A chi è relegato nel mio passato.
E a chi nonostante tutto, per uno scherzo del destino,
ne uscirà per far parte del mio futuro
Una volta la mattina mi svegliavo pieno di forza. Mi
svegliavo con il suo corpo fra le braccia e lo baciavo fino a farla svegliare.
Avevo aperto gli occhi da poco più di un minuto e già volevo fare l’amore, e
anche se all’inizio mi diceva di no avevo sempre la forza di riuscire a
convincerla. Andavamo avanti per ore e alla fine ridevamo e facevamo tutte le
cose che fanno le coppie felici dei film.
Oggi mi sono svegliato e la prima cosa che ho sentito è
stata la debolezza del mio corpo. Non ho avuto bisogno di muovermi e sentire la
resistenza delle coperte per saperlo, lo sentivo nelle ossa. Allora non mi sono
mosso affatto, perché non volevo sentire la mia debolezza. Ho passato ore
immobile in un circolo vizioso di pensieri ma alla fine sono riuscito a spostare
le coperte e barcollare fino al bagno. So bene come è la mia faccia quando sono
felice, perché ho tante foto con amici e ragazze e conosco quella luce nei miei
occhi. Una persona al suo meglio. Oggi, invece, nello specchio c’era un
animale: trasandato, stanco, selvatico, i capelli sporchi e la barba incolta,
gli occhi rossi e le labbra strette in un nodo che serve a trattenere le
lacrime. Quando sei felice ti fai delle foto, quando sei triste hai solo lo
specchio per sapere quanto ti si legge in faccia. Perché da solo puoi vedere i
piedi strascicati, puoi vedere le mani rovinate per gli oggetti spaccati e
presi a pugni, ma non puoi vedere la luce nel fondo dei tuoi occhi. Mi sono
guardato piangere e urlare allo specchio, digrignare i denti e contrarre i muscoli,
e ho capito in quel momento che stavo male perché il mio corpo stanco, debole e
spezzato dal pianto e dal digiuno non poteva gestire tutto il calore generato
dalla mia anima che bruciava con violenza.
Una volta ero in camera da letto con lei, e sapevamo
trasformare qualunque cosa in un gioco. Uno stupido libro, i nostri corpi, le
parole, quella sera delle strisce di pelle e dei fili di lana. Se c’è una cosa
che ho imparato nella vita è che gli innamorati si regalano bracciali. Mi basta
aprire il baule delle ex fidanzate per trovare decine, risalenti a vari periodi
della mia vita. Eppure, c’è un’enorme differenza di significato fra un oggetto
comprato in un negozio e un oggetto fatto a mano, dalle stesse mani che si
cercavano sotto le coperte o che si tenevano per strada. Quella sera, dopo aver
legato l’ultimo filo ed esserci compiaciuti della nostra bravura artigianale,
le ho mostrato il baule delle ex fidanzate. È una sorta di posacenere, come
quello che ho sul tavolo, con l’unica differenza che non lo uso per spegnere
sigarette ma per spegnere ricordi. Ed esattamente come i posacenere, è una
fossa comune sul cui fondo si trova uno strato di tabacco bruciato e ricordi
indistinti, mentre sopra ci sono le sigarette appena spente, o quelle poggiate
con l’intenzione di riprendere a fumarle. Abbiamo aperto il baule e le ho
mostrato i vari oggetti contenuti al suo interno.
Due bracciali di gomma che comprai con una donna che ho
amato follemente e che ora è diventata una delle tante sigarette che imbrattano
il posacenere. Li comprammo in un giorno di pioggia, mentre avanzavamo stretti
sotto un ombrello fra le strade di una cittadina grigia in un paese straniero,
e li ho tenuti al polso finchè non si sono spezzati, mi hanno accompagnato per
anni, mentre il nostro rapporto si evolveva, cresceva, si fermava, si
riprendeva e appassiva, mentre ce ne prendevamo cura come si fa con una pianta,
a volte esagerando, a volte dimenticandolo, e fino al punto in cui si è
trasformato in qualcos’altro. La storia di due ragazzini era diventata quella
di due giovani adulti, i braccialetti di gomma sono stati sostituiti da uno di
cuoio comprato ad una fiera dell’artigianato in un altro paese straniero, che
mi è rimasto al polso finchè non si spaccò in due senza preavviso mentre ero in
un ristorante con una ragazza appena conosciuta. Quando quella storia è finita,
ho posato i tre braccialetti nel baule, assicurandomi di metterli sopra a tutto
il resto. Sentivo che avrei avuto bisogno di tirarli fuori a breve.
