche, e soprattutto, grazie a lei. L’amore e la sopravvivenza fanno viaggiare le persone, si ripeteva Matteo. Adesso Mark non era più Mark, ma soltanto carne morta, e prima o poi la donna, che grazie a quella carne, che prima aveva il potere di emozionarla, non sapeva cosa fosse la solitudine, sarebbe sprofondata in un vuoto assoluto, incolmabile. Avrebbe sofferto per un evento che sarebbe stato evitabile soltanto se, magari, quella carne morta quando era ancora Mark avesse preso un taxi, se Matteo fosse stato meno convincente, se Matteo fosse stato un cattivo lavoratore. Non importava più chi realmente fossero Mark e Waldek adesso. Quella donna adesso sarebbe stata sola e nessuno se ne sarebbe preoccupato. La verità è che siamo sette miliardi, troppi per preoccuparci della morte di tutti.
Decise di smettere di pensarci. Si rese conto che sarebbe stato inutile e che si era ritrovato coinvolto in una situazione molto più grande di lui. Realizzò che aveva avuto la fortuna di essere come era, di essere ben voluto dal mondo. Questo gli aveva dato la possibilità di vivere ancora, quindi attese soltanto l’ora giusta per fare il check-in.

Aeroporto di Capodichino – Mattina:  06:15 –un giorno d’inverno.
Superare la security in Italia è molto facile. E’ altrettanto facile rompere il limitatore di un accendino che automaticamente diventa un lanciafiamme abbastanza pericoloso per dirottare un aereo. Quanti passeggeri ogni giorno superano il metal detector con un accendino senza che venga individuato dalle autorità? Matteo si rigira nelle mani quell’accendino, riflettendo su quanto pericoloso potrebbe diventare, se solo lui lo volesse. Un bel replay dell’undici settembre, perché no? Una lezione per chi non ha ancora capito il valore della vita. Sei banale Matteo. Sei arrivato a copiare concettualmente i fondamentalisti islamici, mi aspettavo qualcosa in più da te. In fondo adesso poserai quell’accendino in tasca e accederai a facebook, con un paio di scroll ti renderai conto di quanto malessere è mal’espresso dalle persone, perché anche una foto di un gattino non è altro che malessere espresso.
Ecco che abbiamo un suo post:
Matteo La*****
Mi mancherai mia cara città, see ya on the otha’ side!
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Che bravo, dopo circa dieci secondi sei già a cinque Mi piace, questo è meglio degli antidepressivi. Pensi a quanta gente ti sta stimando per il coraggio preso per partire e quante altre si rammaricheranno e penseranno che dovresti restare. “Se ne vanno sempre i migliori”. Ma non è mica morto? Scrolla ancora un altro po’ sul touchscreen e il sorriso ironico e seducente di Katy Perry spacca lo schermo con i suoi oltre settantacinque milioni di Mi piace. E’ sempre lì, il sogno, come tante altre come lei, non è di certo l’unica, ma fa sognare e fa bene, è un antidepressivo di facile reperibilità. Poco più giù, scrollando, Matteo nota una foto di una ragazza, una ragazza di cui è probabilmente innamorato perché di tante lo è. L’innamoramento è una cosa divertente, non ha niente a che vedere con l’amore fortunatamente, è qualcosa di più leggero, come le canzoncelle di Katy Perry che non hanno la profondità di una Stairway to Heaven o di una Shine On You Crazy Diamond. Bisognerebbe vivere per innamorarsi, non per amare.
Matteo sorride, la ragazza nella foto gli ha dato tanti bei momenti e sa che non la dimenticherà mai, l’avrà tutti i giorni a portata di palmo di mano e un giorno sicuramente si rincontreranno dal vivo. Magari lei avrà dei bambini quel giorno, e lui la riconoscerà dalla voce. Ecco, è la voce che sicuramente gli mancherà. Matteo ripone lo smartphone nella tasca e continua la sua strada attraverso il duty free. Centinaia di boccette di profumi Chanel n.5, Jean Paul Gaultier, Blu Bulgari, Narciso Rodriguez, The One di Dolce e Gabbana. Avete ragione non sono un catalogo di profumi, però per noi narratori è difficile descrivere l’essenze dei profumi, abbiate pazienza. Matteo supera piramidi di stecche di pacchi di sigarette, scaffali stracolmi di barrette di cioccolato giganti. E’ poco interessato a tutta questa abbondanza, ma si accorge che alla cassa del negozio c’è il tipo che pensava di poter bere mentre passava la sicurezza sotto il metal detector. Il tizio compra diverse bottiglie di acqua e qualche barretta di cioccolato gigante in confezione dorata. Dà l’idea di un bambinone. Matteo sorride e gli si avvicina prendendo al volo una barretta che era sfuggita alla presa del goffo ragazzo. Oh, grazie, gli dice. Figurati, eccola qua, gli risponde Matteo. Il tipo lo guarda e scoppia in una risata asmatica. Bello, questa era per me, aspetteranno fin quando non saranno dentro la tomba prima che porti loro qualcosa di buono, dice infilando tutto in una grossa busta di plastica, bello, nessuno si merita mai quello che meriti tu. Matteo sorride e compra un pacco di chewin’ gum . Dove sei diretto, gli chiede il tipo goffo. Matteo gli risponde, New York. Perfetto, anche io, gli replica il tipo,  se ti siedi vicino a me la dividiamo. Indicò con lo sguardo la cioccolata nella busta.  E poi, ti racconterò il motivo per cui devo volare a New York, è una storia interessante. Matteo riflette sul fatto che tutti pensano di avere storie interessanti, ma in fondo un compagno di viaggio non può nuocere a nessuno. I due si dirigono verso il gate d’imbarco, e il tipo goffo ha una bella parlantina. Aerei che atterrano e altri che decollano, fischi di giganti nell’aria. Profumo di caffè tostato e cornetti sfornati. Gli aeroporti sono questo e le tante storie che ognuno si porta con sé. Storie di nullo o enorme interesse, perché dipende soltanto dai punti di vista. Matteo prende posto sull’aereo e guarda dal finestrino.
Lo posso vedere da qui, o almeno riconosco il finestrino. Eppure lui non sa chi sono, per lui sono uno dei suoi tanti follower su facebook.

