Citazioni


lunedì 22 luglio 2013

La casa dell'amico

Il Randagio aveva fiutato, dall’odore che si era diffuso nell’aria, che sarebbe venuto un temporale. Aveva un istinto come pochi: apparteneva a quel genere di persone che sembrano domare gli imprevedibili elementi della natura. Il Randagio era un detenuto né troppo sopra le righe né troppo schivo e solitario, quasi si stentava a credere che fosse andato dentro per omicidio intenzionale ai danni del suo socio. Quando gli altri detenuti gli chiedevano il perché, lui alzava le spalle, spalancava gli occhi e avvicinava un dito al naso tastandolo delicatamente per poi con tutta tranquillità dire: « Mi voleva fregare e io l’ho fiutato.» Diceva che a lui non lo si doveva fregare e che non era affatto pentito di quello che aveva compiuto. Era in fondo una persona tranquilla, gli piaceva la letteratura, scherzava volentieri con tutti, ma era proprio per questo che era trattato con rispetto. Nessuno osava sfidarlo, perché da quell’uomo tranquillo poteva esplodere una violenza sovraumana.
La sua amichevole tranquillità fu disturbata dall’arrivo di un nuovo compagno di cella, che fu ribattezzato Il Muto. In prigione si ha molta fantasia, si danno nomi che debbano riassumere la personalità dell’individuo in questione, nomi parlanti, un po’ come nel teatro greco e latino. Non per farne dell’ironia, ma il Muto necessitava almeno di un nome che comunicasse qualcosa, poiché lui non lo faceva per niente. Si pensò che fosse muto seriamente, tanto che i detenuti si sentirono in colpa del nomignolo che gli avevano affibbiato prematuramente. In realtà la lingua gli funzionava bene,  e lo dimostravano i suoi discorsi e lamenti notturni articolati nel sonno, che il Randagio ascoltava perplesso ma tranquillo. Le domande che gli venivano fatte non trovavano risposta, ma il Randagio manteneva la sua calma, la sua amichevole tranquillità. Non riceveva risposta? Non se ne preoccupava, prima o poi il Muto avrebbe risposto. Tutti temevano che il Randagio potesse perdere la pazienza da un giorno ad un altro e uccidere a mani nude il Muto, e seppure quest’ultimo fosse antipatico a tutti, nessuno lo voleva morto. Era poco più di un ragazzo: bello, ma duro nei lineamenti e presuntuoso, ma rassegnato negli atteggiamenti. Nello sguardo dava ad intendere che già sapeva perfettamente come girasse il mondo, nonostante la sua giovane età.
Il giorno che il Randagio fiutò l’odore di pioggia, verso sera, quando gli ultimi raggi morivano dietro gli edifici all’orizzonte, il temporale, di quelli freschi estivi, che si aspetta con ansia e che quando arriva lo si detesta, arrivò. Ma in un carcere un temporale non è un evento negativo. Si è costretti a restare dentro, non vi è motivo per cui si debba uscire fuori e bagnarsi completamente, anzi si desidera quasi poterlo fare. Sarebbe un modo  per sentirsi uguali a tutti gli altri esseri umani, non più soltanto bestie dietro le sbarre. Questo pensava il Randagio in quel momento, così gli si costruì in viso lentamente un sorriso placido, allungò la mano oltre le sbarre e sentì  getti diffusi d’acqua fresca che si posavano sulla mano. Gli sembrava quasi di poter sentire la libertà. Distratto da un rumore che aveva causato il Muto alzandosi dal letto, si voltò e gli disse: «Prova anche tu, ti senti libero, anche se per poco.» Il Muto lo fissava silente, perplesso. Il Randagio sbuffò delicatamente quindi continuò leggermente infastidito, cambiando argomento: «Lo so che non sei muto sul serio, mi fai passare notti insonni, bastardo.» Dopo quasi un mese era giunta la goccia che stava facendo traboccare il vaso, quindi perse la calma e diede un pugno contro lo schienale della sedia. Il Muto si voltò dandogli le spalle e  facendo spallucce. «Insomma ora basta, mi stai facendo perdere la pazienza, non ti chiedo molto, giusto due parole … la tua storia!», gridò il Randagio alzandosi. Il Muto si bloccò, si voltò in modo da poterlo guardare in faccia e si morse il labbro notando che il Randagio stava davvero andando su di giri. Proferì quindi parola: «Vuoi sapere la mia storia?» Il Randagio sorpreso di quest’avvenimento miracoloso – era quasi un mese che quel tizio era lì e mai aveva parlato consciamente – lo guardò lieto e annuendo, gli fece segno molto educatamente di sedersi vicino alla finestra. «Siediti lì, goditi il temporale ... su racconta, perché ti hanno arrestato, che hai fatto?»