Una busta di tabacco vuota. Una turista conosciuta alla
fermata dell’autobus, a cui mi sono offerto di fare da guida. Era finita da
poco con la ragazza che mi regalava braccialetti di gomma, e avevo bisogno di
prendere aria prima di cercare di riportarla fra le mie braccia. Portavo ancora
al polso il bracciale di cuoio mentre accompagnavo la turista in giro, la
portai a mangiare al mio ristorante preferito, e mentre chiacchieravamo mi
accorsi che il bracciale si era rotto. Scelsi di interpretarlo come un segno e
la invitai a casa mia. Non era una stupida, aveva capito le mie intenzioni, e
sulla via di casa iniziò a fare battute sottili e insinuazioni, alle quali io
rispondevo a tono. Era un gioco divertente, entrammo nel mio appartamento al
secondo piano come due guerrieri in preda al furore della battaglia, ma a quel
punto ci fermammo a guardarci negli occhi. Eravamo due ragazzini, spaventati,
insicuri, sapevamo cosa volevamo fare ma non sapevamo come iniziare. Le offrii
un caffè e la guardai fumare una sigaretta. La busta di tabacco era finita,
allora la lasciò sul tavolo. Qualche ora dopo raccolse i suoi vestiti e se ne
andò. Non l’ho mai più rivista ma ricordo il colore dei sui occhi, il sapore
delle sue labbra e il suono del suo nome. ho buttato la busta nel baule con una
risata, pregustando il momento in cui l’avrei ritrovata anni dopo e mi sarei
ricordato di quel giorno.
Un bracciale fatto a mano, da un’amica della ragazza che mi
regalava braccialetti di gomma. Un’amica che aveva un negozio on-line in cui
vendeva le sue creazioni. Mi fu regalato quando, dopo la mia avventura con la
turista e qualche altro mese di lontananza, la convinsi a riprovarci. Tirai
fuori gli altri bracciali dal posto d’onore che avevo riservato loro sul punto
più alto, perché come avevo previsto, mi sarebbero serviti di nuovo. Quel
bracciale sottile, legato da un filo elastico, mi tenne compagnia in tutto il
secondo atto di quella storia, fino alla fine vera e propria, fino al momento
in cui guardai tutte le mie speranze e desideri per il futuro sgretolarsi come
cenere quando dai un colpo di dita sulla sigaretta che stai fumando. E insieme
a quel bracciale, c’erano tutti gli oggetti del secondo atto, i biglietti di un
treno, le ricevute di un albergo, una sua foto. Quando finì davvero buttai
tutto sul fondo del baule, perché sapevo che non ne avrei mai più avuto
bisogno.
Mentre le raccontavo queste storie, lei si stese con la
testa sulle mie ginocchia e mi sorrise. Riusciva a capire che il mio
attaccamento a quegli oggetti non era un attaccamento alle persone, e le
piaceva sentirmi raccontare quelle storie, perché tutte sarebbero finite nel
momento in cui avevo incontrato lei.
Un paio di mutande. Un’avventura di qualche notte, una donna
disordinata che mi entrava in casa e si gettava fra le mie braccia con
l’irruenza di un ciclone. Era divertente vederla farsi in quattro per
compiacermi, perché era ben lontana dal riuscirci. Apprezzavo i suoi modi di
fare, e pensai che se avessi avuto voglia di far durare quella frequentazione
più a lungo avrei dovuto iniziare a darle lezioni, ma per quello che cercavo mi
andavano bene i suoi sorrisi ammiccanti, le volgarità che mi sussurrava
all’orecchio e il modo docile in cui si piegava ad ogni mio comando. Stavo lì,
steso sul letto, e le ordinavo di spogliarsi, di mostrarsi, di fare qualunque
cosa io volessi, e lei lo faceva. Un giorno che andò via di corsa non riuscì a
trovare le mutande, e le lasciò qui. La volta dopo si rifiutò di riprenderle e
disse che potevo tenerle, pensai che forse aveva preparato tutto e non era poi
così disordinata. Ha dimenticato qui anche un piercing che continuava ad
incastrarsi dovunque, ma non ho potuto più restituirglielo.