Su caro, per oggi può bastare.
Ah, davvero?
Sì, va bene così, che ne dici di una birra?
Non devi per forza farti perdonare, lo capisco che è il tuo lavoro e devi far filare tutto …
Shhhh, dai, va bene così, tutti abbiamo dei momenti di crisi, non sei il primo narratore con il quale ho discusso … piuttosto come vanno le cose a casa?
Ah, questa cosa mi rincuora. Beh, ti dirò, ce la caviamo, potrebbe sempre andare meglio, ma io mi accontento, in fondo faccio quello che voglio nella vita.
Il tuo è un lavoro fantastico. Va bene! Si è fatto tardi, amico, io me ne vado a casa. Buonanotte.
Buonanotte a te, e saluti in famiglia.

Questo è il mio lavoro, già. E’ un lavoro figo, devo praticamente soltanto vivere!



sabato 29 novembre 2014

Emergere.

I fogli bianchi esercitano ancora lo stesso fascino su di me.
La solita attrazione fatale.
Il dolce vecchio desiderio di riempirli con un fiume in piena di emozioni.
Ricordi, sogni, obiettivi, passioni e desideri.
Passioni e desideri.
Passioni e peccati.
Vivo. Vivo tutto sulla mia pelle, graffiante e leggero.
Scivola, scivola via la mente.
Libera.
Adorabili vecchi avvolgenti gruppi musicali di sempre.
E scivolano via le note, per me naturali come il mare, il vento, la pioggia, le foglie che scricchiolano sotto i piedi durante l'autunno.
Cadono, ondeggiano, volteggiano, muoiono.
Il freddo è bello solo se c'è caldo dentro.
Se stringo le braccia posso sentirlo. Il cuore che pulsa e freme, mi riscalda.
Il calore non è liquido sulla mia faccia, ma denso e forte al centro del mio petto e da lì si espande, pervade, esce ed avvolge.
Il passato tenta sempre di confondere.
Respiro.
Respiro a pieni polmoni un futuro incerto. Dolce ed inebriante come la cannella.
Dolci malinconiche parole di una canzone morbida.
Stand-by.
Chiudo gli occhi ed è buio. Nella mia mente ci sono solo io. Nessun colore, nessuna immagine, nessuna parola. Io.
Così attimo per attimo prendo coscienza del tempo che passa.
Il tempo che passa. Incessante e pericoloso.
Andare via, perdersi e non tornare indietro. Casa è dentro di me.
La mia casa sono le mie emozioni, e io sono la casa delle mie emozioni.
L'importante è non perdersi da soli.
Non importa dove, non importa come, non importa perchè.
Molte volte perdersi è il miglior modo per trovare se stessi.
Tra le pagine di un libro. Emigrare. Allontanarsi. Scoprire un nuovo mondo dentro noi stessi con in mano un libro al posto di una bussola. Leggere un libro come guardare nel cielo la stella del Nord.
I libri sono come le persone, e le persone sono come i libri.
I libri non contengono forse sentimenti, desideri, emozioni, passioni, sogni, paure, e tormenti, proprio come le persone?
Ecco, i libri sono come le persone...solo che loro non tradiscono.
Non bisogna avere la presunzione di affermare che un libro non si giudica dalla copertina, perchè è esattamente quello che l'essere umano fa per natura con qualunque cosa si confronti.

