Citazioni


venerdì 27 dicembre 2013

Guardo il passato. - Parte I



 Ispirato alla poesia "Angelo, guarda il passato", di Thomas Wolfe.





Un sasso. una foglia, una porta. Di una foglia, un sasso, una porta. Guardo quello stesso angolo, nella stessa ora, da non so quante settimane ormai,  che sembra quasi di vedere le immagini sovrapporsi. Ecco come era la foglia il mese scorso, e quello è il sasso di due settimane fa. E la porta di oggi.
Non so quanti degli abitanti qui riuscirebbero ad apprezzare una vista del genere. Immagino che cercherebbero almeno per quell’ora a settimana di illudersi di non vivere in enormi scatoloni di metallo automatizzati, che gli spazi verdi, gli spazi incontaminati, esistano ancora, e di poter credere di essere parte di essi. Io, al contrario, negli ultimi anni della mia vita ho imparato a godermi particolarmente il panorama che si osserva in questo punto del prato erboso, in questa precisa angolazione. Probabilmente perché è l’esempio più lampante del paradosso di questa situazione. Aree Naturali, prefabbricate, a cui accedere manco fosse uno scantinato o in qualunque modo si chiamassero quelle stanze di cui sento ogni tanto parlare dai vecchi della comunità. Quelle stanze dove stipare gli oggetti vecchi, gli oggetti che non servivano o gli oggetti che servivano in determinate situazioni, ma che si preferiva tenere lontano dagli occhi, così che non stonassero col resto dell’abitazione.
Ed ecco qui, un giardino a portata di porta, in cui ci si potrebbe affacciare solo per godere della sua fittizia aria fresca, solo per poter godere di quella luce sempre uguale, in quell’enorme palla di vetro che è anche l’unico contatto pseudo diretto che ormai si ha col sole, o con le stelle, o con qualunque cosa ci sia sopra questi baracconi in cui ci troviamo stipati da decenni.
Alla fin fine ho perso l’interesse per questo tentativo di fusione che gli altri cercano di effettuare in queste “sedute”, dove le due grandi comunità, settimanalmente, hanno l’onore di vedersi, di poter anche interagire tra loro. Come se un’ora a settimana possa bastare a superare i blocchi che si sono formati in anni a vivere lontani tra di noi, a superare la paura per l’ignoto, per quello strano tipo di essere umano che prima di compiere i quattordici anni non eravamo mai stati in grado di vedere.
Ma immagino che al governo, più che si interagisca, importa che semplicemente veniamo a sapere dell’esistenza dell’altro sesso. E’ da cinquant’anni che sono qui e posso dire di aver sentito le più disparate teorie a riguardo, ma penso che alla fine quello che importi sia proprio sapere che le femmine, o i maschi, esistono ancora, così da non eliminare del tutto il proprio istinto di riproduzione. Non so biologicamente come funzioni, probabilmente feromoni o chissà quale altra diavoleria, c’è da dire che la cosa funziona, complice il clima di repressione che tronca sul nascere qualsiasi possibilità di rapporto omosessuale. Tuttavia, anche quando me ne fregava qualcosa di quella comunità, devo dire che non ho mai provato la spinta per..
“Ehi, la campana è suonata. Alzati, svelto!”
La voce del “cane da guardia” risuona, abbaiando il suo ordine con rabbia. Io semplicemente mi alzo, gettandomi meccanicamente nel flusso di uomini che a piccoli passi si avvia, dubbioso, verso la porta.
La porta apre in uno di quegli innumerevoli tunnel metallici, con luci al neon che rendono il tutto più alienante, come se non bastassero le viti che si vedono sporgere dalle fottute pareti e quell’odore di chiuso che per quanto si provi proprio non riesce ad andare via. Un flusso di maschi, lavoratori, diretti verso le camerate. Mentre cammino mi pare di vedere qualche cenno di saluto da alcuni componenti della fila, che immagino dovrei conoscere…ma che per quanto mi possa sforzare, anche volendo non riesco a identificare. Sembrano tutti così uguali, tante facce senza volto che si muovono all’unisono, dietro a un grido di battaglia o ad un ordine dall’alto. Tanti omuncoli come quello che ora mi stringe spensieratamente le spalle, in maniera amichevole.
“Vecchio diavolo, ancora seduto sull’erba a non far niente oggi?”
Faccio un cenno col volto a Steve, uno di quei giovanotti di belle speranze, con ancora tutte le ossa a posto e con gli acciacchi dell’età ancora lontani.
“Cosa devi dirmi?”
Parlo annoiato, anticipando uno di quei discorsi che sento ripetersi ogni giorno. Immagino che ora glisserà allegramente.
“Ma nulla di speciale, tranquillo.”
Tipico. Ridacchia, per poi guardarsi attorno, cercando di sembrare il più disinvolto possibile. Si avvicina per sussurrarmi delle parole all’orecchio.
“Volevo solo ricordarti dell’incontro di oggi… il comitato vorrebbe che ci fossi anch...”
Gli faccio semplicemente cenno di aver capito, per separarmi veloce verso la mia stanza. Lo sento sussurrare ancora di aspettare il segnale, poi il nulla.
Mi butto sulla branda, sbuffando, fissando semplicemente il soffitto. Non mi va per niente a genio l’idea di presenziare ancora ad una di quelle riunioni organizzate dal comitato, ma sarebbero state più le noie che avrei avuto se non ci fossi andato che quelle che avrei provato facendo finta di ascoltare l’ennesimo rivoltoso che cerca di aizzare il popolo decantando ideali morti come la libertà, l’uguaglianza e stronzate simili. E poi, seriamente, che avevo di meglio da fare? I secondi scorrono interminabili, fissando un punto fisso, sperando che arrivi presto il segnale, così da avvicinare prima la fine di quella pallosa giornata e provare a dormire almeno qualche ora. Lo sguardo corre verso il cassetto del comodino, chiuso con cura. Neanche oggi è stato aperto. Passo la mano veloce, ad accarezzare la maniglia. Tiro piano il cassetto, sfilandolo dal mobile. Senza riflettere prendo la penna da dentro, tirando fuori la barra dell’inchiostro, e la infilo lentamente in un buco sulla base del cassetto. Il fondo si solleva, lasciandomi intravedere ancora una volta il libro. “Che tu sia per me il coltello”, di David Grossman …lo vedo solo e sento i ricordi riaffiorare.
Sfioro lentamente il dorso della rilegatura, sentendo sotto le mie dita il rilievo del titolo. Chiudo gli occhi, e lascio che la mia testa rievochi quelle immagini. Rivedo il volto dal sorriso dolce. Lo sguardo a metà tra lo spaventato e il malizioso. I tunnel nell’oscurità. Le foto che cadono a terra. I bei tempi e le risate. Le corse. Gli affanni. Le paure. L’emozione. L’euforia. La rabbia, l’amore. Mi sembra quasi di sentire la pelle sotto le mie mani mentre la accarezzo e la sento mugugnare dolcemente, dicendomi di smetterla. Sento il cuore battere all’impazzata, mentre mi guardo attorno pregando che nessuno mi abbia visto passare di lì. Sento il mio sorriso allargarsi alla vista del suo e al sentire la sua voce. Il suo suono dolce, a tratti spezzato dalla paura. Sento quel suono metallico, mentre mi avvicino…

