Il Randagio aveva fiutato, dall’odore che si era diffuso
nell’aria, che sarebbe venuto un temporale. Aveva un istinto come pochi: apparteneva
a quel genere di persone che sembrano domare gli imprevedibili elementi della
natura. Il Randagio era un detenuto né troppo sopra le righe né troppo schivo e
solitario, quasi si stentava a credere che fosse andato dentro per omicidio
intenzionale ai danni del suo socio. Quando gli altri detenuti gli chiedevano
il perché, lui alzava le spalle, spalancava gli occhi e avvicinava un dito al
naso tastandolo delicatamente per poi con tutta tranquillità dire: « Mi voleva
fregare e io l’ho fiutato.» Diceva che a lui non lo si doveva fregare e che non
era affatto pentito di quello che aveva compiuto. Era in fondo una persona
tranquilla, gli piaceva la letteratura, scherzava volentieri con tutti, ma era
proprio per questo che era trattato con rispetto. Nessuno osava sfidarlo,
perché da quell’uomo tranquillo poteva esplodere una violenza sovraumana.
La sua amichevole tranquillità fu disturbata dall’arrivo di
un nuovo compagno di cella, che fu ribattezzato Il Muto. In prigione si ha molta
fantasia, si danno nomi che debbano riassumere la personalità dell’individuo in
questione, nomi parlanti, un po’ come nel teatro greco e latino. Non per farne
dell’ironia, ma il Muto necessitava almeno di un nome che comunicasse qualcosa,
poiché lui non lo faceva per niente. Si pensò che fosse muto seriamente, tanto
che i detenuti si sentirono in colpa del nomignolo che gli avevano affibbiato
prematuramente. In realtà la lingua gli funzionava bene, e lo dimostravano i suoi discorsi e lamenti
notturni articolati nel sonno, che il Randagio ascoltava perplesso ma tranquillo.
Le domande che gli venivano fatte non trovavano risposta, ma il Randagio
manteneva la sua calma, la sua amichevole tranquillità. Non riceveva risposta?
Non se ne preoccupava, prima o poi il Muto avrebbe risposto. Tutti temevano che
il Randagio potesse perdere la pazienza da un giorno ad un altro e uccidere a
mani nude il Muto, e seppure quest’ultimo fosse antipatico a tutti, nessuno lo
voleva morto. Era poco più di un ragazzo: bello, ma duro nei lineamenti e
presuntuoso, ma rassegnato negli atteggiamenti. Nello sguardo dava ad intendere
che già sapeva perfettamente come girasse il mondo, nonostante la sua giovane
età.
Il giorno che il Randagio fiutò l’odore di pioggia, verso
sera, quando gli ultimi raggi morivano dietro gli edifici all’orizzonte, il
temporale, di quelli freschi estivi, che si aspetta con ansia e che quando
arriva lo si detesta, arrivò. Ma in un carcere un temporale non è un evento
negativo. Si è costretti a restare dentro, non vi è motivo per cui si debba
uscire fuori e bagnarsi completamente, anzi si desidera quasi poterlo fare.
Sarebbe un modo per sentirsi uguali a
tutti gli altri esseri umani, non più soltanto bestie dietro le sbarre. Questo
pensava il Randagio in quel momento, così gli si costruì in viso lentamente un
sorriso placido, allungò la mano oltre le sbarre e sentì getti diffusi d’acqua fresca che si posavano
sulla mano. Gli sembrava quasi di poter sentire la libertà. Distratto da un
rumore che aveva causato il Muto alzandosi dal letto, si voltò e gli disse: «Prova
anche tu, ti senti libero, anche se per poco.» Il Muto lo fissava silente,
perplesso. Il Randagio sbuffò delicatamente quindi continuò leggermente
infastidito, cambiando argomento: «Lo so che non sei muto sul serio, mi fai
passare notti insonni, bastardo.» Dopo quasi un mese era giunta la goccia che stava facendo traboccare il vaso, quindi perse la calma e diede un pugno contro lo schienale
della sedia. Il Muto si voltò dandogli le spalle e facendo spallucce. «Insomma ora basta, mi stai
facendo perdere la pazienza, non ti chiedo molto, giusto due parole … la tua
storia!», gridò il Randagio alzandosi. Il Muto si bloccò, si voltò in modo da poterlo
guardare in faccia e si morse il labbro notando che il Randagio stava davvero
andando su di giri. Proferì quindi parola: «Vuoi sapere la mia storia?» Il
Randagio sorpreso di quest’avvenimento miracoloso – era quasi un mese che quel
tizio era lì e mai aveva parlato consciamente – lo guardò lieto e annuendo,
gli fece segno molto educatamente di sedersi vicino alla finestra. «Siediti lì,
goditi il temporale ... su racconta, perché ti hanno arrestato, che hai fatto?»
Da quel momento, il Muto iniziò a raccontare l’evento che
l’aveva portato dietro alle sbarre, come
fosse un fiume in piena di parole. Il Randagio lo ascoltò silente per tutto il
tempo.
«Ho sempre creduto che “dentro” ci andassero i criminali,
quelli che appartenevano ad un certo ambiente socio-culturale, o meglio
socio-non-culturale. I malati di mente non li ho mai considerati dei veri e propri
criminali, pensavo che, beh … non erano incapaci di intendere e di volere. Chi va in prigione? Beh … pensavo, quelli che
rubano, quelli che uccidono per soldi, quelli che uccidono perché non ci vedono
più dalla rabbia ritrovandosi cornificati, i pedofili, i truffatori, i mafiosi,
quelli che vendono la droga. Io ero un semplice studente, niente di tutto ciò.