Se vivessi in una libreria sarei una persona migliore.  

martedì 25 novembre 2014

Di notte e di cose antiche

Che strana questa notte, così solitaria eppure così piena di vita. Il lunedì sera che sembra assonnato ma non lo è, posso vederlo nelle luci ancora accese delle case, alle cinque di mattina. Sembrano tanti piccoli fuochi fatui, che danzano e risplendono dentro questo cielo così scuro e cattivo, nero di pece ed ebano, scheggiato da nubi. Lo percepisce l'anima mia, inquieta, alla ricerca di un qualcosa che è nascosto dentro ogni cinque del mattino del lunedì, che è già martedì ma il mio letto dice di no, che ancora può aspettare il nuovo giorno, c'è da sognare prima. Mura a sbarrare la mia vista, antiche agli occhi ed al tatto, dai toni opachi di chi molto ha da raccontare ma poche orecchie ad ascoltarlo, l'esatta espressione che un muro deve avere. Ed è tutto antico ed è tutto contemporaneo: ladri e borsaioli agli angoli delle strade, nascosti nell'ombra della violenza dettata da necessità, necessità dettata sempre da altri, solitamente baroni o re, o principi, o attitudine. Cavalieri e massaie si affannano nelle strade prima di terra, ora d'asfalto; erranti d'ogni tipo si accalcano sui marciapiedi, cavalli macchine come squali, mosconi e cavallette, centauri biruote, la plebe, tutti all'ombra di queste mura antiche eppure ancora in piedi, a delimitare cosa di preciso ora non si sa, nemici forse, samaritani, venditori di tappeti persiani. Le chiese abbondano di fedeli ora come prima, clerici vagantes, appestati e devoti, ed io andavo per i boschi, perchè volevo vivere fino in fondo, e succhiare il midollo della vita stessa come un assetato, perchè la paura di voltarmi e vedere che non ero vissuto è sempre tanta, come prima così ora. E le mura mi parlano, perchè la notte è fatta per chi sa prestare orecchio: raccontano storie antiche, di case precedenti alla mia, di anime e corpi transitati per queste stanze prima che la mia anima stessa fosse concepita, e per ognuna una storia,una scintilla, qualsiasi cosa. E come prima il bosco, e dove c'era il bosco ora rimane un albero, e i ricordi sbiaditi delle carovane passate sotto di lui. Le parole si affannano e mi sfuggono, perchè gli alberi respirano le nostre conversazioni e le esalano nel vento, ed ogni nuova stagione raccontano una storia, nata di primavera, cresciuta d'estate, dormiente di sogni leggeri d'autunno e bruciata d'inverno, in un funerale vichingo per scaldare i vivi. La notte si spegne ora, il mattino pallido avanza lento ma deciso fino all'ora in cui sarà radioso, ed io torno a casa. Un vento leggero mi tocca la spalla, e mi giro a guardare le mura, e l'albero, che freme un poco, e in quel fremere posso sentire distinta una parola, un sussurro:

torna.


lunedì 10 novembre 2014

Cenere

A chi è relegato nel mio passato.
E a chi nonostante tutto, per uno scherzo del destino,
ne uscirà per far parte del mio futuro

Una volta la mattina mi svegliavo pieno di forza. Mi svegliavo con il suo corpo fra le braccia e lo baciavo fino a farla svegliare. Avevo aperto gli occhi da poco più di un minuto e già volevo fare l’amore, e anche se all’inizio mi diceva di no avevo sempre la forza di riuscire a convincerla. Andavamo avanti per ore e alla fine ridevamo e facevamo tutte le cose che fanno le coppie felici dei film.

Oggi mi sono svegliato e la prima cosa che ho sentito è stata la debolezza del mio corpo. Non ho avuto bisogno di muovermi e sentire la resistenza delle coperte per saperlo, lo sentivo nelle ossa. Allora non mi sono mosso affatto, perché non volevo sentire la mia debolezza. Ho passato ore immobile in un circolo vizioso di pensieri ma alla fine sono riuscito a spostare le coperte e barcollare fino al bagno. So bene come è la mia faccia quando sono felice, perché ho tante foto con amici e ragazze e conosco quella luce nei miei occhi. Una persona al suo meglio. Oggi, invece, nello specchio c’era un animale: trasandato, stanco, selvatico, i capelli sporchi e la barba incolta, gli occhi rossi e le labbra strette in un nodo che serve a trattenere le lacrime. Quando sei felice ti fai delle foto, quando sei triste hai solo lo specchio per sapere quanto ti si legge in faccia. Perché da solo puoi vedere i piedi strascicati, puoi vedere le mani rovinate per gli oggetti spaccati e presi a pugni, ma non puoi vedere la luce nel fondo dei tuoi occhi. Mi sono guardato piangere e urlare allo specchio, digrignare i denti e contrarre i muscoli, e ho capito in quel momento che stavo male perché il mio corpo stanco, debole e spezzato dal pianto e dal digiuno non poteva gestire tutto il calore generato dalla mia anima che bruciava con violenza.