Suono metallico?
Un po’ scosso mi ritrovo steso sul mio letto, a inseguire fantasmi che si perdono nel vento. Sbatto un po’ gli occhi, cercando di fare mente locale. Un suono metallico. Deve essere il segnale.
Annoiato mi alzo, portando con me il libro. Le luci già sono diminuite, e a stento si riesce a vedere dove si mette piede. Non in giro una guardia, come da programma. Vedo altri tizi uscire dalle loro stanze in punta di piedi, sgattaiolando come ratti tra le fognature (quando se ne vedevano ancora). Cammino tranquillo, tanto so come funzionano le cose.
Seguo il flusso di persone fino alla stanza adibita all’incontro. Come al solito, la mensa.
L’incontro è già iniziato da un po’. Vedo già tutta la folla attorniata al tavolo più lontano, che cerca di sentire il capo della resistenza intento a sciorinare il solito comizio.
Mi avvicino lentamente, sedendomi defilato ad uno dei tavoli sulla fiancata. Distratto, ascolto un po’ il discorso. Lo sento chiamare a raccolta gli abitanti del complesso, chiamarli fratelli, e illustrare in modo enfatico la situazione in cui ci troviamo. Siamo schiavi, siamo esseri umani che vivono in gabbie da zoo, con funzionari del governo che ci illustrano dall’alto delle loro torri bianche su cosa fare e cosa non fare. Sotto controllo 7 giorni su 7, ventiquattro ore su ventiquattro. Libertà di parola zero. Libertà di stampa men che meno. Per non parlare di libertà di associazione. Vedo i volti dei partecipanti tremanti dalla paura, consci di rompere la legge con quell’incontro. Sono giovani, non sono ancora abituati a quella che ormai è una routine. E' passato del tempo ormai, ma so che se riusciamo a organizzare quegli incontri è perché sappiamo che chi di dovere ci coprirà. Non ci sono stato dentro abbastanza per sapere come esattamente riusciamo a procurarci la copertura, e ormai con tutta sincerità poco mi interessa. Ho imparato che a un certo punto è meglio rimanere nell’ignoranza, e godersi quella notte brava in barba al coprifuoco. Inizio a sfogliare il libro, mentre sento il capo della resistenza iniziare a inneggiare ad ideali ormai morti come l’uguaglianza, la fratellanza e la giustizia, a cercare di far riaffiorare il coraggio in quei poveri disgraziati, a cercare di pungolare il loro orgoglio, di spronarli a scrollarsi di dosso “il giogo che siamo costretti a sopportare ormai da troppo tempo, sotto questo regime dittatoriale che ci soffoca e ci uccide lentamente, rubandoci la nostra stessa umanità col loro pugno di ferro! E’ ora di dire basta, di rivendicare la libertà che è nostra di diritto, che i padri dei nostri padri hanno ottenuto col sangue e che ora ci negano!”
Il messaggio stenta ad attecchire in quei cuori impauriti, e a me quasi viene da ridere sentendo quel discorso così concitato. Quegli stessi spauracchi, vestigia del tempo prima che entrassimo in quelle baracche di metallo, incitavano e inneggiavano solo mezzo secolo prima per quel movimento che ora si è materializzato nello stesso regime che ora cercano con così tanta forza di sradicare e di scrollarsi di dosso. Solo mezzo secolo prima parteggiavano per quella politica che ha reso possibile la vera e propria ghettizzazione del popolo, probabilmente per cercare di liberarsi dalle gravezze economiche e dall’amministrazione di una casta “inetta” che li avevano portati sull’orlo della miseria. Ed ora eccoli qui.
Rinuncio ad ascoltare quei discorsi, rinuncio ad ascoltare dei bei tempi andati in cui un uomo poteva ancora scegliere qualcosa, poteva ancora trovare uno svago, una passione. Rinuncio ad ascoltare racconti di una vita che non ho mai vissuto. Da quando sono nato sono lì, e ormai tanto basta…
Faccio per tornare a leggere il libro, quando una frase di un giovane di buone speranze mi colpisce..
“Nel buio del suo ventre, non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione della sua carne siamo venuti nell’indescrivibile e incomunicabile prigione di questa terra.”
Il discorso continua, ma non sento nient’altro che quelle parole risuonarmi nella testa, affondando dritto al cuore. Parole che, per quanto essenziali, sono perfettamente in grado di rappresentare la cruda realtà di merda in cui viviamo. E poi, pensandoci bene, neanche oggi conosciamo il volto delle nostre madri.
Veniamo strappati dalle sue braccia troppo presto per potercene ricordare, cresciuti come bastardi senza natali.
E i padri… i padri non sono mai esistiti nelle nostre vite. Non erano presenti il giorno che abbiamo aperto gli occhi per la prima volta. Non erano presenti il giorno che abbiamo fatto i primi passi, che abbiamo detto le prime parole. Per quel che se ne può sapere, chiunque può essere padre di uno di quegli sbarbatelli che si agita in preda all’euforia o alla paura davanti a questi discorsi troppo grandi per loro. E nessuno, nessuno lo può sapere.
Già… nessuno…

