Ispirato alla poesia "Angelo, guarda il passato", di Thomas Wolfe.
Un sasso. una foglia, una porta. Di una foglia, un
sasso, una porta. Guardo quello
stesso angolo, nella stessa ora, da non so quante settimane ormai, che sembra quasi di vedere le immagini
sovrapporsi. Ecco come era la foglia il mese scorso, e quello è il sasso di due
settimane fa. E la porta di oggi.
Non so quanti degli abitanti qui riuscirebbero ad apprezzare una vista del genere. Immagino che cercherebbero almeno per quell’ora a settimana di illudersi di non vivere in enormi scatoloni di metallo automatizzati, che gli spazi verdi, gli spazi incontaminati, esistano ancora, e di poter credere di essere parte di essi. Io, al contrario, negli ultimi anni della mia vita ho imparato a godermi particolarmente il panorama che si osserva in questo punto del prato erboso, in questa precisa angolazione. Probabilmente perché è l’esempio più lampante del paradosso di questa situazione. Aree Naturali, prefabbricate, a cui accedere manco fosse uno scantinato o in qualunque modo si chiamassero quelle stanze di cui sento ogni tanto parlare dai vecchi della comunità. Quelle stanze dove stipare gli oggetti vecchi, gli oggetti che non servivano o gli oggetti che servivano in determinate situazioni, ma che si preferiva tenere lontano dagli occhi, così che non stonassero col resto dell’abitazione.
Ed ecco qui, un giardino a portata di porta, in cui ci si potrebbe affacciare solo per godere della sua fittizia aria fresca, solo per poter godere di quella luce sempre uguale, in quell’enorme palla di vetro che è anche l’unico contatto pseudo diretto che ormai si ha col sole, o con le stelle, o con qualunque cosa ci sia sopra questi baracconi in cui ci troviamo stipati da decenni.
Alla fin fine ho perso l’interesse per questo tentativo di fusione che gli altri cercano di effettuare in queste “sedute”, dove le due grandi comunità, settimanalmente, hanno l’onore di vedersi, di poter anche interagire tra loro. Come se un’ora a settimana possa bastare a superare i blocchi che si sono formati in anni a vivere lontani tra di noi, a superare la paura per l’ignoto, per quello strano tipo di essere umano che prima di compiere i quattordici anni non eravamo mai stati in grado di vedere.
Ma immagino che al governo, più che si interagisca, importa che semplicemente veniamo a sapere dell’esistenza dell’altro sesso. E’ da cinquant’anni che sono qui e posso dire di aver sentito le più disparate teorie a riguardo, ma penso che alla fine quello che importi sia proprio sapere che le femmine, o i maschi, esistono ancora, così da non eliminare del tutto il proprio istinto di riproduzione. Non so biologicamente come funzioni, probabilmente feromoni o chissà quale altra diavoleria, c’è da dire che la cosa funziona, complice il clima di repressione che tronca sul nascere qualsiasi possibilità di rapporto omosessuale. Tuttavia, anche quando me ne fregava qualcosa di quella comunità, devo dire che non ho mai provato la spinta per..
“Ehi, la campana è suonata. Alzati, svelto!”
La voce del “cane da guardia” risuona, abbaiando il suo ordine con rabbia. Io semplicemente mi alzo, gettandomi meccanicamente nel flusso di uomini che a piccoli passi si avvia, dubbioso, verso la porta.
Non so quanti degli abitanti qui riuscirebbero ad apprezzare una vista del genere. Immagino che cercherebbero almeno per quell’ora a settimana di illudersi di non vivere in enormi scatoloni di metallo automatizzati, che gli spazi verdi, gli spazi incontaminati, esistano ancora, e di poter credere di essere parte di essi. Io, al contrario, negli ultimi anni della mia vita ho imparato a godermi particolarmente il panorama che si osserva in questo punto del prato erboso, in questa precisa angolazione. Probabilmente perché è l’esempio più lampante del paradosso di questa situazione. Aree Naturali, prefabbricate, a cui accedere manco fosse uno scantinato o in qualunque modo si chiamassero quelle stanze di cui sento ogni tanto parlare dai vecchi della comunità. Quelle stanze dove stipare gli oggetti vecchi, gli oggetti che non servivano o gli oggetti che servivano in determinate situazioni, ma che si preferiva tenere lontano dagli occhi, così che non stonassero col resto dell’abitazione.
Ed ecco qui, un giardino a portata di porta, in cui ci si potrebbe affacciare solo per godere della sua fittizia aria fresca, solo per poter godere di quella luce sempre uguale, in quell’enorme palla di vetro che è anche l’unico contatto pseudo diretto che ormai si ha col sole, o con le stelle, o con qualunque cosa ci sia sopra questi baracconi in cui ci troviamo stipati da decenni.
Alla fin fine ho perso l’interesse per questo tentativo di fusione che gli altri cercano di effettuare in queste “sedute”, dove le due grandi comunità, settimanalmente, hanno l’onore di vedersi, di poter anche interagire tra loro. Come se un’ora a settimana possa bastare a superare i blocchi che si sono formati in anni a vivere lontani tra di noi, a superare la paura per l’ignoto, per quello strano tipo di essere umano che prima di compiere i quattordici anni non eravamo mai stati in grado di vedere.