La mia famiglia è apposto. Sì certo, hanno i loro problemi economici, come
tutti in questo periodo di crisi, ma … voglio dire, sono persone che si sono sempre guadagnate il
pane legalmente, studiando prima e lavorando poi. Io studiavo architettura. Mi
incuriosiva l’idea di modellare gli ambienti e gli spazi vivibili dall’essere
umano, infondendo un pensiero, un concetto. Mi esaltava la possibilità di poter
edificare abitazioni e non solo, che potessero essere permeabili con la natura:
una nuova idea di casa, che andasse oltre quella di riparo. Paradossale è il
fatto che uno dei due motivi per cui mi trovo rinchiuso fu proprio la necessità
invece di un posto chiuso, lontano dagli occhi pubblici. Un posto intimo. Be’
ora ce l’ho per vent’anni un fottuto posto intimo e chiuso in cui stare.
Come tutti gli adolescenti maschi ero sfigato con le ragazze fino a diciassette anni. Poi tutto cambiò: un po’ di barba, dei tratti più decisi, una muscolatura più tonica e infine una buona dose di autostima. Da allora in poi assaggiai ragazze di tutti i tipi: culi-alti a mandolino, belle tette, maniglie dell’amore, vicine all’anoressia, depilate, foreste amazzoniche e morbidi pratini inglesi; gambe lisce come l’asfalto fonoassorbente di un’autostrada, gambe toniche, gambe flosce; occhi neri e profondi, occhi verdi da incanto; more e bionde, timide e personalità dilaganti, dominatrici e schiave, depresse croniche e sognatrici, cattoliche che per conservare la verginità ti rimbecilliscono di sesso orale e ninfomani slabbrate per quanta ginnastica dovevano aver fatto in passato, scimmie urlatrici di contro a pudiche che lo facevano al buio a missionario e mugolando. Per un periodo mi innamorai di una, poi finì. Quindi ricominciai con rosse, castane, lisce e ricce, mani curate e mani smangiucchiate di ansiogene; poi ancora schizofreniche, infermiere e dottoresse, professoresse e assistenti, insensibili e bipolari con le quali a letto quasi ti sembrava di fare una ménage à trois. Tutti i problemi perdevano peso con la vita leggera che avevo intrapreso, anche perché le donne erano il centro di tutto. Oltre allo studio mi dedicavo completamente alle donne, era la mia passione: ognuna di loro mi completava per un motivo. Mi sentivo come un fervente appassionato d’arte: studiavo nel dettaglio ogni corpo e ogni carattere, le loro storie e non mi fermavo davanti all’apparenza. La chiave era penetrare la loro menti e nel frattempo godere di ogni nota delle loro voci, degustare ogni sapore come fossero mille frutti tropicali e l’odore! Oh, ogni odore lo racchiudo ancora ben conservato qui, nel mio cervello. Ognuna con il proprio, personale e intenso odore per identificare la loro individualità ancora meglio dei loro nomi. Il problema è che la mia passione andava oltre ogni concezione etica o religiosa convenzionale e nel giro di un annetto mi ritrovai con una sorta di maledizione. Tutte le donne con le quali andavo a letto o con le quali intraprendevo relazioni, erano impegnate con altri uomini in relazioni stabili. Ero quello che molto romanticamente viene definito “l’amante”, o più ipocritamente “immorale sfascia-famiglie”, anche se non credo di aver mai rovinato alcuna famiglia, né insidiato alcun fidanzamento. Il mio era un ruolo chiave nelle relazioni di coppia, perché mettevo il dubbio e dimostravo quanto la loro convenzionale idea di amore avesse basi piuttosto fragili. Mi sembrava assurdo che mi capitassero solo donne impegnate, era come se avessi un’aura che emanasse una particolare influenza energetica, che faceva presa solo su di loro. Ad un certo punto mi convinsi che fosse il mio ruolo nella società.
L’odore di Dalila era fresco e intenso come quello di un prato di fiori primaverile, sembrava voler raccontare la sua storia, molto più delle cicatrici che ognuno colleziona dall’infanzia fino alla morte e ancora di più di mille racconti. Divenni suo amante per gioco, perché era una persona radiosa con una vena oscura che rendeva i suoi sguardi, il suo profumo e i suoi atteggiamenti contrastanti, indefinibili. Sapevo benissimo che lei stesse con un altro, ma non me ne preoccupai minimamente, non era la prima volta che mi capitava una situazione del genere. Iniziammo ad essere eccessivamente affamati l’uno dell’altra, tanto da fare sesso in qualunque luogo pubblico ci capitasse e a qualunque ora del giorno, anche perché nessuno dei due aveva una casa propria: entrambi vivevamo ancora in famiglia. Un giorno, il guardiano di un parco pubblico ci scoprì e stava per denunciarci alle autorità, ma riuscimmo a scappare. Volevo un maledettissimo letto. Per quanto fosse irresistibilmente passionale lasciarsi andare in qualunque angolo, senza curarsi del pudore, era tutto più limitato. Io la volevo nell’intimo di una casa.
Una sera ero ad un bar a bere una birra con degli amici e raccontai più nel dettaglio la mia situazione con Dalila e le nostre avventure, infine mostrai loro una foto sul cellulare che la immortalava in un gesto spontaneo, mentre si legava i capelli . Uno di loro, Christian, si zittì per un po’ e non osò fare commenti, cosa che mi lasciò, anche se per un breve frangente, leggermente perplesso. Dopo aver pagato uscimmo dal locale e tra un aneddoto e l’altro ci accendemmo una sigaretta. Christian mi guardò, mi prese da parte e sorridendo mi disse che se avessi voluto mi avrebbe prestato la casa, poiché il week-end successivo sarebbe partito. Io gli dissi di non scherzare, ma lui controbatté che non stava affatto scherzando e che per un amico avrebbe fatto questo ed altro. Non sapevo come ringraziarlo, ma allo stesso tempo ero felice come un bimbo la notte di Natale. Mi si stava offrendo una casa tutta per me, per un’intera giornata, dove io e Dalila avremmo potuto continuare a soddisfare le nostre voglie per ore, anche dopo il tramonto, fino ad addormentarci ebbri di passione.