Da quel momento, il Muto iniziò a raccontare l’evento che l’aveva portato dietro alle sbarre,  come fosse un fiume in piena di parole. Il Randagio lo ascoltò silente per tutto il tempo.
«Ho sempre creduto che “dentro” ci andassero i criminali, quelli che appartenevano ad un certo ambiente socio-culturale, o meglio socio-non-culturale. I malati di mente non li ho mai considerati dei veri e propri criminali, pensavo che, beh … non erano incapaci di intendere e di volere.  Chi va in prigione? Beh … pensavo, quelli che rubano, quelli che uccidono per soldi, quelli che uccidono perché non ci vedono più dalla rabbia ritrovandosi cornificati, i pedofili, i truffatori, i mafiosi, quelli che vendono la droga. Io ero un semplice studente, niente di tutto ciò. La mia famiglia è apposto. Sì certo, hanno i loro problemi economici, come tutti in questo periodo di crisi, ma … voglio dire,  sono persone che si sono sempre guadagnate il pane legalmente, studiando prima e lavorando poi. Io studiavo architettura. Mi incuriosiva l’idea di modellare gli ambienti e gli spazi vivibili dall’essere umano, infondendo un pensiero, un concetto. Mi esaltava la possibilità di poter edificare abitazioni e non solo, che potessero essere permeabili con la natura: una nuova idea di casa, che andasse oltre quella di riparo. Paradossale è il fatto che uno dei due motivi per cui mi trovo rinchiuso fu proprio la necessità invece di un posto chiuso, lontano dagli occhi pubblici. Un posto intimo. Be’ ora ce l’ho per vent’anni un fottuto posto intimo e chiuso in cui stare.
Come tutti gli adolescenti maschi ero sfigato con le ragazze fino a diciassette anni. Poi tutto cambiò: un po’ di barba, dei tratti più decisi, una muscolatura più tonica e infine una buona dose di autostima. Da allora in poi assaggiai ragazze di tutti i tipi: culi-alti a mandolino, belle tette, maniglie dell’amore,  vicine all’anoressia, depilate, foreste amazzoniche e morbidi pratini inglesi; gambe lisce come l’asfalto fonoassorbente di un’autostrada, gambe toniche, gambe flosce; occhi neri e profondi, occhi verdi da incanto; more e bionde, timide e personalità dilaganti, dominatrici e schiave, depresse croniche e sognatrici, cattoliche che per conservare la verginità ti rimbecilliscono di sesso orale e ninfomani slabbrate per quanta ginnastica dovevano aver fatto in passato, scimmie urlatrici di contro  a pudiche che lo facevano al buio a missionario e mugolando. Per un periodo mi innamorai di una, poi finì. Quindi ricominciai con rosse, castane, lisce e ricce, mani curate e mani smangiucchiate di ansiogene; poi ancora schizofreniche, infermiere e dottoresse, professoresse e assistenti, insensibili e bipolari con le quali a letto quasi ti sembrava di fare una ménage à trois. Tutti i problemi perdevano peso con la vita leggera che avevo intrapreso, anche perché le donne erano il centro di tutto. Oltre allo studio mi dedicavo completamente alle donne, era la mia passione: ognuna di loro mi completava per un motivo. Mi sentivo come un fervente appassionato d’arte: studiavo nel dettaglio ogni corpo e ogni carattere, le loro storie e non mi fermavo davanti all’apparenza. La chiave era penetrare la loro menti e nel frattempo godere di ogni nota delle loro voci, degustare ogni sapore come fossero mille frutti tropicali e l’odore! Oh, ogni odore lo racchiudo ancora ben conservato qui, nel mio cervello. Ognuna con il proprio, personale e intenso odore per identificare la loro individualità ancora meglio dei loro nomi. Il problema è che la mia passione andava oltre ogni concezione etica o religiosa convenzionale e nel giro di un annetto mi ritrovai con una sorta di maledizione. Tutte le donne con le quali andavo a letto o con le quali intraprendevo relazioni, erano impegnate con altri uomini in relazioni stabili. Ero quello che molto romanticamente viene definito “l’amante”, o  più ipocritamente “immorale sfascia-famiglie”, anche se non credo di aver mai rovinato alcuna famiglia, né insidiato alcun fidanzamento. Il mio era un ruolo chiave nelle relazioni di coppia, perché mettevo il dubbio e dimostravo quanto la loro convenzionale idea di amore avesse basi piuttosto fragili. Mi sembrava assurdo che mi capitassero solo donne impegnate, era come se avessi un’aura che emanasse una particolare influenza energetica, che faceva presa solo su di loro. Ad un certo punto mi convinsi che fosse il mio ruolo nella società.