Ma immagino che al governo, più che si interagisca, importa che semplicemente veniamo a sapere dell’esistenza dell’altro sesso. E’ da cinquant’anni che sono qui e posso dire di aver sentito le più disparate teorie a riguardo, ma penso che alla fine quello che importi sia proprio sapere che le femmine, o i maschi, esistono ancora, così da non eliminare del tutto il proprio istinto di riproduzione. Non so biologicamente come funzioni, probabilmente feromoni o chissà quale altra diavoleria, c’è da dire che la cosa funziona, complice il clima di repressione che tronca sul nascere qualsiasi possibilità di rapporto omosessuale. Tuttavia, anche quando me ne fregava qualcosa di quella comunità, devo dire che non ho mai provato la spinta per..
“Ehi, la campana è suonata. Alzati, svelto!”
La voce del “cane da guardia” risuona, abbaiando il suo ordine con rabbia. Io semplicemente mi alzo, gettandomi meccanicamente nel flusso di uomini che a piccoli passi si avvia, dubbioso, verso la porta.
La porta apre in uno
di quegli innumerevoli tunnel metallici, con luci al neon che rendono il tutto
più alienante, come se non bastassero le viti che si vedono sporgere dalle
fottute pareti e quell’odore di chiuso che per quanto si provi proprio non
riesce ad andare via. Un flusso di maschi, lavoratori, diretti verso le
camerate. Mentre cammino mi pare di vedere qualche cenno di saluto da alcuni
componenti della fila, che immagino dovrei conoscere…ma che per quanto mi possa
sforzare, anche volendo non riesco a identificare. Sembrano tutti così uguali,
tante facce senza volto che si muovono all’unisono, dietro a un grido di
battaglia o ad un ordine dall’alto. Tanti omuncoli come quello che ora mi
stringe spensieratamente le spalle, in maniera amichevole.
“Vecchio diavolo, ancora seduto sull’erba a non far niente oggi?”
Faccio un cenno col volto a Steve, uno di quei giovanotti di belle speranze, con ancora tutte le ossa a posto e con gli acciacchi dell’età ancora lontani.
“Cosa devi dirmi?”
“Vecchio diavolo, ancora seduto sull’erba a non far niente oggi?”
Faccio un cenno col volto a Steve, uno di quei giovanotti di belle speranze, con ancora tutte le ossa a posto e con gli acciacchi dell’età ancora lontani.
“Cosa devi dirmi?”
Parlo annoiato,
anticipando uno di quei discorsi che sento ripetersi ogni giorno. Immagino che
ora glisserà allegramente.
“Ma nulla di speciale,
tranquillo.”
Tipico. Ridacchia, per poi guardarsi attorno, cercando di sembrare il più disinvolto possibile. Si avvicina per sussurrarmi delle parole all’orecchio.
“Volevo solo ricordarti dell’incontro di oggi… il comitato vorrebbe che ci fossi anch...”
Tipico. Ridacchia, per poi guardarsi attorno, cercando di sembrare il più disinvolto possibile. Si avvicina per sussurrarmi delle parole all’orecchio.
“Volevo solo ricordarti dell’incontro di oggi… il comitato vorrebbe che ci fossi anch...”
Gli faccio
semplicemente cenno di aver capito, per separarmi veloce verso la mia stanza.
Lo sento sussurrare ancora di aspettare il segnale, poi il nulla.
Mi butto sulla branda, sbuffando, fissando semplicemente il soffitto. Non mi va per niente a genio l’idea di presenziare ancora ad una di quelle riunioni organizzate dal comitato, ma sarebbero state più le noie che avrei avuto se non ci fossi andato che quelle che avrei provato facendo finta di ascoltare l’ennesimo rivoltoso che cerca di aizzare il popolo decantando ideali morti come la libertà, l’uguaglianza e stronzate simili. E poi, seriamente, che avevo di meglio da fare? I secondi scorrono interminabili, fissando un punto fisso, sperando che arrivi presto il segnale, così da avvicinare prima la fine di quella pallosa giornata e provare a dormire almeno qualche ora. Lo sguardo corre verso il cassetto del comodino, chiuso con cura. Neanche oggi è stato aperto. Passo la mano veloce, ad accarezzare la maniglia. Tiro piano il cassetto, sfilandolo dal mobile. Senza riflettere prendo la penna da dentro, tirando fuori la barra dell’inchiostro, e la infilo lentamente in un buco sulla base del cassetto. Il fondo si solleva, lasciandomi intravedere ancora una volta il libro. “Che tu sia per me il coltello”, di David Grossman …lo vedo solo e sento i ricordi riaffiorare.