Incontrai Christian il venerdì sera, poco prima che partisse. Mi diede il mazzo di chiavi, facendomi qualche raccomandazione, considerando che la casa comunque non era sua, ma dei suoi genitori. Dissi a Dalila di inventarsi qualche scusa per il sabato perché avremmo dormito insieme, avevo trovato un posto. Lei fu per un attimo sorpresa e quasi esitò, ma poi si lasciò coinvolgere dalla prospettiva e dal fatto che il suo ragazzo le aveva detto che sarebbe stato impegnato per lavoro quella sera.
Come tutti gli adolescenti maschi ero sfigato con le ragazze fino a diciassette anni. Poi tutto cambiò: un po’ di barba, dei tratti più decisi, una muscolatura più tonica e infine una buona dose di autostima. Da allora in poi assaggiai ragazze di tutti i tipi: culi-alti a mandolino, belle tette, maniglie dell’amore, vicine all’anoressia, depilate, foreste amazzoniche e morbidi pratini inglesi; gambe lisce come l’asfalto fonoassorbente di un’autostrada, gambe toniche, gambe flosce; occhi neri e profondi, occhi verdi da incanto; more e bionde, timide e personalità dilaganti, dominatrici e schiave, depresse croniche e sognatrici, cattoliche che per conservare la verginità ti rimbecilliscono di sesso orale e ninfomani slabbrate per quanta ginnastica dovevano aver fatto in passato, scimmie urlatrici di contro a pudiche che lo facevano al buio a missionario e mugolando. Per un periodo mi innamorai di una, poi finì. Quindi ricominciai con rosse, castane, lisce e ricce, mani curate e mani smangiucchiate di ansiogene; poi ancora schizofreniche, infermiere e dottoresse, professoresse e assistenti, insensibili e bipolari con le quali a letto quasi ti sembrava di fare una ménage à trois. Tutti i problemi perdevano peso con la vita leggera che avevo intrapreso, anche perché le donne erano il centro di tutto. Oltre allo studio mi dedicavo completamente alle donne, era la mia passione: ognuna di loro mi completava per un motivo. Mi sentivo come un fervente appassionato d’arte: studiavo nel dettaglio ogni corpo e ogni carattere, le loro storie e non mi fermavo davanti all’apparenza. La chiave era penetrare la loro menti e nel frattempo godere di ogni nota delle loro voci, degustare ogni sapore come fossero mille frutti tropicali e l’odore! Oh, ogni odore lo racchiudo ancora ben conservato qui, nel mio cervello. Ognuna con il proprio, personale e intenso odore per identificare la loro individualità ancora meglio dei loro nomi. Il problema è che la mia passione andava oltre ogni concezione etica o religiosa convenzionale e nel giro di un annetto mi ritrovai con una sorta di maledizione. Tutte le donne con le quali andavo a letto o con le quali intraprendevo relazioni, erano impegnate con altri uomini in relazioni stabili. Ero quello che molto romanticamente viene definito “l’amante”, o più ipocritamente “immorale sfascia-famiglie”, anche se non credo di aver mai rovinato alcuna famiglia, né insidiato alcun fidanzamento. Il mio era un ruolo chiave nelle relazioni di coppia, perché mettevo il dubbio e dimostravo quanto la loro convenzionale idea di amore avesse basi piuttosto fragili. Mi sembrava assurdo che mi capitassero solo donne impegnate, era come se avessi un’aura che emanasse una particolare influenza energetica, che faceva presa solo su di loro. Ad un certo punto mi convinsi che fosse il mio ruolo nella società.
L’odore di Dalila era fresco e intenso come quello di un prato di fiori primaverile, sembrava voler raccontare la sua storia, molto più delle cicatrici che ognuno colleziona dall’infanzia fino alla morte e ancora di più di mille racconti. Divenni suo amante per gioco, perché era una persona radiosa con una vena oscura che rendeva i suoi sguardi, il suo profumo e i suoi atteggiamenti contrastanti, indefinibili. Sapevo benissimo che lei stesse con un altro, ma non me ne preoccupai minimamente, non era la prima volta che mi capitava una situazione del genere. Iniziammo ad essere eccessivamente affamati l’uno dell’altra, tanto da fare sesso in qualunque luogo pubblico ci capitasse e a qualunque ora del giorno, anche perché nessuno dei due aveva una casa propria: entrambi vivevamo ancora in famiglia. Un giorno, il guardiano di un parco pubblico ci scoprì e stava per denunciarci alle autorità, ma riuscimmo a scappare. Volevo un maledettissimo letto. Per quanto fosse irresistibilmente passionale lasciarsi andare in qualunque angolo, senza curarsi del pudore, era tutto più limitato. Io la volevo nell’intimo di una casa.