“Che gran rottura di scatole!”
Cammino furiosamente per il corridoio, sbuffando. So già che gli ordini dall’alto non si possono discutere, ma dire che mi va di fare quella buffonata significherebbe mentire spudoratamente. Ho raggiunto il pieno sviluppo fisico, quindi per i grandi capi sono ufficialmente catalogabile come uomo. E, come tale, mi spettano i doveri che sono propri del mio status di uomo. Come se lavorare come un mulo per più di dieci ore al giorno, spaccandomi le mani per avere il diritto a vivere nel ‘regime illuminato’, non sia già abbastanza. Ah, ma la vedranno, eccome se la vedranno.
“Che poi cos’è che dovrei fare per davvero? E ti prego, non risp…”
“Fare l’uomo, ecco cosa dovrai fare.”
Il colonnello ride, la solita risata bonaria di chi la sa lunga che mi da sui nervi.
“Sia serio, colonnello! Lo so che ai suoi tempi la situazione era diversa, ma le ripeto che le cose sono cambiate.”
“Oh, credimi, cose del genere non cambieranno mai, su questo posso giocarmi entrambe le mani”
“Tutto quello che vuole, ciò non toglie che non so neanche chi sto andando ad incontrare, è tutta una farsa.”
“Calma, ragazzo. La natura farà il suo corso, credi a me!”
Un’altra risata. Mi rassegno all’idea di dovermi attenere alle procedure. Tanto il colonnello non sputerà mai il rospo. Ci gode troppo a vedermi in quella situazione, totalmente ignaro sul come mi devo muovere, come devo affrontare la cosa.
Sbuffo di nuovo, accelerando il passo. Prima arriviamo, prima mi libero e prima possiamo pensare alle cose serie. Oggi ci dovrebbe essere un altro comizio, se non ricordo male. I consensi stanno aumentando giorno dopo giorno… forse la libertà presto non sarà più un utopia, e…
“Siamo arrivati, scricciolo.”
Ed eccomi lì, per la prima volta davanti a una camera per la replicazione. Cerco di nascondere il nervosismo, ci manca solo che il colonnello lo noti e mi prenda in giro…
“Nervoso, ragazzo?”
Ecco, appunto. Un’altra risata, che non fa altro che aumentare la mia stizza. Faccio per muovermi, ma il braccio del vecchio mi ferma proprio sulla porta. Ridacchia ancora, e sento il suo fiato puzzolente di fumo appestarmi.
“E’ il tuo battesimo di fuoco, giovane. Vai e fatti onore, che una volta che uscirai di li potrai finalmente dire di essere diventato un uomo fatto e finito.”
Mi divincolo dalla presa, guardandolo storto. Storco il naso e faccio per attraversare la porta, che si apre automaticamente. Sento una voce robotizzata invitare il candidato numero 46219 ad entrare nella camera 203, e poi il silenzio. Deglutisco nervosamente, e mi rassegno ad entrare. L’ultima cosa che sento è il colonnello che urla nuovamente di farmi onore, e il fragore della sua risata. E di nuovo il silenzio. Mi muovo agitato nella penombra, sentendo uno strano odore nella stanza. Qualcosa che ricorda fiori, ma leggermente diverso. Faccio spallucce, e mi muovo di qualche altro passo nel buio della stanza. La luce si accende improvvisamente, lasciandomi intontito lì in mezzo. Socchiudo gli occhi infastidito, cercando di superare il traumatico impatto con la luce. Vedo a poco a poco le immagini tornare leggermente più chiare… vedo una sagoma di una persona aderente al muro. Strofino gli occhi con le mani, mettendo finalmente il tutto a fuoco. Rimango sbigottito di fronte alla donna che mi si presenta di fronte. Mi sorride amichevole, e nonostante la mancanza di capelli non riesco a non trovarla incredibilmente graziosa. Sto ancora lì, fermo, sentendomi il cuore sprofondarmi nelle ginocchia. Lei ride.
“Che c’è, il gatto ti ha morso la lingua?”
La guardo contrariato, sbuffando imbarazzato. Si avvicina piano, e la vedo dritta negli occhi. La sensazione di smarrimento si ripete, mentre rimango ancora inebetito ad osservarla.
“Credo che tu sappia perché siamo qui, non è vero?”
Annuisco, deglutendo nervosamente al vedere il suo sguardo emanare una strana nota maliziosa. Rimango ammaliato da lei. Si avvicina a brevi passi, arrivando proprio sotto il mio naso, a portata di mano.
“Visto che non possiamo opporci, tanto vale per lo meno…renderlo piacevole, non credi?”
La sua voce ha un ché di innocente che mai mi sarei aspettato. In punta di piedi, sfiora le mie labbra con le sue.
[…]
“No, no e ancora no! Non se ne parla!”
Le parole vengono quasi urlate dal colonnello, mentre si allontana da me come se avessi detto una bestemmia. La sola richiesta lo aveva fatto piombare in un profondo nervosismo, estremamente palpabile, che si rifletteva nel suo sudore freddo e nella vena della tempia che pulsava come poche volte prima
“La prego, signor colonnello, lei deve aiutarmi. Mi ascolti...”
“ASCOLTARE?”
Si gira violentemente, guardandomi stizzito
“Ascoltare mi dici. E che cosa dovrei ascoltare? I vaneggiamenti di un pazzo, ecco cosa. Pensavo che saresti uscito da li finalmente responsabile, per Dio. Come diavolo ti viene anche solo lontanamente di pensare a una fesseria simile?”
Mi si avvicina, urlandomi le parole in faccia, fuori di sé. Si ferma solo un istante, per guardarsi attorno, come se si sincerasse di essere lontano da orecchie indiscrete.
“Lo sai cosa succederebbe se una idea del genere venisse fuori, vero?”
Il tono stavolta cambia. Da furibondo diventa preoccupato, quasi paternale. Vedo il rossore del suo volto diminuire di intensità, col passare dei secondi. Gli occhi, stavolta, tradiscono la paura.
“Lo hai detto stesso tu, no? I tempi sono cambiati. Il governo è cambiato, la società è cambiata. Tutto è cambiato. Credo sia il caso che lasci perdere, non mi sembra una cosa sicur-"
“Lo so!”
Urlo frustrato
“Lo so, so che è una pazzia, lo so che i tempi sono cambiati, che se si sapesse in giro anche solo che ho pensato una cosa simile probabilmente non si prenderebbero nemmeno la briga di infilarmi in un riformatorio. Non sono così indulgenti. So tutto quanto. Tuttavia...”
“Eh, tuttavia, tuttavia!”
Sbuffa pesantemente.
“Tuttavia mi vuoi dare a bere questa bella storiella. La bella storiella che sei andato per la prima volta in una camera di replicazione, hai visto per la prima volta in vita tua un pelo di figa e di tutta risposta ti sei scoperto innamorato. Porca puttana, ragazzo, sii uomo una buona volta. E' vero, ho delle influenze, sono immischiato in questi meccanismi fino al collo, ma non puoi chiedermi di pilotarti gli accoppiamenti così che ti ritrovi ogni santa volta a scoparti la stessa ragazza. E' troppo rischioso... soprattutto per te.”
Cala il silenzio. Pochi istanti, in cui risento nella mia testa tutte le parole del colonnello. Non ho motivo di dubitare di quello che dice, anche perché conosco bene come funzionano qui le cose. So già che il rischio di essere scoperto c'è, so già che metterei nei guai prima lui, e so già che probabilmente, per quanto possa essere crudo, mi dice tutto questo perché mi vuole bene. So tutto, veramente, ma...
“Già, non potrei. Non potrei se fosse per una cazzata, per una cosa di una sola notte. Non potrei se per me il gioco non valesse la candela. Non potrei se mi mettessi in mano al primo che capita, chiedendogli aiuto.  E' per questo che chiedo a lei, colonnello. Perché lei mi conosce, mi conosce da quando sto in questo cazzo di buco. Mi ha portato lei per la prima volta in uno di quei comizi. Mi ha detto lei più o meno tutto quello che so su questo cazzo di posto. Su tutti i giochi di potere che ci sono, su tutti i movimenti occulti, tutte le contraddizioni e le repressioni. E lei mi ha visto crescere come uomo. Si ricorda cosa mi diceva sempre? Mi ha sempre detto che mi sarei sentito tale solo quando avessi avuto veramente qualcosa per cui avrei voluto rischiare. Mi ricordo quante volte me l’ha ripetuto, e quante volte dentro di me, con tutto il rispetto, l’ho liquidato come una cazzata. E ora non più.  Immagino che lei parlasse della resistenza, non nego che probabilmente sarebbe più sensato lottare per una cosa del genere. Ma è da due giorni che mi sento...dio, non so nemmeno come. In fiamme. Lei mi conosce colonnello...è la prima volta che mi sento cos...”
“Ah, basta ,basta. Certo che con la lingua sei bravo tu. A stare a sentire come metti tutte queste stronzate una dietro l’altra, uno potrebbe anche rischiare di cascarci, di crederti, di dare un minimo di fondamento ai tuoi vaneggiamenti. Dio santo, solo a sentirti mi viene il mal di mare.”
Lo vedo gesticolare ampiamente e allontanarsi indispettito. Si ferma alla porta, senza nemmeno girarsi.
“E va bene, ci penso io...”
Se ne va ad ampi passi, urlando di fare in modo che almeno ne valesse la pena, per poi eruttare nuovamente nella fragorosa risata che lo caratterizza.