Sfioro lentamente il dorso della rilegatura, sentendo sotto le mie dita il rilievo del titolo. Chiudo gli occhi, e lascio che la mia testa rievochi quelle immagini. Rivedo il volto dal sorriso dolce. Lo sguardo a metà tra lo spaventato e il malizioso. I tunnel nell’oscurità. Le foto che cadono a terra. I bei tempi e le risate. Le corse. Gli affanni. Le paure. L’emozione. L’euforia. La rabbia, l’amore. Mi sembra quasi di sentire la pelle sotto le mie mani mentre la accarezzo e la sento mugugnare dolcemente, dicendomi di smetterla. Sento il cuore battere all’impazzata, mentre mi guardo attorno pregando che nessuno mi abbia visto passare di lì. Sento il mio sorriso allargarsi alla vista del suo e al sentire la sua voce. Il suo suono dolce, a tratti spezzato dalla paura. Sento quel suono metallico, mentre mi avvicino…
…
Suono metallico?
Un po’ scosso mi ritrovo steso sul mio letto, a inseguire fantasmi che si perdono nel vento. Sbatto un po’ gli occhi, cercando di fare mente locale. Un suono metallico. Deve essere il segnale.
Annoiato mi alzo, portando con me il libro. Le luci già sono diminuite, e a stento si riesce a vedere dove si mette piede. Non in giro una guardia, come da programma. Vedo altri tizi uscire dalle loro stanze in punta di piedi, sgattaiolando come ratti tra le fognature (quando se ne vedevano ancora). Cammino tranquillo, tanto so come funzionano le cose.
Seguo il flusso di persone fino alla stanza adibita all’incontro. Come al solito, la mensa.
L’incontro è già iniziato da un po’. Vedo già tutta la folla attorniata al tavolo più lontano, che cerca di sentire il capo della resistenza intento a sciorinare il solito comizio.
Mi butto sulla branda, sbuffando, fissando semplicemente il soffitto. Non mi va per niente a genio l’idea di presenziare ancora ad una di quelle riunioni organizzate dal comitato, ma sarebbero state più le noie che avrei avuto se non ci fossi andato che quelle che avrei provato facendo finta di ascoltare l’ennesimo rivoltoso che cerca di aizzare il popolo decantando ideali morti come la libertà, l’uguaglianza e stronzate simili. E poi, seriamente, che avevo di meglio da fare? I secondi scorrono interminabili, fissando un punto fisso, sperando che arrivi presto il segnale, così da avvicinare prima la fine di quella pallosa giornata e provare a dormire almeno qualche ora. Lo sguardo corre verso il cassetto del comodino, chiuso con cura. Neanche oggi è stato aperto. Passo la mano veloce, ad accarezzare la maniglia. Tiro piano il cassetto, sfilandolo dal mobile. Senza riflettere prendo la penna da dentro, tirando fuori la barra dell’inchiostro, e la infilo lentamente in un buco sulla base del cassetto. Il fondo si solleva, lasciandomi intravedere ancora una volta il libro. “Che tu sia per me il coltello”, di David Grossman …lo vedo solo e sento i ricordi riaffiorare.
Sfioro lentamente il dorso della rilegatura, sentendo sotto le mie dita il rilievo del titolo. Chiudo gli occhi, e lascio che la mia testa rievochi quelle immagini. Rivedo il volto dal sorriso dolce. Lo sguardo a metà tra lo spaventato e il malizioso. I tunnel nell’oscurità. Le foto che cadono a terra. I bei tempi e le risate. Le corse. Gli affanni. Le paure. L’emozione. L’euforia. La rabbia, l’amore. Mi sembra quasi di sentire la pelle sotto le mie mani mentre la accarezzo e la sento mugugnare dolcemente, dicendomi di smetterla. Sento il cuore battere all’impazzata, mentre mi guardo attorno pregando che nessuno mi abbia visto passare di lì. Sento il mio sorriso allargarsi alla vista del suo e al sentire la sua voce. Il suo suono dolce, a tratti spezzato dalla paura. Sento quel suono metallico, mentre mi avvicino…
…
Suono metallico?
Un po’ scosso mi ritrovo steso sul mio letto, a inseguire fantasmi che si perdono nel vento. Sbatto un po’ gli occhi, cercando di fare mente locale. Un suono metallico. Deve essere il segnale.
Annoiato mi alzo, portando con me il libro. Le luci già sono diminuite, e a stento si riesce a vedere dove si mette piede. Non in giro una guardia, come da programma. Vedo altri tizi uscire dalle loro stanze in punta di piedi, sgattaiolando come ratti tra le fognature (quando se ne vedevano ancora). Cammino tranquillo, tanto so come funzionano le cose.
Seguo il flusso di persone fino alla stanza adibita all’incontro. Come al solito, la mensa.
L’incontro è già iniziato da un po’. Vedo già tutta la folla attorniata al tavolo più lontano, che cerca di sentire il capo della resistenza intento a sciorinare il solito comizio.