L’odore di Dalila era fresco e intenso come quello di un prato di fiori primaverile, sembrava voler raccontare la sua storia, molto più delle cicatrici che ognuno colleziona dall’infanzia fino alla morte e ancora di più di mille racconti. Divenni suo amante per gioco, perché era una persona radiosa con una vena oscura che rendeva i suoi sguardi, il suo profumo e i suoi atteggiamenti  contrastanti, indefinibili. Sapevo benissimo che lei stesse con un altro, ma non me ne preoccupai minimamente, non era la prima volta che mi capitava una situazione del genere. Iniziammo ad essere eccessivamente affamati l’uno dell’altra, tanto da fare sesso in qualunque luogo pubblico ci capitasse e a qualunque ora del giorno, anche perché nessuno dei due aveva una casa propria: entrambi vivevamo ancora in famiglia. Un giorno, il guardiano di un parco pubblico ci scoprì e stava per denunciarci alle autorità, ma riuscimmo a scappare. Volevo un maledettissimo letto. Per quanto fosse irresistibilmente passionale lasciarsi andare in qualunque angolo, senza curarsi del pudore, era tutto più limitato. Io la volevo nell’intimo di una casa.
Una sera ero ad un bar a bere una birra con degli amici e raccontai più nel dettaglio la mia situazione con Dalila e le nostre avventure, infine mostrai loro una foto sul cellulare che la immortalava in un gesto spontaneo, mentre si legava i capelli . Uno di loro, Christian, si zittì per un po’ e non osò fare commenti, cosa che mi lasciò, anche se per un breve frangente, leggermente perplesso. Dopo aver pagato uscimmo dal locale e tra un aneddoto e l’altro ci accendemmo una sigaretta. Christian mi guardò, mi prese da parte e  sorridendo mi disse che se avessi voluto mi avrebbe prestato la casa, poiché il week-end successivo sarebbe partito. Io gli dissi di non scherzare, ma lui controbatté che non stava affatto scherzando e che per un amico  avrebbe fatto questo ed altro. Non sapevo come ringraziarlo, ma allo stesso tempo ero felice come un bimbo la notte di Natale. Mi si stava offrendo una casa tutta per me, per un’intera giornata, dove io e Dalila avremmo potuto continuare a soddisfare le nostre voglie per ore, anche dopo il tramonto, fino ad addormentarci ebbri di passione.
Incontrai Christian il venerdì sera, poco prima che partisse. Mi diede il mazzo di chiavi, facendomi qualche raccomandazione, considerando che la casa comunque non era sua, ma dei suoi genitori. Dissi a Dalila di inventarsi qualche scusa per il sabato perché avremmo dormito insieme, avevo trovato un posto. Lei fu per un attimo sorpresa e quasi esitò, ma poi si lasciò coinvolgere dalla prospettiva e dal fatto che il suo ragazzo le aveva detto che sarebbe stato impegnato per lavoro quella sera.
Sabato sera alle ventuno e sette minuti scattò la serratura della casa di Christian. Entrai con Dalila cercando di non fare rumore, come se ci fosse qualcuno in casa. Il buio, il silenzio e un odore stantio ci invase appena entrammo. Ci guardammo attorno studiando la mobilia e la disposizione delle stanze, quindi andai ad aprire delicatamente una finestra. Dalila bevve, poi si chiese dove fosse il bagno, lo trovammo e lei accese la luce. Mi allontanai per lasciarla andare in bagno, ma lei non chiuse la porta, non entrò. Venne da me e iniziò a baciarmi. Pochi minuti dopo eravamo ad ansimare e a cibarci l’uno dell’altra sul letto di Christian, poi ci spostammo sul divano del salotto, poi su una sedia, poi in bagno, poi in cucina, quindi si ricominciava il giro. Era fantastica.
Quando baci una donna ti rendi subito conto se c’è dell’alchimia; se ci vai a letto, anche in contesti scomodi, entri in un’altra fase, entri dentro di lei; ma è il momento in cui entrambi potete dar sfogo a tutte le libertà, che ti rendi conto se c’è chimica tra di voi. E’ quando vedi una donna completamente nuda che ti rendi conto quanto possa essere bella, perché in quel momento puoi spogliarla non solo materialmente, ma anche spiritualmente di tutte le maschere convenzionali che ha dovuto indossare. E’ in quel momento che conosci  la vera donna.