Il colonnello, sempre il solito. Mi ritrovo a sorridere, vedendo quel vecchio gigantesco che se ne andava camminando allegramente quando due secondi prima mi dava dell’idiota.
[…]
Sono emozionato come un cazzo di ragazzino di sedici anni.
Oggi non ho dormito. Non so come muovermi . In verità non so nemmeno cosa aspettarmi. E’ passato così poco tempo, e ho così paura. E allo stesso tempo, per la prima volta mi sento vivo.
Sono passati una ventina di giorni da quando ho chiesto quel favore al colonnello. Venti giorni che sono sembrati venti anni. Lavoro, ma non ci faccio caso. Parlo, ma non mi ascolto. Mangio, ma non ne ho voglia. Dormo, o almeno ci provo. Venti giorni in cui vivo di grigi. Di giorni troppo scuri e notti troppo chiare, di emozioni che aspettano solamente di essere riaccese e di paure che mi raffreddano il cuore.
Tutto esplode di nuovo quando la voce robotizzata chiede di nuovo al candidato 46219 di recarsi nella camera numero 203. Mi piomba tutto addosso, come se si fosse spezzato qualcosa.
Dio santo, ma che sto facendo? Sto sognando venti giorni una voce nella penombra a cui se ci penso non riesco neanche ad associare un volto. Che poi me la ricordo la voce? Niente, ci penso e non me la ricordo. Eppure me la sono sognata, cazzo. Me la sentivo nella testa mentre lavoravo, mentre parlavo, mentre mangiavo, mentre dormivo. E ora puff, niente, volatilizzata, fuori dalla mia memoria, un cazzo di buco nella mia testa, una specie di miraggio che mi mette solo inquietudine. Per quale motivo ho penato tutto questo tempo, aspettando questo incontro?! E se si scopre che è tutta un’illusione, uno schema mentale nella mia testa per trovare qualcosa, qualsiasi cosa, per spezzare la monotonia di quel maledetto buco?
E sto anche facendo i conti senza l’oste… Alla fine io ho organizzato tutto questo di mia iniziativa. Non una parola le è arrivata, ora improvvisamente si trova il tizio che si è scopata il mese scorso che dice di essersi innamorato di lei e che ha fatto in modo di rivedersi. E se non è d’accordo? Non potrei sopportare l’idea che mi rida in faccia. E non mi ricordo nemmeno come è fatta. Eppure mi fa paura. Ho paura di una donna di cui non so nemmeno il nome.
La voce robotizzata spezza il flusso, ripetendomi di recarmi nella camera numero 203. Sospiro abbattuto, incamminandomi per la seconda volta in quel dannato corridoio scuro. Ad ogni passo, sento il morale sempre più a terra. Passo. Dopo. Passo. Ed eccola lì, la porta. In una traversata di quanto, dieci secondi? Mi sembra di aver perso 10 anni della mia vita. Rimango lì, ancora titubante. Sbuffo ancora, prendendomi a schiaffi. Alla fine, ora come ora,che ho da perdere? Sono arrivato fin qui, tanto vale arrivare fino in fondo. Deglutisco un’ultima volta, sentendo il groppo formarsi in gola, e faccio quel passo verso la porta, sentendo gli spifferi allentarne la presa e spalancarla. La camera è ancora più scura del corridoio che vi si affaccia,s e è possibile. Chiudo gli occhi, sospirando un’ultima volta, e faccio quei pochi passi che servono per entrare nella stanza. Sento la porta alle mie spalle chiudersi con lo stesso spiffero che avevo sentito nell’aprirsi, e poi il suono dei neon che si accendono. Rimango ancora ad occhi chiusi, troppo impaurito per aprirli.
“Guarda un po’ chi si rivede.”
La sua voce squillante fa breccia nel silenzio. Pochi secondi e ricordo, ricordo tutti i discorsi che mi ero fatto, che avevo vissuto nella mia testa, in cui parlavo con lei, la conoscevo, la sentivo ridere, scherzare, amare.
Apro gli occhi e la rivedo nella stessa posizione in cui l’avevo vista il giorno in cui ci siamo incontrati. Appoggiata al muro, il suo corpo rilassato, lo sguardo che faceva capolino dalla testa inclinata con fare indagatore. Vedo le sue labbra schiudersi in un sorriso divertito.
“Certo che tu all’inizio non sei uno di tante parole, eh?”
Mi si avvicina a piccoli, lenti passi, che risuonano nella stanza.
“Immagino che ci sia una spiegazione dietro al fatto che ci ritroviamo di nuovo io e te qui, no?”
Il cuore fa un tonfo, si ripropongono tutte le paure che avevo sentito poco fa. Il senso di smarrimento, di abbandono, ritorna a pervadermi. Solo un istante, finché non riesco a trovare le forze di scacciarlo.
“Diciamo che possiamo pensare che sia destino…”
Non do spiegazioni, lascio a lei il compito di immaginare, mentre mi avvicino e sfioro lento con le dita il letto della stanza. Il letto in cui ho consumato la mia prima notte d’amore.
“Tu sei pazzo…”
Scuote la testa, stranamente per niente intimorita. Curiosa, divertita, forse anche affascinata. Ma non impaurita.
“Immagina che cosa succederebbe se lo venissero a sapere.”
“A sapere cosa? Ufficialmente ho semplicemente risposto alla ‘chiamata alle armi’ e mi trovo qui, come stabilito. E poi non mi sembri così impaurita dalla situazione. Direi che sei quasi divertita.”
“Touché.”
Mi siedo sul letto, guardandola dritta negli occhi.
“Non voglio sembrare un pazzo ai tuoi occhi… E’ che…diavolo, non saprei nemmeno da dove cominciare. Diciamo che non sono un tipo facile, ok? No, forse mi spiego male… ma…”
Mi zittisce con la mano, appoggiandomela piano sulle labbra. Il suo sguardo si fa così dolce…così intenso…
“Non sei l’unico che ha fatto una cosa pazza per essere qui…”
Mi dice queste parole, tirandomele fuori con leggerezza, e me le sento affondare nel cuore come una freccia. Inizio a palpitare, ma cerco di contenermi. Interpreto le parole in così tanti modi, che quasi rinuncio a immaginare cosa intendesse dire. La vedo avvicinarsi verso le mie labbra, come l’ultima volta…
La interrompo, frapponendo la mia mano tra di noi.
“Prima… puoi dirmi qual è il tuo nome?”
Ride scherzosamente, per poi rivolgermi uno sguardo malizioso. Appoggia le ginocchia accanto alle mie gambe, aderendo al mio petto.
“Diciamo che preferisco lasciare le presentazioni a dopo.”
Si avvicina per baciarmi di nuovo. E questa volta non riesco a trovare da nessuna parte la forza di fermarla.
[…]
“Non ci credo.”
“Ti dico che è così!”
“No, non ci credo.”
“E’ così, te lo giuro!”
“Quindi ti chiameresti Adrienne?”
“Certo, perché non dovrei?”
“Non lo so, non hai la faccia da Adrienne…”
“Oh, ma piantala, mi stai prendendo in giro.”
“Ecco, visto? Stai ridendo.”
“Certo, perché fai il cretino.”
“Ma quale cretino.”
“Ti dico di si”
“Va bene, va bene, la pianto, contenta?”
“Ah, smettila, piuttosto perché non mi dici com’è che hai organizzato ‘sto incontro?”
“Ma niente, ho parlato con chi di dovere e sono riuscito a far quadrare gli accoppiamenti in un determinato modo, nulla di più nulla di meno, che non esca da questa stanza però!”
“Ma dai, e tu a chi ti sei rivolto?”
“E’ un segreto.”
“Ma come un segreto? E allora perché mi dici tutte queste cose se poi mi tieni i segreti!”
“Non dipende solo da me, ti dico. Non sarebbe giusto nei suoi confronti esporlo…”
“Va bene, va bene, ho capito l’antifona, non ti chiedo più niente.”
“…”
“…”
“Perché sorridi?”
“Ma niente, non posso sorridere?”
“Certo che puoi sorridere, ma mi puoi anche dire perché.”
“Così, pensavo.”
“A che cosa?”
“Ma niente, solite cose. A come siamo dei pazzi. Poco fa mi hai detto che quei venti giorni che siamo stati lontani sono stati un inferno per te.”
“Oh, guarda, non me ne parlare.”
“Ecco, visto, tutto qui, mi divertiva l’idea di te che stavi in un angolo a contare i secondi che ti separavano da me.”
“Non esageriamo, i secondi… I minuti, va.”
“E mi chiedevo come avresti passato i prossimi venti giorni.”
“…già.”
“Ehi, che c’è?”
“Niente, non ci avevo pensato…”
“Davvero?”
“No, il pensiero non mi aveva proprio sfiorato.”
“Il fatto è che non possiamo nemmeno parlare troppo nelle ore d’aria. Rischieremmo di dare troppo nell’occhio. Stranamente le due persone di sesso opposto che più comunicano tra loro sono anche quelle che più frequentemente si ritrovano accoppiate nella camera di replicazione.”
“Già, dovremo evitare.”
“…E se finissi incinta?”
“Non fasciamoci la testa prima di rompercela.”
“Potremo vederci per un altro paio di mesi, poi mangerebbero la foglia.”
“Si, lo so, ora non ci pensiamo.”
“Dobbiamo pensarci, tra poco dobbiamo uscire…e per quanto stia bene ora, non possiamo passare altri venti giorni così, a torturarci.”
“Il tuo periodo ovulatorio dura altri due giorni, no? Significa che ci rivedremo domani e dopodomani. Poi ci pensiamo, non voglio rovinarmi questo giorno.”
“Già…ma dobbiamo trovare una soluzione. Un palliativo almeno.”
“Lo so…”
[…]