Mi avvicino
lentamente, sedendomi defilato ad uno dei tavoli sulla fiancata. Distratto,
ascolto un po’ il discorso. Lo sento chiamare a raccolta gli abitanti del
complesso, chiamarli fratelli, e illustrare in modo enfatico la situazione in
cui ci troviamo. Siamo schiavi, siamo esseri umani che vivono in gabbie da zoo,
con funzionari del governo che ci illustrano dall’alto delle loro torri bianche
su cosa fare e cosa non fare. Sotto controllo 7 giorni su 7, ventiquattro ore
su ventiquattro. Libertà di parola zero. Libertà di stampa men che meno. Per
non parlare di libertà di associazione. Vedo i volti dei partecipanti tremanti
dalla paura, consci di rompere la legge con quell’incontro. Sono giovani, non
sono ancora abituati a quella che ormai è una routine. E' passato del tempo ormai, ma so che se riusciamo a organizzare quegli incontri è perché
sappiamo che chi di dovere ci coprirà. Non ci sono stato dentro abbastanza per
sapere come esattamente riusciamo a procurarci la copertura, e ormai con tutta
sincerità poco mi interessa. Ho imparato che a un certo punto è meglio rimanere nell’ignoranza, e
godersi quella notte brava in barba al coprifuoco. Inizio a sfogliare il libro,
mentre sento il capo della resistenza iniziare a inneggiare ad ideali ormai morti
come l’uguaglianza, la fratellanza e la giustizia, a cercare di far riaffiorare
il coraggio in quei poveri disgraziati, a cercare di pungolare il loro
orgoglio, di spronarli a scrollarsi di dosso “il giogo che siamo costretti a
sopportare ormai da troppo tempo, sotto questo regime dittatoriale che ci
soffoca e ci uccide lentamente, rubandoci la nostra stessa umanità col loro
pugno di ferro! E’ ora di dire basta, di rivendicare la libertà che è nostra di
diritto, che i padri dei nostri padri hanno ottenuto col sangue e che ora ci
negano!”
Il messaggio stenta ad attecchire in quei cuori impauriti, e a me quasi viene da ridere sentendo quel discorso così concitato. Quegli stessi spauracchi, vestigia del tempo prima che entrassimo in quelle baracche di metallo, incitavano e inneggiavano solo mezzo secolo prima per quel movimento che ora si è materializzato nello stesso regime che ora cercano con così tanta forza di sradicare e di scrollarsi di dosso. Solo mezzo secolo prima parteggiavano per quella politica che ha reso possibile la vera e propria ghettizzazione del popolo, probabilmente per cercare di liberarsi dalle gravezze economiche e dall’amministrazione di una casta “inetta” che li avevano portati sull’orlo della miseria. Ed ora eccoli qui.
Il messaggio stenta ad attecchire in quei cuori impauriti, e a me quasi viene da ridere sentendo quel discorso così concitato. Quegli stessi spauracchi, vestigia del tempo prima che entrassimo in quelle baracche di metallo, incitavano e inneggiavano solo mezzo secolo prima per quel movimento che ora si è materializzato nello stesso regime che ora cercano con così tanta forza di sradicare e di scrollarsi di dosso. Solo mezzo secolo prima parteggiavano per quella politica che ha reso possibile la vera e propria ghettizzazione del popolo, probabilmente per cercare di liberarsi dalle gravezze economiche e dall’amministrazione di una casta “inetta” che li avevano portati sull’orlo della miseria. Ed ora eccoli qui.
Rinuncio ad ascoltare
quei discorsi, rinuncio ad ascoltare dei bei tempi andati in cui un uomo poteva
ancora scegliere qualcosa, poteva ancora trovare uno svago, una passione.
Rinuncio ad ascoltare racconti di una vita che non ho mai vissuto. Da quando
sono nato sono lì, e ormai tanto basta…
Faccio per tornare a
leggere il libro, quando una frase di un giovane di buone speranze mi
colpisce..
“Nel buio del suo ventre, non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione della sua carne siamo venuti nell’indescrivibile e incomunicabile prigione di questa terra.”
“Nel buio del suo ventre, non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione della sua carne siamo venuti nell’indescrivibile e incomunicabile prigione di questa terra.”
Il discorso continua, ma non sento nient’altro che quelle parole
risuonarmi nella testa, affondando dritto al cuore. Parole che, per quanto
essenziali, sono perfettamente in grado di rappresentare la cruda realtà di
merda in cui viviamo. E poi, pensandoci bene, neanche oggi conosciamo il volto
delle nostre madri.
Veniamo strappati dalle sue braccia troppo presto per potercene ricordare,
cresciuti come bastardi senza natali.
E i padri… i padri non sono mai esistiti nelle nostre vite. Non erano
presenti il giorno che abbiamo aperto gli occhi per la prima volta. Non erano
presenti il giorno che abbiamo fatto i primi passi, che abbiamo detto le prime
parole. Per quel che se ne può sapere, chiunque può essere padre di uno di
quegli sbarbatelli che si agita in preda all’euforia o alla paura davanti a
questi discorsi troppo grandi per loro. E nessuno, nessuno lo può sapere.
Già… nessuno…
Già… nessuno…
“Che gran rottura di scatole!”
Cammino furiosamente per il
corridoio, sbuffando. So già che gli ordini dall’alto non si possono discutere,
ma dire che mi va di fare quella buffonata significherebbe mentire
spudoratamente. Ho raggiunto il pieno sviluppo fisico, quindi per i grandi capi
sono ufficialmente catalogabile come uomo. E, come tale, mi spettano i doveri
che sono propri del mio status di uomo. Come se lavorare come un mulo per più
di dieci ore al giorno, spaccandomi le mani per avere il diritto a vivere nel ‘regime
illuminato’, non sia già abbastanza. Ah, ma la vedranno, eccome se la vedranno.