Faceva caldissimo, perciò le pause ci servirono per bere litri d’acqua e prendere boccate d’ossigeno. Dopo tre ore, le forze ci avevano abbandonati uno tra le braccia dell’altra. Personalmente avevo le gambe a pezzi e l’interno coscia che mi bruciava come se avessi fatto la maratona di New York. Lei era lì che giaceva con gli occhi chiusi, con un lenzuolo attorcigliato tra le sue gambe, in una posizione rilassata che però risaltava le sue forme. La casa era immersa nel silenzio, disturbato ogni tanto, con poca costanza, da un’automobile che passava lì vicino. Finalmente l’avevo avuta come volevo, ero entrato nella sua parte più intima e l’avevo contagiata come un virus, lo si leggeva nell’espressione dei suoi occhi chiusi. Ad un certo punto iniziai a far caso ad uno sgocciolare lontano, ritmico, ma poco frequente e iniziai a studiarlo attentamente: era probabilmente il rubinetto della cucina che perdeva. Fino ad allora non ci avevo fatto caso, anche perché era quasi impercettibile, ma da quel momento divenne sempre più intenso, come se il rubinetto fosse lì, al fianco di Dalila. Una brutta sensazione di persecuzione mi prese all’improvviso. Volevo che finisse subito, ma avevo paura di alzarmi e andare a controllare il rubinetto, non so perché. Dalila aprì con fatica gli occhi  che cercavano di riposare, mi notò agitato quindi mi abbracciò e mi baciò, sorridendomi poi. Mi tranquillizzò e dopo che io ebbi messo un po’ d’ordine nella mia testa, il flusso degli ultimi superficiali pensieri della giornata mi cullò, rendendomi prigioniero del sonno.
Un urlo. Ecco cosa sentii, mentre dormivo, un urlo soffocato seguito da un tonfo. Spalancai gli occhi mentre ero disteso nel letto di Christian. Mi si raggelò il sangue e il cuore iniziò a battere come un tamburo tribale. Nonostante cercassi di mettere a fuoco i contorni della stanza, era tutto poco definito per il buio che regnava interrotto soltanto da una fioca luce proveniente dalla cucina. L’orologio digitale mi diceva zerodue duepunti diciotto. Sentii dei passi, movimenti nervosi. C’era qualcuno in casa. Controllai al mio fianco e notai che Dalila non c’era più, quindi stavo per chiamarla, ma qualunque suono mi si soffocò in gola appena sentii delle imprecazioni di una voce maschile. Non era Dalila, era entrato qualcuno. Feci un sospiro profondo, quindi mi alzai strisciando e senza fare un minimo rumore. L’uomo continuava ad imprecare chiedendosi perché mai lei fosse lì. Presi lentamente una katana che era appesa per esposizione proprio sopra la mia testa. Chi era quell’uomo? Era la domanda che mi assillava in quel momento. Non era assolutamente Christian. Era un ladro? Spiai attraverso uno spiraglio della porta e stringendo la katana nella mano destra ancora chiusa nel fodero, mi accorsi di un uomo in ginocchio che cercava di soccorrere Dalila a terra in cucina. Mi dava le spalle quindi non ci pensai due volte e lentamente mi avvicinai, cacciando fuori la katana. Lui mi sentì e si girò: piangeva. Gli dissi di stare fermo, ma paonazzo in faccia si alzò e mi disse che gli facevo schifo. Io, sorpreso, gli ripetei di stare indietro. L’uomo tirò all’indietro l’iride degli occhi, mostrando solo la parte bianca, la sclera. Era rossissimo in faccia, quindi iniziò a urlare gutturalmente, dicendomi che mi avrebbe ucciso. Mi saltò addosso, facendomi cadere la katana, quindi provò a strangolarmi, ma gli diedi un calcio nei coglioni. Urlò ancora più disumanamente, quindi  mi morse sulla spalla. Urlai di dolore io, e a quel punto non ci vidi più. Gli diedi un cazzotto , poi un altro e un altro ancora. Non so come mi rispose con una testata imprevista. Nell’andare all’indietro gli mollai un altro cazzotto sotto il mento che gli fece rimbalzare la testa all’indietro direttamente sullo spigolo del tavolino da caffè di vetro. La famiglia di Christian, da quando lui era cresciuto, per mia sfortuna, aveva levato i paraspigoli per i bambini, così il loro tavolino si ritrovò inondato di sangue e con qualche pezzetto di cervello sparso. Proprio quella sera. La sera che dovevo farmi una tranquilla scopata con Dalila.