ANGELO, GUARDA  IL PASSATO
...un sasso, una foglia, una porta introvata; di una foglia,
un sasso, una porta. E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli siamo venuti all'esilio. Nel buio del suo ventre,
non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione
della sua carne siamo venuti nell'indescrivibile
e incomunicabile prigione di questa terra.
Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato
nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre
tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre
uno sconosciuto e un solitario?

O perduto, e del vento compianto, fantasma, torna.

sabato 21 dicembre 2013

Melancholia


Ecco che dopo anni mi ritrovo in questa stanza con le pareti verdi scolorite,
su questa sedia ancora più vecchia e traballante, come me;
unici pezzi d'arredamento nel vuoto dei pensieri,
nel frastuono dei sentimenti,
nell'umido delle lacrime e del vino.
Dopo anni, eccomi di nuovo in questa stanza,
contemplando la malinconia, ancora aspettando di riuscire a crogiolarmi
in un pensiero felice,
tremando per la cieca paura di non riuscirci mai.
Faccio un altro sorso rosso,
con un dito raccolgo una lacrima,
ed è come se all'improvviso iniziassi a morire, lentamente
lacrima dopo lacrima, goccia dopo goccia,
sangue e veleno fluiscono via dalle mie vene,
mi tasto, e non trovo ferite, ma chiudo gli occhi e il fuoco brucia,
li riapro e la realtà mi schiaccia,
le pareti verdi vibrano violente, la sedia scricchiola.
Non c'è salvezza per questa mia povera anima
torturata dai sassi che la mia testa lancia a ogni ricordo che richiama alla memoria.
Continuo a equilibrare il sangue che sgorga fuori dal mio essere
con sorsate di vino ingannevole,
alla disperata ricerca dell'oblio,
ma più bevo, più sanguino.