Una volta ero in camera da letto con lei, e sapevamo trasformare qualunque cosa in un gioco. Uno stupido libro, i nostri corpi, le parole, quella sera delle strisce di pelle e dei fili di lana. Se c’è una cosa che ho imparato nella vita è che gli innamorati si regalano bracciali. Mi basta aprire il baule delle ex fidanzate per trovare decine, risalenti a vari periodi della mia vita. Eppure, c’è un’enorme differenza di significato fra un oggetto comprato in un negozio e un oggetto fatto a mano, dalle stesse mani che si cercavano sotto le coperte o che si tenevano per strada. Quella sera, dopo aver legato l’ultimo filo ed esserci compiaciuti della nostra bravura artigianale, le ho mostrato il baule delle ex fidanzate. È una sorta di posacenere, come quello che ho sul tavolo, con l’unica differenza che non lo uso per spegnere sigarette ma per spegnere ricordi. Ed esattamente come i posacenere, è una fossa comune sul cui fondo si trova uno strato di tabacco bruciato e ricordi indistinti, mentre sopra ci sono le sigarette appena spente, o quelle poggiate con l’intenzione di riprendere a fumarle. Abbiamo aperto il baule e le ho mostrato i vari oggetti contenuti al suo interno.

Due bracciali di gomma che comprai con una donna che ho amato follemente e che ora è diventata una delle tante sigarette che imbrattano il posacenere. Li comprammo in un giorno di pioggia, mentre avanzavamo stretti sotto un ombrello fra le strade di una cittadina grigia in un paese straniero, e li ho tenuti al polso finchè non si sono spezzati, mi hanno accompagnato per anni, mentre il nostro rapporto si evolveva, cresceva, si fermava, si riprendeva e appassiva, mentre ce ne prendevamo cura come si fa con una pianta, a volte esagerando, a volte dimenticandolo, e fino al punto in cui si è trasformato in qualcos’altro. La storia di due ragazzini era diventata quella di due giovani adulti, i braccialetti di gomma sono stati sostituiti da uno di cuoio comprato ad una fiera dell’artigianato in un altro paese straniero, che mi è rimasto al polso finchè non si spaccò in due senza preavviso mentre ero in un ristorante con una ragazza appena conosciuta. Quando quella storia è finita, ho posato i tre braccialetti nel baule, assicurandomi di metterli sopra a tutto il resto. Sentivo che avrei avuto bisogno di tirarli fuori a breve.

Una busta di tabacco vuota. Una turista conosciuta alla fermata dell’autobus, a cui mi sono offerto di fare da guida. Era finita da poco con la ragazza che mi regalava braccialetti di gomma, e avevo bisogno di prendere aria prima di cercare di riportarla fra le mie braccia. Portavo ancora al polso il bracciale di cuoio mentre accompagnavo la turista in giro, la portai a mangiare al mio ristorante preferito, e mentre chiacchieravamo mi accorsi che il bracciale si era rotto. Scelsi di interpretarlo come un segno e la invitai a casa mia. Non era una stupida, aveva capito le mie intenzioni, e sulla via di casa iniziò a fare battute sottili e insinuazioni, alle quali io rispondevo a tono. Era un gioco divertente, entrammo nel mio appartamento al secondo piano come due guerrieri in preda al furore della battaglia, ma a quel punto ci fermammo a guardarci negli occhi. Eravamo due ragazzini, spaventati, insicuri, sapevamo cosa volevamo fare ma non sapevamo come iniziare. Le offrii un caffè e la guardai fumare una sigaretta. La busta di tabacco era finita, allora la lasciò sul tavolo. Qualche ora dopo raccolse i suoi vestiti e se ne andò. Non l’ho mai più rivista ma ricordo il colore dei sui occhi, il sapore delle sue labbra e il suono del suo nome. ho buttato la busta nel baule con una risata, pregustando il momento in cui l’avrei ritrovata anni dopo e mi sarei ricordato di quel giorno.

Un bracciale fatto a mano, da un’amica della ragazza che mi regalava braccialetti di gomma. Un’amica che aveva un negozio on-line in cui vendeva le sue creazioni. Mi fu regalato quando, dopo la mia avventura con la turista e qualche altro mese di lontananza, la convinsi a riprovarci. Tirai fuori gli altri bracciali dal posto d’onore che avevo riservato loro sul punto più alto, perché come avevo previsto, mi sarebbero serviti di nuovo. Quel bracciale sottile, legato da un filo elastico, mi tenne compagnia in tutto il secondo atto di quella storia, fino alla fine vera e propria, fino al momento in cui guardai tutte le mie speranze e desideri per il futuro sgretolarsi come cenere quando dai un colpo di dita sulla sigaretta che stai fumando. E insieme a quel bracciale, c’erano tutti gli oggetti del secondo atto, i biglietti di un treno, le ricevute di un albergo, una sua foto. Quando finì davvero buttai tutto sul fondo del baule, perché sapevo che non ne avrei mai più avuto bisogno.