In quel momento ero stordito, ché la testata era stata forte, quindi non realizzai subito quello che era successo. Rimasi con lo sguardo fisso al soffitto e i pensieri che mi giravano in maniera del tutto sconnessa. Uno spiffero di vento attraversò tutta la cucina fino al salotto e prima di superarmi si attorcigliò attorno al braccio e al collo facendomi venire la pelle d’oca. Ripresi conoscenza lentamente, quindi mi venne in mente Dalila. Dovevo controllare se stava bene, se era svenuta, se bisognava chiamare un’ambulanza. Mi alzai di scatto e la ritrovai ad un metro da me, in piedi, con gli occhi spalancati e il respiro irregolare. Aveva un coltello da cucina in mano. Lo impugnava con la destra e mi sembrava di sentire la pressione che la mano impiegava per tenerlo stretto. Calmati, le dissi, è tutto finito. Lei non mollava il coltello e mi guardava severa. Palpavo il suo odio, la sua rabbia. Lo vedo che è tutto finito,mi disse lei. C’era proprio bisogno di ucciderlo?, iniziò ad urlare. E’ stato un incidente, non avrei voluto, mi ha aggredito, le dissi, ma adesso posa il coltello. Fece una risata isterica che si trasformò in un pianto disperato, ma non pensava minimamente a mollare il coltello.  Che significa, tutto questo Dalila? Stai tranquilla, le dissi cercando di avvicinarmi. Un suo movimento brusco mi fece immobilizzare. Il coltello si era spostato in avanti verso di me. Stai fermo, mi fece isterica, Sai chi è quel ragazzo? Non sapevo che rispondere, che domanda fuori luogo era? Scossi il capo perplesso. E’ Dario, continuò lei piangendo . Non collegai subito. Dario chi?, le feci io. Dario mio, il mio ragazzo,  mi disse lei. Mi si bloccò il respiro e abbassai il capo.  E che ci faceva qui?, le chiesi, mi chiesi, chiesi alla stanza, al mondo.   Lei riprese a fissarmi con rabbia e mi disse che ogni tanto si infilava negli appartamenti delle persone che andavano in vacanza e rubava qualche gioiello. Che il caso avesse voluto che capitasse proprio lì? Che il caso avesse voluto che non la riconoscesse subito e la colpisse dietro la testa? Che il caso avesse voluto che io e lei saremmo dovuti essere scoperti?
 Dalila si sentiva in colpa e per autodifendersi aveva deciso di scaricarla su di me.  L’odio che emanava dai suoi occhi era intenso. Scattò per lanciarsi addosso a me urlando. Le bloccai le braccia per evitare che il coltello mi potesse colpire. Lei non mollava la presa, aveva cacciato una forza sovraumana. La punta del coltello era lì, dinanzi a me. Vicina al collo, vicina all’occhio, alla gola, alla bocca. Provai a disarmarla, ma la sua presa era troppo stabile. Cademmo a terra. Il respiro di lei era irregolare. Iniziò ad urlarmi in faccia e a dirmi che ero un bastardo. Che era colpa mia se Dario, povero innocente, era morto. Iniziammo a rotolare e accidentalmente il coltello le trapassò la gola.  Il suo urlo iniziò a soffocare nel sangue. Fiotti fuoriuscirono dal buco provocato dal coltello e dopo un po’ direttamente ai lati della bocca. I suoi occhi si spalancarono ancora di più. Enormi, bellissimi, di ghiaccio e lucidi lasciarono scivolare due lacrime, che si persero nel fiume di sangue. Si lasciò andare, non aveva più la forza di prima. Anche io mi lasciai andare, piangevo. Sentivo avvicinarsi le sirene. Volevo poter fare qualcosa. Passi che salivano su per le scale, molti passi. Piangevo, avevo paura. Il campanello, seguito da urla che dicevano, Aprite! Aprite! Che succede lì dentro?Polizia, aprite!  Ormai per Dalila era tardi, se ne era andata. Qualcuno aveva sentito le urla e aveva chiamato la polizia. Piangevo. Mi portarono via.