Una sera ero ad un bar a bere una birra con degli amici e raccontai più nel dettaglio la mia situazione con Dalila e le nostre avventure, infine mostrai loro una foto sul cellulare che la immortalava in un gesto spontaneo, mentre si legava i capelli . Uno di loro, Christian, si zittì per un po’ e non osò fare commenti, cosa che mi lasciò, anche se per un breve frangente, leggermente perplesso. Dopo aver pagato uscimmo dal locale e tra un aneddoto e l’altro ci accendemmo una sigaretta. Christian mi guardò, mi prese da parte e sorridendo mi disse che se avessi voluto mi avrebbe prestato la casa, poiché il week-end successivo sarebbe partito. Io gli dissi di non scherzare, ma lui controbatté che non stava affatto scherzando e che per un amico avrebbe fatto questo ed altro. Non sapevo come ringraziarlo, ma allo stesso tempo ero felice come un bimbo la notte di Natale. Mi si stava offrendo una casa tutta per me, per un’intera giornata, dove io e Dalila avremmo potuto continuare a soddisfare le nostre voglie per ore, anche dopo il tramonto, fino ad addormentarci ebbri di passione.
Incontrai Christian il venerdì sera, poco prima che partisse. Mi diede il mazzo di chiavi, facendomi qualche raccomandazione, considerando che la casa comunque non era sua, ma dei suoi genitori. Dissi a Dalila di inventarsi qualche scusa per il sabato perché avremmo dormito insieme, avevo trovato un posto. Lei fu per un attimo sorpresa e quasi esitò, ma poi si lasciò coinvolgere dalla prospettiva e dal fatto che il suo ragazzo le aveva detto che sarebbe stato impegnato per lavoro quella sera.
Sabato sera alle ventuno e sette minuti scattò la serratura
della casa di Christian. Entrai con Dalila cercando di non fare rumore, come se
ci fosse qualcuno in casa. Il buio, il silenzio e un odore stantio ci invase
appena entrammo. Ci guardammo attorno studiando la mobilia e la disposizione
delle stanze, quindi andai ad aprire delicatamente una finestra. Dalila bevve,
poi si chiese dove fosse il bagno, lo trovammo e lei accese la luce. Mi allontanai
per lasciarla andare in bagno, ma lei non chiuse la porta, non entrò. Venne da
me e iniziò a baciarmi. Pochi minuti dopo eravamo ad ansimare e a cibarci l’uno
dell’altra sul letto di Christian, poi ci spostammo sul divano del salotto, poi
su una sedia, poi in bagno, poi in cucina, quindi si ricominciava il giro. Era
fantastica.
Quando baci una donna ti rendi subito conto se c’è dell’alchimia; se ci vai a letto, anche in contesti scomodi, entri in un’altra fase, entri dentro di lei; ma è il momento in cui entrambi potete dar sfogo a tutte le libertà, che ti rendi conto se c’è chimica tra di voi. E’ quando vedi una donna completamente nuda che ti rendi conto quanto possa essere bella, perché in quel momento puoi spogliarla non solo materialmente, ma anche spiritualmente di tutte le maschere convenzionali che ha dovuto indossare. E’ in quel momento che conosci la vera donna.
Faceva caldissimo, perciò le pause ci servirono per bere litri d’acqua e prendere boccate d’ossigeno. Dopo tre ore, le forze ci avevano abbandonati uno tra le braccia dell’altra. Personalmente avevo le gambe a pezzi e l’interno coscia che mi bruciava come se avessi fatto la maratona di New York. Lei era lì che giaceva con gli occhi chiusi, con un lenzuolo attorcigliato tra le sue gambe, in una posizione rilassata che però risaltava le sue forme. La casa era immersa nel silenzio, disturbato ogni tanto, con poca costanza, da un’automobile che passava lì vicino. Finalmente l’avevo avuta come volevo, ero entrato nella sua parte più intima e l’avevo contagiata come un virus, lo si leggeva nell’espressione dei suoi occhi chiusi. Ad un certo punto iniziai a far caso ad uno sgocciolare lontano, ritmico, ma poco frequente e iniziai a studiarlo attentamente: era probabilmente il rubinetto della cucina che perdeva. Fino ad allora non ci avevo fatto caso, anche perché era quasi impercettibile, ma da quel momento divenne sempre più intenso, come se il rubinetto fosse lì, al fianco di Dalila. Una brutta sensazione di persecuzione mi prese all’improvviso. Volevo che finisse subito, ma avevo paura di alzarmi e andare a controllare il rubinetto, non so perché. Dalila aprì con fatica gli occhi che cercavano di riposare, mi notò agitato quindi mi abbracciò e mi baciò, sorridendomi poi. Mi tranquillizzò e dopo che io ebbi messo un po’ d’ordine nella mia testa, il flusso degli ultimi superficiali pensieri della giornata mi cullò, rendendomi prigioniero del sonno.