Mentre le raccontavo queste storie, lei si stese con la testa sulle mie ginocchia e mi sorrise. Riusciva a capire che il mio attaccamento a quegli oggetti non era un attaccamento alle persone, e le piaceva sentirmi raccontare quelle storie, perché tutte sarebbero finite nel momento in cui avevo incontrato lei.

Un paio di mutande. Un’avventura di qualche notte, una donna disordinata che mi entrava in casa e si gettava fra le mie braccia con l’irruenza di un ciclone. Era divertente vederla farsi in quattro per compiacermi, perché era ben lontana dal riuscirci. Apprezzavo i suoi modi di fare, e pensai che se avessi avuto voglia di far durare quella frequentazione più a lungo avrei dovuto iniziare a darle lezioni, ma per quello che cercavo mi andavano bene i suoi sorrisi ammiccanti, le volgarità che mi sussurrava all’orecchio e il modo docile in cui si piegava ad ogni mio comando. Stavo lì, steso sul letto, e le ordinavo di spogliarsi, di mostrarsi, di fare qualunque cosa io volessi, e lei lo faceva. Un giorno che andò via di corsa non riuscì a trovare le mutande, e le lasciò qui. La volta dopo si rifiutò di riprenderle e disse che potevo tenerle, pensai che forse aveva preparato tutto e non era poi così disordinata. Ha dimenticato qui anche un piercing che continuava ad incastrarsi dovunque, ma non ho potuto più restituirglielo.

Un bracciale di pelle nera, con una cinghia, regalo di una ragazza con cui stavo prima della maggiore età. Non ricordo più in che occasione mi è stato regalato, ma è poggiato sul fondo del baule insieme alla collana che mi aveva regalato lei, un pendente con l’ideogramma giapponese di “amore”. Eravamo due adolescenti ribelli verso il mondo e teneri fra di noi, cercavamo in quegli abbracci le risposte a tutte le carenze affettive che le nostre famiglie non erano capaci di risolvere, festeggiavamo ogni mese con degli stupidi regalini che conservo ancora. Un portachiavi a forma di rana, un portachiavi a forma di barretta di cioccolato, una decina dei suoi disegni, immagini di coppie amoreggianti che somigliavano a noi, il biglietto con cui accompagnò il regalo del nostro primo anniversario, un pezzo che staccammo dalla moto di suo padre subito prima che la rottamasse, un pacchetto di sigarette che fumavo stupidamente per darmi un tono da adolescente problematico. A lei non piaceva che fumassi, ma un giorno ho scritto il suo numero di telefono su quel pacchetto di sigarette, perché mi si stava scaricando il cellulare e chiamarla qualche ora dopo era il mio unico interesse. Quando quella storia è finita, ho posato tutti gli oggetti nel baule, assicurandomi di metterli sopra a tutto il resto. Sentivo che avrei avuto bisogno di tirarli fuori a breve. Quella volta ho sbagliato, e sono rimasti come i resti di una civiltà, lentamente spinti sempre più in basso da ciò che si sussegue sopra di loro, dopo di loro. E ora sono diventati la cenere che ricopre il fondo di quel baule.



Oggi, mentre mi obbligo a muovermi da una stanza all’altra solo per ricordarmi di essere ancora vivo, mentre trascino i piedi come se fossero due corpi morti, ricordo due figure che si inseguono per vie buie sotto le stelle, cercando riparo dai fari delle automobili per dare sfogo alla passione. Ricordo le passeggiate mentre la accompagnavo a casa, ricordo ogni parola di quelle notti, ogni bacio, ogni respiro, come se fosse ieri. Ricordo l'inquietudine che provavo all'idea di lasciarla entrare nella mia vita e il sollievo che ho provato ogni giorno in cui l'ho lasciata avvicinare sempre un po’ di più. Era bello. Sento il mio corpo crollare, sento il pavimento sotto le ginocchia, poi contro una spalla. Chiudo gli occhi.