“Che poi cos’è che dovrei fare per
davvero? E ti prego, non risp…”
“Fare l’uomo, ecco cosa dovrai
fare.”
Il colonnello ride, la solita
risata bonaria di chi la sa lunga che mi da sui nervi.
“Sia serio, colonnello! Lo so che ai
suoi tempi la situazione era diversa, ma le ripeto che le cose sono cambiate.”
“Oh, credimi, cose del genere non
cambieranno mai, su questo posso giocarmi entrambe le mani”
“Tutto quello che vuole, ciò non
toglie che non so neanche chi sto andando ad incontrare, è tutta una farsa.”
“Calma, ragazzo. La natura farà il
suo corso, credi a me!”
Un’altra risata. Mi rassegno
all’idea di dovermi attenere alle procedure. Tanto il colonnello non sputerà
mai il rospo. Ci gode troppo a vedermi in quella situazione, totalmente ignaro
sul come mi devo muovere, come devo affrontare la cosa.
Sbuffo di nuovo, accelerando il
passo. Prima arriviamo, prima mi libero e prima possiamo pensare alle cose
serie. Oggi ci dovrebbe essere un altro comizio, se non ricordo male. I
consensi stanno aumentando giorno dopo giorno… forse la libertà presto non sarà
più un utopia, e…
“Siamo arrivati, scricciolo.”
Ed eccomi lì, per la prima volta
davanti a una camera per la replicazione. Cerco di nascondere il nervosismo, ci
manca solo che il colonnello lo noti e mi prenda in giro…
“Nervoso, ragazzo?”
Ecco, appunto. Un’altra risata, che
non fa altro che aumentare la mia stizza. Faccio per muovermi, ma il braccio
del vecchio mi ferma proprio sulla porta. Ridacchia ancora, e sento il suo
fiato puzzolente di fumo appestarmi.
“E’ il tuo battesimo di fuoco,
giovane. Vai e fatti onore, che una volta che uscirai di li potrai finalmente
dire di essere diventato un uomo fatto e finito.”
Mi divincolo dalla presa,
guardandolo storto. Storco il naso e faccio per attraversare la porta, che si apre
automaticamente. Sento una voce robotizzata invitare il candidato numero 46219
ad entrare nella camera 203, e poi il silenzio. Deglutisco nervosamente, e mi
rassegno ad entrare. L’ultima cosa che sento è il colonnello che urla
nuovamente di farmi onore, e il fragore della sua risata. E di nuovo il
silenzio. Mi muovo agitato nella penombra, sentendo uno strano odore nella
stanza. Qualcosa che ricorda fiori, ma leggermente diverso. Faccio spallucce, e
mi muovo di qualche altro passo nel buio della stanza. La luce si accende
improvvisamente, lasciandomi intontito lì in mezzo. Socchiudo gli occhi
infastidito, cercando di superare il traumatico impatto con la luce. Vedo a
poco a poco le immagini tornare leggermente più chiare… vedo una sagoma di una
persona aderente al muro. Strofino gli occhi con le mani, mettendo finalmente
il tutto a fuoco. Rimango sbigottito di fronte alla donna che mi si presenta di
fronte. Mi sorride amichevole, e nonostante la mancanza di capelli non riesco a
non trovarla incredibilmente graziosa. Sto ancora lì, fermo, sentendomi il
cuore sprofondarmi nelle ginocchia. Lei ride.
“Che c’è, il gatto ti ha morso la lingua?”
La guardo contrariato, sbuffando imbarazzato. Si avvicina piano, e la vedo dritta negli occhi. La sensazione di smarrimento si ripete, mentre rimango ancora inebetito ad osservarla.
“Che c’è, il gatto ti ha morso la lingua?”
La guardo contrariato, sbuffando imbarazzato. Si avvicina piano, e la vedo dritta negli occhi. La sensazione di smarrimento si ripete, mentre rimango ancora inebetito ad osservarla.
“Credo che tu sappia perché siamo
qui, non è vero?”
Annuisco, deglutendo nervosamente al
vedere il suo sguardo emanare una strana nota maliziosa. Rimango ammaliato da
lei. Si avvicina a brevi passi, arrivando proprio sotto il mio naso, a portata
di mano.
“Visto che non possiamo opporci, tanto vale per lo meno…renderlo piacevole, non credi?”
“Visto che non possiamo opporci, tanto vale per lo meno…renderlo piacevole, non credi?”
La sua voce ha un ché di innocente
che mai mi sarei aspettato. In punta di piedi, sfiora le mie labbra con le sue.
“No, no e ancora no! Non se ne
parla!”
Le parole vengono quasi urlate dal
colonnello, mentre si allontana da me come se avessi detto una bestemmia. La
sola richiesta lo aveva fatto piombare in un profondo nervosismo, estremamente
palpabile, che si rifletteva nel suo sudore freddo e nella vena della tempia
che pulsava come poche volte prima
“La prego, signor colonnello, lei
deve aiutarmi. Mi ascolti...”
“ASCOLTARE?”