Un bracciale di pelle nera, con una cinghia, regalo di una
ragazza con cui stavo prima della maggiore età. Non ricordo più in che
occasione mi è stato regalato, ma è poggiato sul fondo del baule insieme alla
collana che mi aveva regalato lei, un pendente con l’ideogramma giapponese di
“amore”. Eravamo due adolescenti ribelli verso il mondo e teneri fra di noi,
cercavamo in quegli abbracci le risposte a tutte le carenze affettive che le
nostre famiglie non erano capaci di risolvere, festeggiavamo ogni mese con
degli stupidi regalini che conservo ancora. Un portachiavi a forma di rana, un
portachiavi a forma di barretta di cioccolato, una decina dei suoi disegni,
immagini di coppie amoreggianti che somigliavano a noi, il biglietto con cui
accompagnò il regalo del nostro primo anniversario, un pezzo che staccammo
dalla moto di suo padre subito prima che la rottamasse, un pacchetto di
sigarette che fumavo stupidamente per darmi un tono da adolescente
problematico. A lei non piaceva che fumassi, ma un giorno ho scritto il suo
numero di telefono su quel pacchetto di sigarette, perché mi si stava
scaricando il cellulare e chiamarla qualche ora dopo era il mio unico
interesse. Quando quella storia è finita, ho posato tutti gli oggetti nel
baule, assicurandomi di metterli sopra a tutto il resto. Sentivo che avrei
avuto bisogno di tirarli fuori a breve. Quella volta ho sbagliato, e sono
rimasti come i resti di una civiltà, lentamente spinti sempre più in basso da
ciò che si sussegue sopra di loro, dopo di loro. E ora sono diventati la cenere
che ricopre il fondo di quel baule.
Oggi, mentre mi obbligo a muovermi da una stanza all’altra
solo per ricordarmi di essere ancora vivo, mentre trascino i piedi come se
fossero due corpi morti, ricordo due figure che si inseguono per vie buie sotto
le stelle, cercando riparo dai fari delle automobili per dare sfogo alla
passione. Ricordo le passeggiate mentre la accompagnavo a casa, ricordo ogni
parola di quelle notti, ogni bacio, ogni respiro, come se fosse ieri. Ricordo
l'inquietudine che provavo all'idea di lasciarla entrare nella mia vita e il
sollievo che ho provato ogni giorno in cui l'ho lasciata avvicinare sempre un
po’ di più. Era bello. Sento il mio corpo crollare, sento il pavimento sotto le
ginocchia, poi contro una spalla. Chiudo gli occhi.
Un quadrifoglio. Un modo molto strano di scusarsi da parte
di una ragazza che si era innamorata di me, ma che non trovava il coraggio di
concedersi. Aveva dei lunghi capelli biondi e amava ballare. Aveva dei profondi
occhi azzurri e nonostante fosse abbastanza più grande di me mi faceva venire
voglia di proteggerla. Una storiella di poco valore che all’epoca mi stravolse
abbastanza da iniziare ad interrogarmi sui miei sentimenti per lei, quando era
chiaro che non esisteva nulla del genere. Avevo frainteso un po’ di
divertimento. E anche lei, molto più di me. Un paio di biglie di vetro, che
abbiamo vinto ad una serata in un locale dove eravamo andati a bere, senza
sapere della serata giochi che avevano organizzato. Ci siamo ritrovati nella
confusione e abbiamo deciso di giocare, nonostante non ci fossimo visti per
mesi. avevamo tanto da raccontarci ma non siamo riusciti a farlo, e poi ci
siamo persi di vista. Mi sono rimaste un paio di biglie e un quadrifoglio, ma
forse avrei preferito una spiegazione.
Un altro paio di mutande. Una serie di assegni con promesse
al posto delle cifre. Una collana con un simbolo mistico, la ricevuta di un
parco divertimenti, una foto di due ragazzini che si baciano, un bracciale di
velcro arrotolato su se stesso, delle pagine strappate di un blocco da disegno,
piccoli oggetti, granelli di cenere, che insieme raccontano tante storie
intrecciate fra di loro, intrecciate con la mia. Lei mi guardò dal basso verso
l’alto e fece una battuta. Non ricordo cosa mi disse, ma so che la guardai
sorridere e in quel momento capii che era la cosa più bella che mi fosse
capitata nella vita.
Ora io sono rimasto da solo con il compito di far funzionare
la vita senza di lei. E stasera, con la solennità di un funerale, apro il baule
e poggio al suo interno il bracciale che abbiamo intrecciato insieme, con le
stesse mani che scivolavano fra i vestiti e la pelle, con le stesse mani che
improvvisavano pranzi in campeggio. Lo poggio fra le mutande di sconosciute,
fra le avventure di una notte, fra i ricordi di persone che oggi disprezzo, e
lo trovo paradossale, ironico, tragicomico, insensato. Non importa quanto una
persona possa importare, una volta che esce dalla tua vita diventa parte di
quell’entità astratta che si chiama passato, esperienze, ricordi. Diventa
cenere in una fossa comune.
Quel bracciale lo poggio con cura, assicurandomi di metterlo
sopra a tutto il resto. Sento che avrò bisogno di tirarlo fuori a breve.