Un quadrifoglio. Un modo molto strano di scusarsi da parte di una ragazza che si era innamorata di me, ma che non trovava il coraggio di concedersi. Aveva dei lunghi capelli biondi e amava ballare. Aveva dei profondi occhi azzurri e nonostante fosse abbastanza più grande di me mi faceva venire voglia di proteggerla. Una storiella di poco valore che all’epoca mi stravolse abbastanza da iniziare ad interrogarmi sui miei sentimenti per lei, quando era chiaro che non esisteva nulla del genere. Avevo frainteso un po’ di divertimento. E anche lei, molto più di me. Un paio di biglie di vetro, che abbiamo vinto ad una serata in un locale dove eravamo andati a bere, senza sapere della serata giochi che avevano organizzato. Ci siamo ritrovati nella confusione e abbiamo deciso di giocare, nonostante non ci fossimo visti per mesi. avevamo tanto da raccontarci ma non siamo riusciti a farlo, e poi ci siamo persi di vista. Mi sono rimaste un paio di biglie e un quadrifoglio, ma forse avrei preferito una spiegazione.

Un altro paio di mutande. Una serie di assegni con promesse al posto delle cifre. Una collana con un simbolo mistico, la ricevuta di un parco divertimenti, una foto di due ragazzini che si baciano, un bracciale di velcro arrotolato su se stesso, delle pagine strappate di un blocco da disegno, piccoli oggetti, granelli di cenere, che insieme raccontano tante storie intrecciate fra di loro, intrecciate con la mia. Lei mi guardò dal basso verso l’alto e fece una battuta. Non ricordo cosa mi disse, ma so che la guardai sorridere e in quel momento capii che era la cosa più bella che mi fosse capitata nella vita.

Ora io sono rimasto da solo con il compito di far funzionare la vita senza di lei. E stasera, con la solennità di un funerale, apro il baule e poggio al suo interno il bracciale che abbiamo intrecciato insieme, con le stesse mani che scivolavano fra i vestiti e la pelle, con le stesse mani che improvvisavano pranzi in campeggio. Lo poggio fra le mutande di sconosciute, fra le avventure di una notte, fra i ricordi di persone che oggi disprezzo, e lo trovo paradossale, ironico, tragicomico, insensato. Non importa quanto una persona possa importare, una volta che esce dalla tua vita diventa parte di quell’entità astratta che si chiama passato, esperienze, ricordi. Diventa cenere in una fossa comune.

Quel bracciale lo poggio con cura, assicurandomi di metterlo sopra a tutto il resto. Sento che avrò bisogno di tirarlo fuori a breve.







mercoledì 27 agosto 2014

Le raccomandazioni ai tempi del Deuteuronomio



Israele, valle di Elah, mezzogiorno di fuoco.