Mi interrogarono, chiedendomi che ci facevo in quella casa e perché mai c’erano due morti lì. Raccontai la mia versione, ma era evidente che li avessi uccisi io e non avevo testimoni  che confermassero la legittima difesa. Dovevo aspettare che Christian venisse e confermasse il tutto. Aspettai. Aspettai tantissimo, ma Christian pareva non arrivare mai. Infine arrivò, ma a quanto pare decise di inventarsi una bella storia: ci fu il processo e la sua testimonianza mi fece raggelare. Raccontò alla giuria che aveva pensato di prestare la casa al suo amico Dario, per tenerla sotto controllo per il week-end, che probabilmente Dario aveva deciso di portarsi la sua ragazza per una notte lì e che io da verme avevo voluto approfittare della sua partenza per derubarlo dei gioielli di famiglia. Mentre raccontava, aveva una faccia totalmente sconvolta, mi sembrò bravissimo a recitare. Come faceva a conoscere Dario, neanche io lo conoscevo. Nonostante io non avessi precedenti penali fui condannato, perché era evidente che avessi ucciso io sia Dalila che Dario. Che fosse stato accidentale era poco importante. Ero io l’intruso in quella casa, ero io quello che era sopravvissuto. La mia testimonianza sembrava davvero poco credibile, cosa che veniva sottolineata dagli sguardi disgustati e schernitori della giuria e del giudice. Mi fece schifo il genere umano, mi feci schifo io, disconobbi l’amore e la passione. Non volevo avere più nessun contatto con nessuno. Avrei voluto soltanto capire cosa diavolo fosse passato per la testa a Christian. Il primo giorno che mi chiusero qui dentro il destino parve accontentarmi, infatti Christian venne a parlare con me. Ero seduto, silente e lo fissavo, ma non gli chiesi niente. Lui era triste, arrabbiato, sembrava stesse continuando a recitare, ma in realtà capii che davvero stava male. Non ci fu bisogno di chiedergli motivazioni, fu lui a parlare per primo. Mi raccontò del suo amore, del suo amore represso, che aveva dovuto nascondere per anni, perché impossibile da realizzare. Mi raccontò della sua gelosia, della sua incontenibile invidia. Mi disse che odiava chi prendeva in giro la persona, l’unica, che avesse mai amato. Quando vide la foto di Dalila sul mio cellulare, la riconobbe subito e decise che avrebbe architettato un piano che avrebbe punito chi non amava realmente, chi non amava come lui. Qualcosa era andata storta, il suo piano era fallito e lui aveva perso per sempre il suo amore impossibile. La colpa, rifletteva lui adesso, non era soltanto mia, ma ero sicuramente quello che ne usciva meglio di tutti e quattro. Dovevo solo scontare gli errori che avevo commesso in un edificio con le finestre sbarrate. Che avrebbero dovuto dire Dalila e Dario? Erano morti, non sarebbero tornati indietro. Lui, Christian, aveva perso per sempre qualunque possibilità di avvicinare la persona che aveva amato segretamente. Aveva chiesto a Dario di entrare in casa sua quella notte per rubare dei gioielli con la scusa di voler fare un dispetto ai genitori, ma in realtà voleva schiaffargli la triste realtà in faccia. Dalila lo tradiva, non lo amava. Lui si che lo amava, seppure l’avesse sempre fatto soltanto segretamente, lui sì che gli sarebbe stato vicino dopo l’orribile scoperta. Dario era l’unica persona che meritasse di esistere nella sua vita, che meritasse il suo amore. Adesso non c’era più. Neanche il cuore di Christian esisteva più. Quando finì la sua storia pianse, si alzò e mi disse addio. Io rimasi in silenzio. Fissavo nel vuoto, coltivavo il vuoto che era dentro di me. Soltanto quello mi era rimasto. Questo è il motivo per cui sono dentro. Perché è quello che mi merito, perché sono stato fortunato, perché il mio ruolo nella società è mettere il dubbio.»