E cosa ne sarà di me, alla fine, quando mi sarò persa,
quando le lacrime e il vino saranno finiti,
quando gli occhi mi doleranno,
quando finalmente avrò abbandonato la convinzione di essere speciale?

Oh, continuerò forse a cercare salvezza nell'amore, motore della vita?
Ma l'amore non farà altro che alimentare la malinconia:
oh, amore, condanna e salvezza
malattia e medicina
veleno e antidoto,
fuoco che brucia e balsamo che lenisce!
E così mi accascio, su questa sedia di legno,
su questo cuscino consunto,
che a malapena sopporta ancora il peso della mia paranoia,
dimentica del momento in cui ha iniziato a insinuarmisi dentro,
in attesa di perdere i sensi e del completo svuotamento
da ogni sentimento.

Bevo, piango, sanguino.
Bevo, piango, sanguino.

E in fondo, a tutto questo pare che mi ci aggrappi con tutte le forze,
quasi come fosse un arto, o qualche altra parte del mio corpo.
E stringo a me pezzi taglienti di ricordi come vetri infranti.
Piango, e cerco di reprimere i singhiozzi più forti,
per non dissacrare questo luttuoso silenzio,
quasi mi aspettassi di udire i passi di qualcuno che viene a salvarmi.

Manca il fiato.
La vista è annebbiata.
I pensieri sono confusi.



Questo scritto è liberamente ispirato alla poesia "La fontana di sangue" di Charles Baudelaire:


E' come, certe volte, se il mio sangue
sgorgasse a fiotti, ritmica, singhiozzante fontana.
Lo sento bene: scorre con un lungo fruscio;

eppure, se tasto, non mi ritrovo ferite.

Invade la città come fosse un coltivo,
trasforma in isolette i sassi del selciato;
toglie la sete ad ogni creatura,
tinge ovunque di rosso la natura.

Spesso a vini capziosi ho domandato
di far dormire per un giorno la paura che mi rode;
ma il vino aguzza gli occhi, fa l'orecchio più fine!

Nell'amore ho cercato il sonno dell'oblio;
ma l'amore è un giaciglio pieno d'aghi, e non serve
che dar da bere a perfide puttane!

domenica 15 dicembre 2013

Spleen

Ho aperto il cassetto della mia scrivania per cercare qualcosa.
 
Non riesco a trovarla così ho spostato alcune cianfrusaglie, poggiandole sul piano, e ho continuato a scavare.
Mi chiedo come ci entrasse così tanta roba dentro, la più disparata: vecchi biglietti di autobus e tram di diverse città italiane e non, abbonamenti al Lucca Comics, spazzolini da denti, monete sparse, plettri, pupazzetti; non mi chiedo il perché siano lì, e non nella spazzatura da tempo, perché la risposta la conosco già: io non butto via niente. Conservo tutto, anche gli scontrini della spesa e i vecchi mensili dell’Ataf.
Il fatto è che ho sempre avuto la paura di dimenticare le cose, e conservare degli oggetti, seppur inutili, mi fa pensare che, quando voglio, posso riprenderli in mano e ricordare di quando un giorno ho comprato lo spumante e gli ingredienti per fare una torta perché la mia coinquilina si era laureata, o di quando un mio amico mi ha scritto “ciao” su un biglietto perché non ci vedevamo da tanto tempo.
 
Alla fine, tra le mani, mi arriva un piccolo sacchetto di seta che sembra vuoto: sfilo i legacci e dentro si cela una morbida arricciata ciocca di capelli nera. Comprendo immediatamente che si tratta di un feticcio di un mio ex, eppure non mi dispiace, anzi, sorrido, mentre la accarezzo delicatamente con la punta delle dita.
Penso a quanto male mi ha fatto, a quanto tempo e impegno ho sprecato, ma non mi pento di niente, sono incredibilmente serena, mi stupisco di quanto io lo sia.
La ripongo con cura, mettendola da parte, e quello che trovo dopo è un pacco di adesivi di Naruto: mi torna la voglia di usarli, ma non saprei neanche come. Ricordo, però, quando me li hanno regalati: ero a Gubbio, alla festa dei Ceri, la mia amica era ubriaca, e si è avvicinato il vucumprà di turno che, inspiegabilmente, vendeva quegli adesivi, li ho desiderati tanto e… C’era il mio ex, quello che ho visto pochissimo, ma che mi capiva meglio di chiunque altro, è vero, c’era anche lui, e me li ha comprati.
Non li ho mai usati, li ho posati nel cassetto, in una busta per lettere grossa e rossa, che contiene anche tanti altri fogli, con frasi di canzoni, pensieri, e vere e proprie lettere di persone che avevo dimenticato, e poi mi ricordo che invece non trovo più lettere di persone a cui penso sempre.
“La malinconia ha le onde come il mare…” inizio a leggere un testo e stavolta una stretta al cuore mi culla per qualche istante, ma dura pochissimo: anche quella è una storia passata, in cui ho dato ogni parte di me, ma non è servito.
Mi rendo conto di non ricordarmi più cosa sto cercando, sto continuando a frugare nel cassetto solo per curiosità, come se quelle cose non fossero le mie, come se stessi cercando qualche oggetto prezioso da trafugare, e in una piccola parte è la verità.
 