Si gira violentemente, guardandomi
stizzito
“Ascoltare mi dici. E che cosa
dovrei ascoltare? I vaneggiamenti di un pazzo, ecco cosa. Pensavo che saresti
uscito da li finalmente responsabile, per Dio. Come diavolo ti viene anche solo
lontanamente di pensare a una fesseria simile?”
Mi si avvicina, urlandomi le parole
in faccia, fuori di sé. Si ferma solo un istante, per guardarsi attorno, come
se si sincerasse di essere lontano da orecchie indiscrete.
“Lo sai cosa succederebbe se una
idea del genere venisse fuori, vero?”
Il tono stavolta cambia. Da
furibondo diventa preoccupato, quasi paternale. Vedo il rossore del suo volto
diminuire di intensità, col passare dei secondi. Gli occhi, stavolta,
tradiscono la paura.
“Lo hai detto stesso tu, no? I tempi
sono cambiati. Il governo è cambiato, la società è cambiata. Tutto è cambiato.
Credo sia il caso che lasci perdere, non mi sembra una cosa sicur-"
“Lo so!”
Urlo frustrato
“Lo so, so che è una pazzia, lo so
che i tempi sono cambiati, che se si sapesse in giro anche solo che ho pensato
una cosa simile probabilmente non si prenderebbero nemmeno la briga di
infilarmi in un riformatorio. Non sono così indulgenti. So tutto quanto.
Tuttavia...”
“Eh, tuttavia, tuttavia!”
Sbuffa pesantemente.
“Tuttavia mi vuoi dare a bere questa
bella storiella. La bella storiella che sei andato per la prima volta in una
camera di replicazione, hai visto per la prima volta in vita tua un pelo di
figa e di tutta risposta ti sei scoperto innamorato. Porca puttana, ragazzo,
sii uomo una buona volta. E' vero, ho delle influenze, sono immischiato in
questi meccanismi fino al collo, ma non puoi chiedermi di pilotarti gli
accoppiamenti così che ti ritrovi ogni santa volta a scoparti la stessa
ragazza. E' troppo rischioso... soprattutto per te.”
Cala il silenzio. Pochi istanti, in
cui risento nella mia testa tutte le parole del colonnello. Non ho motivo di
dubitare di quello che dice, anche perché conosco bene come funzionano qui le
cose. So già che il rischio di essere scoperto c'è, so già che metterei nei
guai prima lui, e so già che probabilmente, per quanto possa essere crudo, mi
dice tutto questo perché mi vuole bene. So tutto, veramente, ma...
“Già, non potrei. Non potrei se
fosse per una cazzata, per una cosa di una sola notte. Non potrei se per me il
gioco non valesse la candela. Non potrei se mi mettessi in mano al primo che
capita, chiedendogli aiuto. E' per
questo che chiedo a lei, colonnello. Perché lei mi conosce, mi conosce da
quando sto in questo cazzo di buco. Mi ha portato lei per la prima volta in uno
di quei comizi. Mi ha detto lei più o meno tutto quello che so su questo cazzo
di posto. Su tutti i giochi di potere che ci sono, su tutti i movimenti
occulti, tutte le contraddizioni e le repressioni. E lei mi ha visto crescere
come uomo. Si ricorda cosa mi diceva sempre? Mi ha sempre detto che mi sarei
sentito tale solo quando avessi avuto veramente qualcosa per cui avrei voluto
rischiare. Mi ricordo quante volte me l’ha ripetuto, e quante volte dentro di
me, con tutto il rispetto, l’ho liquidato come una cazzata. E ora non più. Immagino che lei parlasse della resistenza,
non nego che probabilmente sarebbe più sensato lottare per una cosa del genere.
Ma è da due giorni che mi sento...dio, non so nemmeno come. In fiamme. Lei mi
conosce colonnello...è la prima volta che mi sento cos...”
“Ah, basta ,basta. Certo che con la
lingua sei bravo tu. A stare a sentire come metti tutte queste stronzate una
dietro l’altra, uno potrebbe anche rischiare di cascarci, di crederti, di dare
un minimo di fondamento ai tuoi vaneggiamenti. Dio santo, solo a sentirti mi
viene il mal di mare.”
Lo vedo gesticolare ampiamente e
allontanarsi indispettito. Si ferma alla porta, senza nemmeno girarsi.
“E va bene, ci penso io...”
Se ne va ad ampi passi, urlando di
fare in modo che almeno ne valesse la pena, per poi eruttare nuovamente nella
fragorosa risata che lo caratterizza.
Il colonnello, sempre il solito. Mi
ritrovo a sorridere, vedendo quel vecchio gigantesco che se ne andava
camminando allegramente quando due secondi prima mi dava dell’idiota.
[…]
Sono emozionato come un cazzo di
ragazzino di sedici anni.
Oggi non ho dormito. Non so come muovermi . In verità non so nemmeno cosa aspettarmi. E’ passato così poco
tempo, e ho così paura. E allo stesso tempo, per la prima volta mi sento vivo.