Golia,  un omaccione alto sei cubiti ed un palmo, esce dalla sua tenda con i malesseri di una sbronza. La guerra infuria, ma all’accampamento dei Filistei c’è sempre del tempo, la notte, per gozzovigliare con capretto arrosto e vino, giusto per dimenticare le cose brutte che si sono viste durante il resto della giornata in mezzo alla calca della battaglia. La forte emicrania ed il sole cocente non aiutano di certo Golia a riprendersi, che decide di andare all’abbeveratoio dei cavalli per immergere la testa nell’acqua, speranzoso in una veloce ripresa dalla sbornia.  L’odore acre del letame e dell’urina degli animali ammassati a pochi metri da lui lo schiaffeggia, svolgendo il compito che l’acqua non riesce a fare, per quanto la testa del nostro eroe rimanga immersa nel liquido relativamente fresco per più di dieci secondi.  Con ancora lo sguardo bieco e la voce rauca Golia si reca, passo pesante e strascicato, alla tenda comune, dove spera di riuscire a raccattare qualcosa da mettere sotto i denti.
<<Giorno di tregua!>> urla qualcuno appena scosta un lembo della tenda, andando a sedersi nella prima panca libera che trova. Attorno a lui i soldati dell’esercito sono impegnati, chi più chi meno, in accese discussioni , mentre si passano tra di loro brocche e svariati pezzi di carne arrosto. 
L’atmosfera non sembra quella di una comune giornata di guerra, non c’è nessuno che urla, nessuno affila le proprie armi, meno che mai si vedono in giro uomini con indosso le proprie armature.  
Giorno di tregua ripete Golia nella sua mente, sporgendosi un poco per  afferrare una ciotola con il solito capretto arrosto e del formaggio, passatagli da un giovane guerriero alla sua destra.   
Mentre mangia al suo tavolo iniziano a sedersi altri soldati dall’espressione rilassata, chiaro segno che anche a loro è giunta notizia della recente tregua indetta tra il loro esercito e quello del re Saul, che come tutti sanno non se la sta passando molto bene in fatto di vittorie. C’è chi parla di un improvviso attacco nemico, e che si farebbe bene a stare all’erta, ma il fautore di questa proposta viene subito messo a tacere. << Impossibile>>-dice uno- <<abbiamo degli ostaggi: scambio equo/consenziente da parte di ambo le fazioni. Evidentemente re Saul sta pensando a come riuscire a tenersi stretto quel poco di territorio che ancora non gli abbiamo conquistato, ahahaha!!>>.
Risa  di consenso. Golia si lascia scappare un sorrisino: in fondo non hanno tutti i torti. In fondo in fondo siamo noi i migliori, pensa, e la guerra procede bene. Solo il tizio alla sua destra non ride, ma anzi rimane serio e guarda tutti i presenti al tavolo in faccia, mentre aspetta che finiscano di schiamazzare. Solo quando l’ambiente si è calmato parla, attirando immediatamente l’attenzione di tutti.
<<Ci sarebbe questo Davide…>> dice con aria vaga, portandosi lentamente alle labbra la coppa ricolma di vino. Mormorii, sussurri. Sguardi. Golia lo osserva meglio, ora, e nonostante il suo post sbornia sia ancora attivo e pulsante nella sua testa, anche se di meno ora, giura di non aver mai visto quest’uomo. <<Voglio dire, pensateci >> continua lo straniero, tra un sorso di vino ed un altro, <<le voci che girano sul suo conto le avete sentite tutti, no? Questo qua arriva alla corte di Saul come menestrello, quando a malapena prima era un pastore come la maggior parte di tutti noi, e puff!, di punto in bianco viene unto e bisunto di olio sacro e allora ciao ciao Saul, non sei più il prediletto del Signore, grazie ed arrivederci.>>      
Momento di silenzio tra gli astanti. Lo straniero, dopo l’ennesimo sorso di vino prosegue. Golia non si perde una parola. <<Mi spiego… cosa ha fatto Saul di male? Solo perché non ha cancellato dalla faccia della terra gli Amaleciti non significa che non fosse una buona persona! E poi, diamine, che gusto c’era a sterminarli tutti…si, sarebbe stata forse una delle poche vittorie decenti di re Saul, quella – (risate tra i guerrieri)- ma era davvero poca roba…io, per esempio, lavoravo come artigiano in una bottega, e il mio capo era un vecchio noioso e scontroso. “Fatebenefratelli” si chiamava il laboratorio, e quello scimunito si era messo in testa di creare vasellame e roba varia per la gente del villaggio, convinto di fare del bene!>>
<<E questo cosa c’entra?>> chiese Golia, che ormai era tutto orecchi.
<<C’entra, mio caro, che sono stato licenziato nove giorni fa perché non sapevo fare i coperchi delle pentole, nonostante fossi il migliore nel mio settore. E quando ho avuto la brillante idea di andare dal padrone della bottega per dirgli che ero stanco dei suoi ritmi di produzione e che era meglio se mi affidava l’incarico di suo vice, con la quale avrei potuto aiutare meglio altri artigiani che magari i coperchi sapevano farli, quello sai cosa mi dice? “Sei licenziato!”. E poi chiama suo figlio Gabriele che mi tira una pedata nel culo e mi butta fuori in strada. E ora sono qua a fare il mercenario>>.
Altri mormorii.  Soldati che sussurrano “ha ragione” e “che padrone incompetente”.   
Qualcuno annuisce con la testa. Golia, dal canto suo, ancora non riesce a capire dove lo straniero voglia andare a parare. Come se gli avesse letto nel pensiero, quest’ultimo incalza. << Ve lo ricordate Caino, quel pastore di Enoch? Quello che era finito su tutti i giornali perché aveva ucciso il fratello… ora, io non voglio dare giudizi e pareri, ma mi spiegate perché coso lì, Abele, il fratello, era il prediletto del Signore e Caino no? Perché Abele offriva al signore le primizie del suo orto e del suo pascolo. E Caino invece, povero scemo che voleva mangiare e vivere un minimo in decenza (perché non so se vi siete guardati attorno, ma qua in questa regione sassi e polvere la fanno un po’ da sovrani) offriva al Signore cose di seconda mano, chiamiamole così.  Mi capite ora? >>

<< In pratica mi stai dicendo che se sono il prediletto del Signore ho vita facile?>> chiede Golia. 