Un urlo. Ecco cosa sentii, mentre dormivo, un urlo soffocato seguito da un tonfo. Spalancai gli occhi mentre ero disteso nel letto di Christian. Mi si raggelò il sangue e il cuore iniziò a battere come un tamburo tribale. Nonostante cercassi di mettere a fuoco i contorni della stanza, era tutto poco definito per il buio che regnava interrotto soltanto da una fioca luce proveniente dalla cucina. L’orologio digitale mi diceva zerodue duepunti diciotto. Sentii dei passi, movimenti nervosi. C’era qualcuno in casa. Controllai al mio fianco e notai che Dalila non c’era più, quindi stavo per chiamarla, ma qualunque suono mi si soffocò in gola appena sentii delle imprecazioni di una voce maschile. Non era Dalila, era entrato qualcuno. Feci un sospiro profondo, quindi mi alzai strisciando e senza fare un minimo rumore. L’uomo continuava ad imprecare chiedendosi perché mai lei fosse lì. Presi lentamente una katana che era appesa per esposizione proprio sopra la mia testa. Chi era quell’uomo? Era la domanda che mi assillava in quel momento. Non era assolutamente Christian. Era un ladro? Spiai attraverso uno spiraglio della porta e stringendo la katana nella mano destra ancora chiusa nel fodero, mi accorsi di un uomo in ginocchio che cercava di soccorrere Dalila a terra in cucina. Mi dava le spalle quindi non ci pensai due volte e lentamente mi avvicinai, cacciando fuori la katana. Lui mi sentì e si girò: piangeva. Gli dissi di stare fermo, ma paonazzo in faccia si alzò e mi disse che gli facevo schifo. Io, sorpreso, gli ripetei di stare indietro. L’uomo tirò all’indietro l’iride degli occhi, mostrando solo la parte bianca, la sclera. Era rossissimo in faccia, quindi iniziò a urlare gutturalmente, dicendomi che mi avrebbe ucciso. Mi saltò addosso, facendomi cadere la katana, quindi provò a strangolarmi, ma gli diedi un calcio nei coglioni. Urlò ancora più disumanamente, quindi mi morse sulla spalla. Urlai di dolore io, e a quel punto non ci vidi più. Gli diedi un cazzotto , poi un altro e un altro ancora. Non so come mi rispose con una testata imprevista. Nell’andare all’indietro gli mollai un altro cazzotto sotto il mento che gli fece rimbalzare la testa all’indietro direttamente sullo spigolo del tavolino da caffè di vetro. La famiglia di Christian, da quando lui era cresciuto, per mia sfortuna, aveva levato i paraspigoli per i bambini, così il loro tavolino si ritrovò inondato di sangue e con qualche pezzetto di cervello sparso. Proprio quella sera. La sera che dovevo farmi una tranquilla scopata con Dalila.
In quel momento ero stordito, ché la testata era stata forte, quindi non realizzai subito quello che era successo. Rimasi con lo sguardo fisso al soffitto e i pensieri che mi giravano in maniera del tutto sconnessa. Uno spiffero di vento attraversò tutta la cucina fino al salotto e prima di superarmi si attorcigliò attorno al braccio e al collo facendomi venire la pelle d’oca. Ripresi conoscenza lentamente, quindi mi venne in mente Dalila. Dovevo controllare se stava bene, se era svenuta, se bisognava chiamare un’ambulanza. Mi alzai di scatto e la ritrovai ad un metro da me, in piedi, con gli occhi spalancati e il respiro irregolare. Aveva un coltello da cucina in mano. Lo impugnava con la destra e mi sembrava di sentire la pressione che la mano impiegava per tenerlo stretto. Calmati, le dissi, è tutto finito. Lei non mollava il coltello e mi guardava severa. Palpavo il suo odio, la sua rabbia. Lo vedo che è tutto finito,mi disse lei. C’era proprio bisogno di ucciderlo?, iniziò ad urlare. E’ stato un incidente, non avrei voluto, mi ha aggredito, le dissi, ma adesso posa il coltello. Fece una risata isterica che si trasformò in un pianto disperato, ma non pensava minimamente a mollare il coltello. Che significa, tutto questo Dalila? Stai tranquilla, le dissi cercando di avvicinarmi. Un suo movimento brusco mi fece immobilizzare. Il coltello si era spostato in avanti verso di me. Stai fermo, mi fece isterica, Sai chi è quel ragazzo? Non sapevo che rispondere, che domanda fuori luogo era? Scossi il capo perplesso. E’ Dario, continuò lei piangendo . Non collegai subito. Dario chi?, le feci io. Dario mio, il mio ragazzo, mi disse lei. Mi si bloccò il respiro e abbassai il capo. E che ci faceva qui?, le chiesi, mi chiesi, chiesi alla stanza, al mondo. Lei riprese a fissarmi con rabbia e mi disse che ogni tanto si infilava negli appartamenti delle persone che andavano in vacanza e rubava qualche gioiello. Che il caso avesse voluto che capitasse proprio lì? Che il caso avesse voluto che non la riconoscesse subito e la colpisse dietro la testa? Che il caso avesse voluto che io e lei saremmo dovuti essere scoperti?
Dalila si sentiva in colpa e per autodifendersi aveva deciso di scaricarla su di me. L’odio che emanava dai suoi occhi era intenso. Scattò per lanciarsi addosso a me urlando. Le bloccai le braccia per evitare che il coltello mi potesse colpire. Lei non mollava la presa, aveva cacciato una forza sovraumana. La punta del coltello era lì, dinanzi a me. Vicina al collo, vicina all’occhio, alla gola, alla bocca. Provai a disarmarla, ma la sua presa era troppo stabile. Cademmo a terra. Il respiro di lei era irregolare. Iniziò ad urlarmi in faccia e a dirmi che ero un bastardo. Che era colpa mia se Dario, povero innocente, era morto. Iniziammo a rotolare e accidentalmente il coltello le trapassò la gola. Il suo urlo iniziò a soffocare nel sangue. Fiotti fuoriuscirono dal buco provocato dal coltello e dopo un po’ direttamente ai lati della bocca. I suoi occhi si spalancarono ancora di più. Enormi, bellissimi, di ghiaccio e lucidi lasciarono scivolare due lacrime, che si persero nel fiume di sangue. Si lasciò andare, non aveva più la forza di prima. Anche io mi lasciai andare, piangevo. Sentivo avvicinarsi le sirene. Volevo poter fare qualcosa. Passi che salivano su per le scale, molti passi. Piangevo, avevo paura. Il campanello, seguito da urla che dicevano, Aprite! Aprite! Che succede lì dentro?Polizia, aprite! Ormai per Dalila era tardi, se ne era andata. Qualcuno aveva sentito le urla e aveva chiamato la polizia. Piangevo. Mi portarono via.