Sono passati una ventina di giorni
da quando ho chiesto quel favore al colonnello. Venti giorni che sono sembrati
venti anni. Lavoro, ma non ci faccio caso. Parlo, ma non mi ascolto. Mangio, ma
non ne ho voglia. Dormo, o almeno ci provo. Venti giorni in cui vivo di grigi.
Di giorni troppo scuri e notti troppo chiare, di emozioni che aspettano
solamente di essere riaccese e di paure che mi raffreddano il cuore.
Tutto esplode di nuovo quando la
voce robotizzata chiede di nuovo al candidato 46219 di recarsi nella camera
numero 203. Mi piomba tutto addosso, come se si fosse spezzato qualcosa.
Dio santo, ma che sto facendo? Sto
sognando venti giorni una voce nella penombra a cui se ci penso non riesco
neanche ad associare un volto. Che poi me la ricordo la voce? Niente, ci penso e non me
la ricordo. Eppure me la sono sognata, cazzo. Me la sentivo nella testa mentre
lavoravo, mentre parlavo, mentre mangiavo, mentre dormivo. E ora puff, niente,
volatilizzata, fuori dalla mia memoria, un cazzo di buco nella mia testa, una
specie di miraggio che mi mette solo inquietudine. Per quale motivo ho penato
tutto questo tempo, aspettando questo incontro?! E se si scopre che è tutta
un’illusione, uno schema mentale nella mia testa per trovare qualcosa, qualsiasi
cosa, per spezzare la monotonia di quel maledetto buco?
E sto anche facendo i conti senza
l’oste… Alla fine io ho organizzato tutto questo di mia iniziativa. Non una
parola le è arrivata, ora improvvisamente si trova il tizio che si è scopata il
mese scorso che dice di essersi innamorato di lei e che ha fatto in modo di
rivedersi. E se non è d’accordo? Non potrei sopportare l’idea che mi rida in
faccia. E non mi ricordo nemmeno come è fatta. Eppure mi fa paura. Ho paura di una
donna di cui non so nemmeno il nome.
La voce robotizzata spezza il
flusso, ripetendomi di recarmi nella camera numero 203. Sospiro abbattuto,
incamminandomi per la seconda volta in quel dannato corridoio scuro. Ad ogni
passo, sento il morale sempre più a terra. Passo. Dopo. Passo. Ed eccola lì, la
porta. In una traversata di quanto, dieci secondi? Mi sembra di aver perso 10
anni della mia vita. Rimango lì, ancora titubante. Sbuffo ancora, prendendomi a
schiaffi. Alla fine, ora come ora,che ho da perdere? Sono arrivato fin qui,
tanto vale arrivare fino in fondo. Deglutisco un’ultima volta, sentendo il
groppo formarsi in gola, e faccio quel passo verso la porta, sentendo gli
spifferi allentarne la presa e spalancarla. La camera è ancora più scura del
corridoio che vi si affaccia,s e è possibile. Chiudo gli occhi, sospirando
un’ultima volta, e faccio quei pochi passi che servono per entrare nella
stanza. Sento la porta alle mie spalle chiudersi con lo stesso spiffero che
avevo sentito nell’aprirsi, e poi il suono dei neon che si accendono. Rimango
ancora ad occhi chiusi, troppo impaurito per aprirli.
“Guarda un po’ chi si rivede.”
La sua voce squillante fa breccia
nel silenzio. Pochi secondi e ricordo, ricordo tutti i discorsi che mi ero
fatto, che avevo vissuto nella mia testa, in cui parlavo con lei, la conoscevo,
la sentivo ridere, scherzare, amare.
Apro gli occhi e la rivedo nella
stessa posizione in cui l’avevo vista il giorno in cui ci siamo incontrati.
Appoggiata al muro, il suo corpo rilassato, lo sguardo che faceva capolino
dalla testa inclinata con fare indagatore. Vedo le sue labbra schiudersi in un
sorriso divertito.
“Certo che tu all’inizio non sei uno di tante parole, eh?”
“Certo che tu all’inizio non sei uno di tante parole, eh?”
Mi si avvicina a piccoli, lenti
passi, che risuonano nella stanza.
“Immagino che ci sia una spiegazione
dietro al fatto che ci ritroviamo di nuovo io e te qui, no?”
Il cuore fa un tonfo, si
ripropongono tutte le paure che avevo sentito poco fa. Il senso di smarrimento,
di abbandono, ritorna a pervadermi. Solo un istante, finché non riesco a
trovare le forze di scacciarlo.
“Diciamo che possiamo pensare che
sia destino…”
Non do spiegazioni, lascio a lei il
compito di immaginare, mentre mi avvicino e sfioro lento con le dita il letto
della stanza. Il letto in cui ho consumato la mia prima notte d’amore.
“Tu sei pazzo…”
Scuote la testa, stranamente per
niente intimorita. Curiosa, divertita, forse anche affascinata. Ma non
impaurita.
“Immagina che cosa succederebbe se
lo venissero a sapere.”
“A sapere cosa? Ufficialmente ho
semplicemente risposto alla ‘chiamata alle armi’ e mi trovo qui, come
stabilito. E poi non mi sembri così impaurita dalla situazione. Direi che sei
quasi divertita.”
“Touché.”