Orami tutti i soldati presenti  al tavolo si sono sporti verso di lui e verso l’estraneo, nessuno fiata, sono tutti concentratissimi.  Il guerriero mercenario sorride, sporgendosi all’indietro con un’espressione del tipo “qua ti volevo”, puntandogli contro un dito e sbattendo la sua coppa sul tavolo. <<Esatto!>> grida, facendo trasalire un po’ tutti; <<Esatto!! Ma ti rendi conto che lo stesso re Saul ci ha mosso guerra perché il presidente della nostra regione è Dagon? E dire che io conosco pure suo figlio, Baal, e posso dirti che sono entrambi delle splendide persone! E ti pare che Dagon sia venuto qua al nostro accampamento ad ungere e bisungere uno qualsiasi di noi e nominarlo suo campione o chessò io? No! Ecco perché, tornando al discorso principale, ce l’ho a morte con questo Davide, perché è il solito accozzato di turno! Certo in battaglia a poco serve, però sempre un accozzato rimane…>>.
Ora tutti gridano il loro assenso.  Qualcuno applaude addirittura. Dagli altri tavoli iniziano ad arrivare altri guerrieri, incuriositi da tutto lo schiamazzo, e qualcuno spiega loro velocemente il succo di tutta la discussione. In breve tempo una calca di soldati che bevono e mangiano si fa a cerchio attorno al tavolo dove Golia ed il mercenario tengono il loro conciliabolo. Le panche vengono spostate, i tavoli ammassati in un angolo.
<<Prendi  quel sacerdote di cui tanto si parla, quello che vive nella terra remota oltre il mare…H’arrii Potthar, credo si chiami così.  Senza tutti gli amici che lo hanno aiutato credi sarebbe riuscito a fare tutto quello che ha fatto? No, sarebbe morto male nel giro di due giorni. E la Leggenda dell’Anello? Te la ricordi?>>. Golia fa di si con la testa. Ha finito l’ultimo libro giusto giusto il mese scorso, era diventato un vero must tra i soldati dell’esercito Filisteo.
<<Oh, ecco. Ora, chi è che c’ha gli alleati migliori? I buoni. I piccoli uomini che devono portare l’anello hanno maghi e sacerdoti potentissimi dalla loro parte, il futuro re ha addirittura una spada per comandare i jiin, i demoni dei non morti! E invece su cosa può disporre il loro nemico? Su un sacerdote malaticcio che ha come aiutante un uomo bavoso. Hanno si una grande armata, ma proprio quando stanno per vincere due battaglie ormai segnate cosa succede? CHE ARRIVANO SEMPRE GLI ACCOZZI A SALVARE CAPRA E CAVOLI!>>.  La tenda diventa un putiferio, gli uomini scalciano e gridano, c’è chi sguaina la spada e l’agita per aria, chi urla di andare fuori e sfidare apertamente il campione dell’esercito di re Saul.
<<Perché ai buoni vengono sempre dati gli aiuti migliori?>>  sussurra ora il mercenario sconosciuto, guardando dritto negli occhi di Golia, e riuscendo ad essere chiaro nonostante tutto il frastuono.

Valle di Elah, pomeriggio inoltrato, tenda di Golia.

Le urla nell’accampamento ora sono molto più forti, si sentono persino i rulli dei tamburi da guerra. Golia, in piedi in tutta la sua possente statura viene aiutato dal suo scudiero ad indossare la sua armatura di bronzo del peso di cinquemila sicli. Non dice una parola, quasi non respira. Pensa. 
Alle sue spalle l’eco ed il frastuono dei soldati va e viene come la risacca del mare, segno che un numeroso contingente di uomini si sta spostando verso il campo di battaglia. Indossata l’armatura ed impugnata la lancia Golia si appresta ad uscire dalla tenda come ogni giorno dall’inizio della guerra, diretto con sguardo impassibile verso le linee nemiche. Solo che oggi non ha in mente di spaccare crani e squartare stomaci, oggi pensa alle parole che gli sono state dette qualche ora prima, ripensa al mercenario sconosciuto.  Sono parole che hanno un certo peso, eppure lui confida in se stesso e nella sua abilità di guerriero. Ha deciso di sfidare apertamente il campione dell’esercito di Re Saul. L’ostaggio scambiato per sancire la tregua è poco più avanti di lui, coi polsi legati, scortato da due uomini che, arrivati nello spiazzo libero del campo di battaglia, lo rispediscono con sonori calci nel fondoschiena tra le sue fila,sommerso dai fischi e dagli insulti dei Filistei.
Eccoci qua pensa Golia, facendosi largo tra i suoi commilitoni, ed andando avanti da solo in mezzo al campo di battaglia, mentre una moltitudine di uomini grida il suo nome al cielo. Il mercenario aveva ragione: è mai venuto Dagon ad ungermi con l’olio e a dirmi che ero il suo campione? Mi sono stati dati aiuti di ogni sorta? No, eppure il soldato migliore tra tutti i Filistei sono io. Vediamo di cosa è capace questo unto del Signore.
I suoi pensieri svaniscono proprio mentre Davide, il raccomandato di cui tanto si sente parlare, esce dalle fila del re Saul. Dimostra si e no tredici anni. Non ha un’armatura, ne un elmo, tanto meno una spada, od uno scudo. La corazza manco a parlarne. Ha una bisaccia ed una fionda. Il frastuono delle risate che si sente dietro le spalle strappa un sorriso a Golia. Non ha bisogno di girarsi per capire che non stanno ridendo di lui.

E’ alto si e no tre cubiti e un dattero , pensa, rigirandosi la lancia tra le mani ed avanzando di un passo, cosa potrà mai andare storto?