Mi interrogarono, chiedendomi che ci facevo in quella casa e perché mai c’erano due morti lì. Raccontai la mia versione, ma era evidente che li avessi uccisi io e non avevo testimoni che confermassero la legittima difesa. Dovevo aspettare che Christian venisse e confermasse il tutto. Aspettai. Aspettai tantissimo, ma Christian pareva non arrivare mai. Infine arrivò, ma a quanto pare decise di inventarsi una bella storia: ci fu il processo e la sua testimonianza mi fece raggelare. Raccontò alla giuria che aveva pensato di prestare la casa al suo amico Dario, per tenerla sotto controllo per il week-end, che probabilmente Dario aveva deciso di portarsi la sua ragazza per una notte lì e che io da verme avevo voluto approfittare della sua partenza per derubarlo dei gioielli di famiglia. Mentre raccontava, aveva una faccia totalmente sconvolta, mi sembrò bravissimo a recitare. Come faceva a conoscere Dario, neanche io lo conoscevo. Nonostante io non avessi precedenti penali fui condannato, perché era evidente che avessi ucciso io sia Dalila che Dario. Che fosse stato accidentale era poco importante. Ero io l’intruso in quella casa, ero io quello che era sopravvissuto. La mia testimonianza sembrava davvero poco credibile, cosa che veniva sottolineata dagli sguardi disgustati e schernitori della giuria e del giudice. Mi fece schifo il genere umano, mi feci schifo io, disconobbi l’amore e la passione. Non volevo avere più nessun contatto con nessuno. Avrei voluto soltanto capire cosa diavolo fosse passato per la testa a Christian. Il primo giorno che mi chiusero qui dentro il destino parve accontentarmi, infatti Christian venne a parlare con me. Ero seduto, silente e lo fissavo, ma non gli chiesi niente. Lui era triste, arrabbiato, sembrava stesse continuando a recitare, ma in realtà capii che davvero stava male. Non ci fu bisogno di chiedergli motivazioni, fu lui a parlare per primo. Mi raccontò del suo amore, del suo amore represso, che aveva dovuto nascondere per anni, perché impossibile da realizzare. Mi raccontò della sua gelosia, della sua incontenibile invidia. Mi disse che odiava chi prendeva in giro la persona, l’unica, che avesse mai amato. Quando vide la foto di Dalila sul mio cellulare, la riconobbe subito e decise che avrebbe architettato un piano che avrebbe punito chi non amava realmente, chi non amava come lui. Qualcosa era andata storta, il suo piano era fallito e lui aveva perso per sempre il suo amore impossibile. La colpa, rifletteva lui adesso, non era soltanto mia, ma ero sicuramente quello che ne usciva meglio di tutti e quattro. Dovevo solo scontare gli errori che avevo commesso in un edificio con le finestre sbarrate. Che avrebbero dovuto dire Dalila e Dario? Erano morti, non sarebbero tornati indietro. Lui, Christian, aveva perso per sempre qualunque possibilità di avvicinare la persona che aveva amato segretamente. Aveva chiesto a Dario di entrare in casa sua quella notte per rubare dei gioielli con la scusa di voler fare un dispetto ai genitori, ma in realtà voleva schiaffargli la triste realtà in faccia. Dalila lo tradiva, non lo amava. Lui si che lo amava, seppure l’avesse sempre fatto soltanto segretamente, lui sì che gli sarebbe stato vicino dopo l’orribile scoperta. Dario era l’unica persona che meritasse di esistere nella sua vita, che meritasse il suo amore. Adesso non c’era più. Neanche il cuore di Christian esisteva più. Quando finì la sua storia pianse, si alzò e mi disse addio. Io rimasi in silenzio. Fissavo nel vuoto, coltivavo il vuoto che era dentro di me. Soltanto quello mi era rimasto. Questo è il motivo per cui sono dentro. Perché è quello che mi merito, perché sono stato fortunato, perché il mio ruolo nella società è mettere il dubbio.»
Quando baci una donna ti rendi subito conto se c’è dell’alchimia; se ci vai a letto, anche in contesti scomodi, entri in un’altra fase, entri dentro di lei; ma è il momento in cui entrambi potete dar sfogo a tutte le libertà, che ti rendi conto se c’è chimica tra di voi. E’ quando vedi una donna completamente nuda che ti rendi conto quanto possa essere bella, perché in quel momento puoi spogliarla non solo materialmente, ma anche spiritualmente di tutte le maschere convenzionali che ha dovuto indossare. E’ in quel momento che conosci la vera donna.
Faceva caldissimo, perciò le pause ci servirono per bere litri d’acqua e prendere boccate d’ossigeno. Dopo tre ore, le forze ci avevano abbandonati uno tra le braccia dell’altra. Personalmente avevo le gambe a pezzi e l’interno coscia che mi bruciava come se avessi fatto la maratona di New York. Lei era lì che giaceva con gli occhi chiusi, con un lenzuolo attorcigliato tra le sue gambe, in una posizione rilassata che però risaltava le sue forme. La casa era immersa nel silenzio, disturbato ogni tanto, con poca costanza, da un’automobile che passava lì vicino. Finalmente l’avevo avuta come volevo, ero entrato nella sua parte più intima e l’avevo contagiata come un virus, lo si leggeva nell’espressione dei suoi occhi chiusi. Ad un certo punto iniziai a far caso ad uno sgocciolare lontano, ritmico, ma poco frequente e iniziai a studiarlo attentamente: era probabilmente il rubinetto della cucina che perdeva. Fino ad allora non ci avevo fatto caso, anche perché era quasi impercettibile, ma da quel momento divenne sempre più intenso, come se il rubinetto fosse lì, al fianco di Dalila. Una brutta sensazione di persecuzione mi prese all’improvviso. Volevo che finisse subito, ma avevo paura di alzarmi e andare a controllare il rubinetto, non so perché. Dalila aprì con fatica gli occhi che cercavano di riposare, mi notò agitato quindi mi abbracciò e mi baciò, sorridendomi poi. Mi tranquillizzò e dopo che io ebbi messo un po’ d’ordine nella mia testa, il flusso degli ultimi superficiali pensieri della giornata mi cullò, rendendomi prigioniero del sonno.