Mi siedo sul letto, guardandola
dritta negli occhi.
“Non voglio sembrare un pazzo ai tuoi occhi… E’ che…diavolo, non saprei nemmeno da dove cominciare. Diciamo che non sono un tipo facile, ok? No, forse mi spiego male… ma…”
“Non voglio sembrare un pazzo ai tuoi occhi… E’ che…diavolo, non saprei nemmeno da dove cominciare. Diciamo che non sono un tipo facile, ok? No, forse mi spiego male… ma…”
Mi zittisce con la mano,
appoggiandomela piano sulle labbra. Il suo sguardo si fa così dolce…così
intenso…
“Non sei l’unico che ha fatto una
cosa pazza per essere qui…”
Mi dice queste parole, tirandomele
fuori con leggerezza, e me le sento affondare nel cuore come una freccia.
Inizio a palpitare, ma cerco di contenermi. Interpreto le parole in così tanti
modi, che quasi rinuncio a immaginare cosa intendesse dire. La vedo avvicinarsi
verso le mie labbra, come l’ultima volta…
La interrompo, frapponendo la mia
mano tra di noi.
“Prima… puoi dirmi qual è il tuo
nome?”
Ride scherzosamente, per poi
rivolgermi uno sguardo malizioso. Appoggia le ginocchia accanto alle mie gambe,
aderendo al mio petto.
“Diciamo che preferisco lasciare le
presentazioni a dopo.”
Si avvicina per baciarmi di nuovo. E
questa volta non riesco a trovare da nessuna parte la forza di fermarla.
[…]
“Non ci credo.”
“Ti dico che è così!”
“No, non ci credo.”
“E’ così, te lo giuro!”
“Quindi ti chiameresti Adrienne?”
“Certo, perché non dovrei?”
“Non lo so, non hai la faccia da
Adrienne…”
“Oh, ma piantala, mi stai prendendo
in giro.”
“Ecco, visto? Stai ridendo.”
“Certo, perché fai il cretino.”
“Ma quale cretino.”
“Ti dico di si”
“Va bene, va bene, la pianto,
contenta?”
“Ah, smettila, piuttosto perché non
mi dici com’è che hai organizzato ‘sto incontro?”
“Ma niente, ho parlato con chi di
dovere e sono riuscito a far quadrare gli accoppiamenti in un determinato modo,
nulla di più nulla di meno, che non esca da questa stanza però!”
“Ma dai, e tu a chi ti sei rivolto?”
“E’ un segreto.”
“Ma come un segreto? E allora perché
mi dici tutte queste cose se poi mi tieni i segreti!”
“Non dipende solo da me, ti dico.
Non sarebbe giusto nei suoi confronti esporlo…”
“Va bene, va bene, ho capito
l’antifona, non ti chiedo più niente.”
“…”
“…”
“Perché sorridi?”
“Ma niente, non posso sorridere?”
“Certo che puoi sorridere, ma mi
puoi anche dire perché.”
“Così, pensavo.”
“A che cosa?”
“Ma niente, solite cose. A come
siamo dei pazzi. Poco fa mi hai detto che quei venti giorni che siamo stati
lontani sono stati un inferno per te.”
“Oh, guarda, non me ne parlare.”
“Ecco, visto, tutto qui, mi
divertiva l’idea di te che stavi in un angolo a contare i secondi che ti
separavano da me.”
“Non esageriamo, i secondi… I
minuti, va.”
“E mi chiedevo come avresti passato
i prossimi venti giorni.”
“…già.”
“Ehi, che c’è?”
“Niente, non ci avevo pensato…”
“Davvero?”
“No, il pensiero non mi aveva
proprio sfiorato.”
“Il fatto è che non possiamo nemmeno
parlare troppo nelle ore d’aria. Rischieremmo di dare troppo nell’occhio.
Stranamente le due persone di sesso opposto che più comunicano tra loro sono
anche quelle che più frequentemente si ritrovano accoppiate nella camera di
replicazione.”
“Già, dovremo evitare.”
“…E se finissi incinta?”
“Non fasciamoci la testa prima di
rompercela.”
“Potremo vederci per un altro paio
di mesi, poi mangerebbero la foglia.”
“Si, lo so, ora non ci pensiamo.”
“Dobbiamo pensarci, tra poco
dobbiamo uscire…e per quanto stia bene ora, non possiamo passare altri venti
giorni così, a torturarci.”
“Il tuo periodo ovulatorio dura
altri due giorni, no? Significa che ci rivedremo domani e dopodomani. Poi ci
pensiamo, non voglio rovinarmi questo giorno.”
“Già…ma dobbiamo trovare una
soluzione. Un palliativo almeno.”
“Lo so…”
[…]
ANGELO, GUARDA IL PASSATO
...un sasso, una foglia, una porta introvata; di una foglia,
un sasso, una porta. E di tutti i volti dimenticati.
Nudi e soli siamo venuti all'esilio. Nel buio del suo ventre,
non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione
della sua carne siamo venuti nell'indescrivibile
e incomunicabile prigione di questa terra.
Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato
nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre
tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre
uno sconosciuto e un solitario?
O perduto, e del vento compianto, fantasma, torna.