Dopo altre immagini e sensazioni apparse nella mia mente, decido di chiudere tutto: rimetto dentro ogni cosa alla rinfusa, quasi infastidita, velocemente, come se farlo spegnesse anche tutti i ricordi.
Mi chiedo perché sono così masochista: non bastano tutte le volte in cui le memorie mi assalgono senza che io possa fare nulla? Quando mi assalgono mentre sono felice, mentre sorrido e all’improvviso una coltre si inabissa nel mio animo, strappandomi di dosso la serenità e rendendomi, ancora una volta, malinconica e distante da ciò che mi circonda? Quando mi assalgono mentre sono stanca, stanchissima e spengo la luce e vorrei solo avere un tasto OFF sulla nuca da premere per spegnermi, mentre devo ancora penare per prendere sonno perché un grosso gatto di mestizia si accovaccia sul mio petto e mi impedisce di assopirmi?
No, non mi bastano, perché so di avere bisogno di lunghi attimi di silenzio, attimi che poi diventano ore senza che io me ne accorga, ne ho bisogno per sentire, per percepire il rumore di fondo della mia anima che si contorce, ogni giorno, nel vissuto, nei mesi che passano senza che io possa fermarli, senza che io possa capire davvero se quello che ho fatto, anche solo pochi istanti prima, è valso a qualcosa, o meno.
E io ho bisogno di pensare, ho bisogno di ricordare da dove vengo, che cosa ho fatto, per sapere dove dirigermi, adesso. E così mi ritrovo con miliardi di ricordi, miliardi di piccole particelle forse inutili, che mai mi ripagheranno per averli conservati, per averli cullati, ma sono tutti qui, dentro la mia testa, e a volte si affollano troppo, all’improvviso, senza che io possa fare niente per gestirli. Per sbaglio, per caso, per un profumo, per una nuvola dalla forma strana, per un soffio di vento che mi sposta i capelli, per una frase su un libro, per una canzone, per un sapore buono, perché loro fanno così e io non posso fermarli.
Allora tanto meglio andare a cercarli: osservarli con ordine sfilare sotto le mie dita, avere la capacità di sorridere e di rigettarli con serenità, senza farmi invadere con veemenza, senza che le mie difese siano abbassate di fronte a loro, ma armata e pronta a ciò che sto facendo.
Ho più ricordi che se avessi mille anni, e mi sento come se avessi decine di divorzi alle spalle e non so quanti figli a mio carico che, per quanto affetto gli doni, per quanto lavori per poterli mantenere, non basta mai e gravano, gravano su di me, ma io li amo con tutta me stessa perché sono parte di me, perché ogni infinitesima parte del mio essere tende verso di loro, tende verso la malinconia e a me, in fondo, va bene così: io sono nata per vivere in un tempo che non è il presente e non può essere il futuro; sono nata per vivere nelle memorie spente, perdute, persino in memorie non mie, persino in un libro di Goethe con appunti di chissà chi di quasi un secolo fa, persino in cartoline spedite e poi finite su un banchino di un antiquario, persino in pezzi di vetro antico soffiato da fiati di veri artigiani.
Avete mai visto un frammento di vetro medievale? Brilla come nessun altro al mondo, non è del tutto trasparente e quando lo muovi tra le dita diventa cangiante, si accende di tutti i colori dell’arcobaleno.
E’ così che sono le memorie: fredde, rotte, interrate, poi basta guardarle con dolcezza e queste si accendono trasportandoti in un mondo che non ti appartiene più, o che forse non ti è mai appartenuto, e resti lì, resti lì sotto perché il tuo tempo adesso è sbagliato, perché tutto corre troppo veloce ora, le persone camminano a testa bassa, il lavoro occupa giorni interi, nessuno si ferma più a guardare cosa porti dentro al cuore e, invece, dentro i ricordi ogni cosa è già avvenuta, ogni cosa è ferma per sempre in quel momento, brutto o bello, immutabile.
Mi assento dalla realtà mentre fuori piove, mentre fuori fa freddo, mentre fuori fa caldo, mentre sono sola, mentre la gente mi parla, mentre viaggio in macchina, in treno, in aereo, mentre giace il silenzio, mentre imperversa la musica, mentre io non ci sono e tutto il resto sì.
A volte sono ossessionata, le immagini mi rincorrono per giorni e io mi sento perduta perché non posso più dormire, perché tutto diventa incubo, perché piango su ciò che non posso più cambiare e perché quello che posso cambiare è lontano dalle mie mani e so che dovrò strisciare ancora a lungo prima di raggiungerlo.
Mi spengo perché restare accesa a volte è troppo doloroso, troppo difficile da spiegare a qualcuno che non viva dentro la mia testa con me: qui dentro non sorge più la luna, né il sole, né le stelle e tutto giace nel buio, oppure tutti gli astri brillano impietosi bruciando ogni cosa, generando rabbia e delusione, e io non posso fermarli, non posso impedirgli sempre di brillare, perché a volte le cose devono accadere e basta, perché, a volte, non riesco più ad essere così forte.
Qui dentro ci sono luoghi che non esistono più, visi che sono svaniti, voci che echeggiano come fantasmi, profumi che mi sconvolgono e tocchi invisibili.
 
Non voglio dimenticare.
A volte mi sforzo di ricordare tutte le stanze in cui ho dormito, tutte le parole che ho ascoltato, tutti i differenti tipi di calore che ho trovato in un abbraccio, e non ci riesco, e mi sento perduta.
Dove vivranno loro, se non qui dentro, visto che non ci sono più là fuori?
E allora mi chiedo, guardando i volti che mi circondano, scrutandoli negli occhi per carpire se nascondono lo stesso mio segreto, mi chiedo: come fanno loro a dimenticare? A lasciare andare tutto, a decidere che tutto scorra? Perché qui non scorre niente, qui è un cimitero, buio, freddo, dimenticato da tutti, ma ci sono io, ci sono io ad accudire ogni tomba, a mettere i fiori freschi, a recitare una preghiera, a scacciare i rimorsi e i rimpianti di ogni morto.
Qui ci sono io, ma là fuori chi c’è per me?
Chi c’è che possa comprendere la voglia di non dimenticare, di conservare, di rendere prezioso ogni momento trascorso, ogni emozione sincera, ogni battito di cuore?
Chi c’è?
 
Chi c’è?
 
 
Chi c’è?
 
 
 
Riapro il cassetto.








"Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Un grosso cassettone pieno di bigliettini,
di bilanci, di versi, di processi e ballate
con ciocche di capelli avvolti in ricevute
cela meno segreti del mio triste cervello.
E’ come una piramide, un immenso avello
che contiene più morti della fossa comune.
-Io sono un cimitero aborrito dalle lune,
dove strisciano vermi, lunghi come rimorsi,
e s’accaniscon sempre sui miei più cari morti.
Sono un vecchio salotto pien di rose sfiorite,
di un’intera accozzaglia di mode ormai finite,
dove i mesti pastelli e i Boucher di pallore
di una fiala aperta respirano, soli, l’odore.
Nulla eguaglia le lunghe zoppicanti giornate
sotto le falde grevi delle nevose annate
quando la noia, frutto di tetra insensibilità,
acquista le proporzioni dell’immortalità.
-Ormai tu non sei più, o materia vivente!
-Che un granito recinto di un vago spavento
assopito nel fondo di un Sahara imbrumato,
una sfinge ignorata dal mondo spensierato,
in oblio sulle mappe e il cui umore furente
canta soltanto ai raggi di un sole morente."
 