Un urlo. Ecco cosa sentii, mentre dormivo, un urlo soffocato seguito da un tonfo. Spalancai gli occhi mentre ero disteso nel letto di Christian. Mi si raggelò il sangue e il cuore iniziò a battere come un tamburo tribale. Nonostante cercassi di mettere a fuoco i contorni della stanza, era tutto poco definito per il buio che regnava interrotto soltanto da una fioca luce proveniente dalla cucina. L’orologio digitale mi diceva zerodue duepunti diciotto. Sentii dei passi, movimenti nervosi. C’era qualcuno in casa. Controllai al mio fianco e notai che Dalila non c’era più, quindi stavo per chiamarla, ma qualunque suono mi si soffocò in gola appena sentii delle imprecazioni di una voce maschile. Non era Dalila, era entrato qualcuno. Feci un sospiro profondo, quindi mi alzai strisciando e senza fare un minimo rumore. L’uomo continuava ad imprecare chiedendosi perché mai lei fosse lì. Presi lentamente una katana che era appesa per esposizione proprio sopra la mia testa. Chi era quell’uomo? Era la domanda che mi assillava in quel momento. Non era assolutamente Christian. Era un ladro? Spiai attraverso uno spiraglio della porta e stringendo la katana nella mano destra ancora chiusa nel fodero, mi accorsi di un uomo in ginocchio che cercava di soccorrere Dalila a terra in cucina. Mi dava le spalle quindi non ci pensai due volte e lentamente mi avvicinai, cacciando fuori la katana. Lui mi sentì e si girò: piangeva. Gli dissi di stare fermo, ma paonazzo in faccia si alzò e mi disse che gli facevo schifo. Io, sorpreso, gli ripetei di stare indietro. L’uomo tirò all’indietro l’iride degli occhi, mostrando solo la parte bianca, la sclera. Era rossissimo in faccia, quindi iniziò a urlare gutturalmente, dicendomi che mi avrebbe ucciso. Mi saltò addosso, facendomi cadere la katana, quindi provò a strangolarmi, ma gli diedi un calcio nei coglioni. Urlò ancora più disumanamente, quindi mi morse sulla spalla. Urlai di dolore io, e a quel punto non ci vidi più. Gli diedi un cazzotto , poi un altro e un altro ancora. Non so come mi rispose con una testata imprevista. Nell’andare all’indietro gli mollai un altro cazzotto sotto il mento che gli fece rimbalzare la testa all’indietro direttamente sullo spigolo del tavolino da caffè di vetro. La famiglia di Christian, da quando lui era cresciuto, per mia sfortuna, aveva levato i paraspigoli per i bambini, così il loro tavolino si ritrovò inondato di sangue e con qualche pezzetto di cervello sparso. Proprio quella sera. La sera che dovevo farmi una tranquilla scopata con Dalila.
In quel momento ero stordito, ché la testata era stata forte, quindi non realizzai subito quello che era successo. Rimasi con lo sguardo fisso al soffitto e i pensieri che mi giravano in maniera del tutto sconnessa. Uno spiffero di vento attraversò tutta la cucina fino al salotto e prima di superarmi si attorcigliò attorno al braccio e al collo facendomi venire la pelle d’oca. Ripresi conoscenza lentamente, quindi mi venne in mente Dalila. Dovevo controllare se stava bene, se era svenuta, se bisognava chiamare un’ambulanza. Mi alzai di scatto e la ritrovai ad un metro da me, in piedi, con gli occhi spalancati e il respiro irregolare. Aveva un coltello da cucina in mano. Lo impugnava con la destra e mi sembrava di sentire la pressione che la mano impiegava per tenerlo stretto. Calmati, le dissi, è tutto finito. Lei non mollava il coltello e mi guardava severa. Palpavo il suo odio, la sua rabbia. Lo vedo che è tutto finito,mi disse lei. C’era proprio bisogno di ucciderlo?, iniziò ad urlare. E’ stato un incidente, non avrei voluto, mi ha aggredito, le dissi, ma adesso posa il coltello. Fece una risata isterica che si trasformò in un pianto disperato, ma non pensava minimamente a mollare il coltello. Che significa, tutto questo Dalila? Stai tranquilla, le dissi cercando di avvicinarmi. Un suo movimento brusco mi fece immobilizzare. Il coltello si era spostato in avanti verso di me. Stai fermo, mi fece isterica, Sai chi è quel ragazzo? Non sapevo che rispondere, che domanda fuori luogo era? Scossi il capo perplesso. E’ Dario, continuò lei piangendo . Non collegai subito. Dario chi?, le feci io. Dario mio, il mio ragazzo, mi disse lei. Mi si bloccò il respiro e abbassai il capo. E che ci faceva qui?, le chiesi, mi chiesi, chiesi alla stanza, al mondo. Lei riprese a fissarmi con rabbia e mi disse che ogni tanto si infilava negli appartamenti delle persone che andavano in vacanza e rubava qualche gioiello. Che il caso avesse voluto che capitasse proprio lì? Che il caso avesse voluto che non la riconoscesse subito e la colpisse dietro la testa? Che il caso avesse voluto che io e lei saremmo dovuti essere scoperti?
Dalila si sentiva in colpa e per autodifendersi aveva deciso di scaricarla su di me. L’odio che emanava dai suoi occhi era intenso. Scattò per lanciarsi addosso a me urlando. Le bloccai le braccia per evitare che il coltello mi potesse colpire. Lei non mollava la presa, aveva cacciato una forza sovraumana. La punta del coltello era lì, dinanzi a me. Vicina al collo, vicina all’occhio, alla gola, alla bocca. Provai a disarmarla, ma la sua presa era troppo stabile. Cademmo a terra. Il respiro di lei era irregolare. Iniziò ad urlarmi in faccia e a dirmi che ero un bastardo. Che era colpa mia se Dario, povero innocente, era morto. Iniziammo a rotolare e accidentalmente il coltello le trapassò la gola. Il suo urlo iniziò a soffocare nel sangue. Fiotti fuoriuscirono dal buco provocato dal coltello e dopo un po’ direttamente ai lati della bocca. I suoi occhi si spalancarono ancora di più. Enormi, bellissimi, di ghiaccio e lucidi lasciarono scivolare due lacrime, che si persero nel fiume di sangue. Si lasciò andare, non aveva più la forza di prima. Anche io mi lasciai andare, piangevo. Sentivo avvicinarsi le sirene. Volevo poter fare qualcosa. Passi che salivano su per le scale, molti passi. Piangevo, avevo paura. Il campanello, seguito da urla che dicevano, Aprite! Aprite! Che succede lì dentro?Polizia, aprite! Ormai per Dalila era tardi, se ne era andata. Qualcuno aveva sentito le urla e aveva chiamato la polizia. Piangevo. Mi portarono via.
Mi interrogarono, chiedendomi che ci facevo in quella casa e perché mai c’erano due morti lì. Raccontai la mia versione, ma era evidente che li avessi uccisi io e non avevo testimoni che confermassero la legittima difesa. Dovevo aspettare che Christian venisse e confermasse il tutto. Aspettai. Aspettai tantissimo, ma Christian pareva non arrivare mai. Infine arrivò, ma a quanto pare decise di inventarsi una bella storia: ci fu il processo e la sua testimonianza mi fece raggelare. Raccontò alla giuria che aveva pensato di prestare la casa al suo amico Dario, per tenerla sotto controllo per il week-end, che probabilmente Dario aveva deciso di portarsi la sua ragazza per una notte lì e che io da verme avevo voluto approfittare della sua partenza per derubarlo dei gioielli di famiglia. Mentre raccontava, aveva una faccia totalmente sconvolta, mi sembrò bravissimo a recitare. Come faceva a conoscere Dario, neanche io lo conoscevo. Nonostante io non avessi precedenti penali fui condannato, perché era evidente che avessi ucciso io sia Dalila che Dario. Che fosse stato accidentale era poco importante. Ero io l’intruso in quella casa, ero io quello che era sopravvissuto. La mia testimonianza sembrava davvero poco credibile, cosa che veniva sottolineata dagli sguardi disgustati e schernitori della giuria e del giudice. Mi fece schifo il genere umano, mi feci schifo io, disconobbi l’amore e la passione. Non volevo avere più nessun contatto con nessuno. Avrei voluto soltanto capire cosa diavolo fosse passato per la testa a Christian. Il primo giorno che mi chiusero qui dentro il destino parve accontentarmi, infatti Christian venne a parlare con me. Ero seduto, silente e lo fissavo, ma non gli chiesi niente. Lui era triste, arrabbiato, sembrava stesse continuando a recitare, ma in realtà capii che davvero stava male. Non ci fu bisogno di chiedergli motivazioni, fu lui a parlare per primo. Mi raccontò del suo amore, del suo amore represso, che aveva dovuto nascondere per anni, perché impossibile da realizzare. Mi raccontò della sua gelosia, della sua incontenibile invidia. Mi disse che odiava chi prendeva in giro la persona, l’unica, che avesse mai amato. Quando vide la foto di Dalila sul mio cellulare, la riconobbe subito e decise che avrebbe architettato un piano che avrebbe punito chi non amava realmente, chi non amava come lui. Qualcosa era andata storta, il suo piano era fallito e lui aveva perso per sempre il suo amore impossibile. La colpa, rifletteva lui adesso, non era soltanto mia, ma ero sicuramente quello che ne usciva meglio di tutti e quattro. Dovevo solo scontare gli errori che avevo commesso in un edificio con le finestre sbarrate. Che avrebbero dovuto dire Dalila e Dario? Erano morti, non sarebbero tornati indietro. Lui, Christian, aveva perso per sempre qualunque possibilità di avvicinare la persona che aveva amato segretamente. Aveva chiesto a Dario di entrare in casa sua quella notte per rubare dei gioielli con la scusa di voler fare un dispetto ai genitori, ma in realtà voleva schiaffargli la triste realtà in faccia. Dalila lo tradiva, non lo amava. Lui si che lo amava, seppure l’avesse sempre fatto soltanto segretamente, lui sì che gli sarebbe stato vicino dopo l’orribile scoperta. Dario era l’unica persona che meritasse di esistere nella sua vita, che meritasse il suo amore. Adesso non c’era più. Neanche il cuore di Christian esisteva più. Quando finì la sua storia pianse, si alzò e mi disse addio. Io rimasi in silenzio. Fissavo nel vuoto, coltivavo il vuoto che era dentro di me. Soltanto quello mi era rimasto. Questo è il motivo per cui sono dentro. Perché è quello che mi merito, perché sono stato fortunato, perché il mio ruolo nella società è mettere il dubbio.»
Il temporale finì proprio in quel momento. Attraverso le
sbarre si percepiva soltanto la notte e qualche luce di lampione giallastra in
lontananza. Il Muto si alzò e si rannicchiò sulla sua brandina di nuovo
silente. Il Randagio avrebbe voluto dire qualcosa, ma non seppe cosa,
quindi si sedette davanti alla finestra sbarrata e contemplò la notte.