C. Baudelaire


martedì 10 dicembre 2013

Pronuncio il tuo nome


a Quattro-sillabe-nel-vento



La notte è tornata. Mi è sempre appartenuta, ma quasi me ne ero dimenticato. Inizia a far freddo, il vento soffia forte, i rami sono lì spogli e immobili, le foglie danzano e in questa notte oscura continuo a pronunciare quel nome. Quattro sillabe, come quattro note suonate in notti oscure. Il vento riesce a sfruttarle a trascinarle nel suo turbine e non si sa se quelle quattro sillabe sono vanamente pronunciate.  Posso soltanto vedere una stella, solitaria e lontanissima, piccolo punto di luce. Sembra volermi comunicare qualcosa, ma io non riesco a capire la sua lingua, una solida grammatica basata su fotoni. Non riesco a comprendere altro che quelle quattro sillabe. Pronuncio il tuo nome. Oggi mi dovrebbe risultare lontano, incomprensibile, molto di più dei fotoni di quella stella, più lontano di tutte le stelle e invece il vento non fa altro che farlo scivolare dentro di me.
Piove. Mite pioggia che rinfresca l’aria, che assorbe tutto il lerciume che la mia specie è capace di produrre e ce lo restituisce attraverso il cibo che la Madre Terra ci regala. La breve sinfonia che ho provocato inizia a farmi male, mi contorce lo stomaco. Produco acidi che corrodono la carne, l’anima e la vita. I miei denti diventano avvelenati e più aguzzi. Mi chiedo perché non ci sia nessuno ad ascoltare quelle dolenti sillabe. Nessuno, neanche tu. Inizio a sentirmi vuoto di passione e di musica. Un musicista impazzito che con uno strumento accordato e lui stesso capace di dare un'ampia gamma di possibili variazioni, si limita a ripetere all’infinito quell’accordo di quattro note. Un musicista impazzito che rende quell’accordo ripetuto un successo planetario, che si fa amare dalle generazioni future, ma è quell’accordo ripetuto a renderlo così amato o la sua follia? Sono come un artista impasticcato, che non prova nulla nei confronti di una vita così fragile, così piena di superficialità, che seppure ha di fronte a sé un pubblico infinito che va oltre il lento e insopportabile presente, non prova nulla. Il pubblico piange per lui e per il suo accordo di quattro sillabe, lui invece gli volta le spalle. Io sono come lui, volto le spalle e continuo a pronunciare il tuo nome, unica ossessione, unica mia pasticca.

Un orologio. Folle, suona a quest’ora della notte e canta antiche ore defunte. E’ lo scoccare dell’ora, quando gli spiriti del passato ritornano a strangolarti e soffocarti e a dirti che non vai da nessuna parte, che devi soffocare lì, perché è giunta l’ora. Vuoi liberarti e poter urlare, poter andare avanti, ma non puoi perché è bello essere soffocati. Perché l’aria di morte a volte può essere più forte della vita. Anzi, perché in realtà lo è. Così come la superficialità fatta di gomma e di tanto bel moralismo risulta impenetrabile, e la profondità così trasparente come una lastra di vetro, così piena di verità, è fragile. Gli spiriti e le ore defunte sono usciti da quell’orribile orologio impolverato, prima lamentandosi e adesso se la ridono e fanno banchetti nella mia tana mentre  continuo a fissare attraverso la finestra, ad attraversare con lo sguardo un mondo che improvvisamente è immerso nella nebbia. Abbasso il mio sguardo sconfitto e divento sordo, non voglio più ascoltare gli spiriti del passato che banchettano e ridono di me. C’è qualcosa che riesco a fare, immagino il suono di quelle sillabe. Il tuo nome: continuo a pronunciarlo nella mia mente, così posso continuare a vivere anche con la nebbia dietro ad una lastra di vetro trasparente, ma se la nebbia si sciogliesse, quale nuova passione mi aspetterebbe?

La luna. Voglio sfogliarla con le dita, adesso. Andare oltre, vedere oltre, ascoltare oltre, pronunciare oltre il tuo nome. Ti amerò come allora, ne sarò capace? Dimenticherò cos’è davvero l’amore, perché avrò dimenticato cos’è la vita, perché le due cose coincidono, purtroppo, per noi esseri umani. Invece la morte è più facile. Tu lo sai questo, vero? Me l’hai insegnato tu. Ancora quelle quattro sillabe, le voglio urlare adesso, ma le ripeto solo perpetuamente nel mio cervello.

Che colpa ha commesso il mio cuore? Dimmelo, perché quelle quattro sillabe non mi danno più pace. Cercavo solo di vivere, di amare e di guardare attraverso una finestra di vetro, di essere la tua finestra di vetro. Tu eri la mia stella calda che mi passava attraverso, ad ogni ora del giorno. Insieme permettevamo alla vita di continuare, a far sorridere, a dare una speranza. Voglio urlare il tuo nome, voglio cacciarlo via, ma so che ritornerà sempre qui, da solo o con l’aiuto del vento. Potrei lasciarmi andare ad un pianto e far colare via dal mio corpo tante belle convinzioni, adesso che c’è la nebbia posso. Posso affondare i miei denti avvelenati nella mia carne e punirmi, perché gli spiriti non si fanno toccare, sono più potenti di me. Ma non saranno ancora a lungo in questa dimensione, loro appartengono ad un altro mondo, il loro mondo. Non appartengono affatto a questo. Appartengono al mondo della stagnazione. Potrei anche diventare un vuoto impasticcato delle sillabe che compongono il tuo nome, ma continuerò ad urlarle perché quelle hanno vita, perché quelle sono vita. Urlo. Urlo forte il tuo nome, perché forse un giorno non torneranno indietro solo quelle quattro note, ma forse tornerai tu in carne ed ossa. E la nebbia sparirà, forse, un giorno. Il mio corpo sarà dilaniato, la mia anima esisterà ancora? Ne ho mai avuta una? Nessuno lo sa meglio di te. Quindi io continuo a pronunciare il tuo nome, fino al mio delirio. Pronuncio il tuo nome finché non torni a ridare la vita a questo mondo superficiale, perché non voglio credere che tu sia un terribile spirito schierato dalla parte della morte. Non posso credere che tu abbia indossato una maschera con me, che tu serva dell’oscura morte mi abbia colpito nella mia convinzione più grande. La vita. Io lo so, lo so che non è così ed è per questo che continuo a pronunciare il tuo nome e far sanguinare le mie orecchie, a vomitare rosso vivo, e a piangere gocce dell’inchiostro più prezioso del mio corpo. Pronuncio il tuo meraviglioso nome.



*Questo scritto è liberamente ispirato alla poesia "Io pronuncio il tuo nome" ( nell'edizione originale in spagnolo intitolata "Si mis manos pudieran deshojar").*


Io pronuncio il tuo nome
nelle notti oscure,
quando giungono gli astri
a bere nella luna,
e dormono i rami
delle fronde occulte.
Ed io mi sento vuoto
di passione e di musica.
Folle orologio che canta
antiche ore defunte

Io pronuncio il tuo nome
in questa notte oscura,
e il tuo nome mi suona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della mite pioggia.

Ti amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha commesso il mio cuore?
Se la nebbia si scioglie
quale nuova passione mi aspetta?
Sarà tranquilla e pura?
Se potessi sfogliare
con le dita la luna!