Il temporale finì proprio in quel momento. Attraverso le sbarre si percepiva soltanto la notte e qualche luce di lampione giallastra in lontananza. Il Muto si alzò e si rannicchiò sulla sua brandina di nuovo silente. Il Randagio avrebbe voluto dire qualcosa, ma non seppe cosa, quindi si sedette davanti alla finestra sbarrata e contemplò la notte.

giovedì 18 luglio 2013

Trasparenze (Claire)

Link alla prima parte


Ogni passione finisce:
Fiaccata dall’indifferenza,
Uccisa da una più intensa,
O scolorita dal tempo.
Le passioni scorrono via,

Le ossessioni rimangono.

-Kenya, 1 giugno ’93

Guardavo queste parole, inchiostro nero su carta bianca, mentre aspettavo l’arrivo del treno.

Ogni passione finisce:
E pensavo alla mia stupidità quasi adolescenziale di un anno prima, nel letto di Claire, mentre mi rigiravo e sudavo e maledicevo il mondo perché non potevo farla mia.
Fiaccata dall’indifferenza,
Dopo quella notte, avevo cercato ogni scusa per ridurre al minimo i miei incontri con Claire, ed erano passati sei mesi dall’ultima volta che l’avevo vista. Le avevo raccontato ogni genere di scusa, ma in realtà speravo che non vedendola i miei istinti si sarebbero placati.
Uccisa da una più intensa,
Non aveva funzionato, finché non avevo conosciuto Vera, che aveva preso totale possesso dei miei pensieri, facendomi dimenticare ogni impulso verso la mia amica di infanzia. Vidi le persone scendere dal treno, e sapevo che Claire era tra di loro. Posai il libro, Pensieri sparsi di Sigmundr Török, e mi incamminai verso la folla.
O scolorita dal tempo.
Finalmente vidi Claire, e pensai a Vera, e sorrisi perché il tempo mi aveva guarito, e le corsi incontro, e la abbracciai.
Le passioni scorrono via.
Vera monopolizzava il mio pensiero, anche se ci stavamo ancora conoscendo ero sicuro che sarebbe nato qualcosa di grande, Vera mi mandava un sms ogni sera per darmi la buonanotte, e io abbracciavo Claire e non mi sentivo più attratto da lei.
Almeno per i primi sei secondi, prima che lei mi respirasse nell’orecchio e si aggrappasse a me con forza, facendomi sentire il calore del suo corpo.

Le ossessioni rimangono.

Nella penombra della luce appena spenta, il sorriso malizioso di Claire a malapena visibile e la sua voce: “Baciami.”
E io la guardo stupito, le dico che è ubriaca ma dentro sto scoppiando di felicità, sto vivendo la più intensa delle mie fantasie. “Non ci avevo mai pensato prima, ma stasera mi è venuta voglia di sapere come baci.” Si avvicina a me, si solleva in punta di piedi e dischiude le labbra, e posso sentire il suo respiro. Chiudo gli occhi e mi avvicino, lentamente, fino a toccarle con le mie. La bacio dolcemente, assaporando il momento. Il ritmo accelera, la temperatura sale, le lingue corrono, i corpi si stringono…

Un fremito. Ero sicuro di averlo sentito, un brivido che percorreva tutto il suo corpo, accompagnato da un respiro lento e profondo, che nella mia fantasia sembrava quasi un gemito. Per un attimo pensai che potesse esserlo davvero, ma che motivo avrebbe avuto lei di gemere per un abbraccio? Presi la sua borsa e le dissi di seguirmi, camminandole davanti per non perdermi, come l’ultima volta, nelle trasparenze dei suoi abiti leggeri. Avevo cambiato casa e lei non l’aveva ancora vista, non abitavo più nel quartiere dove eravamo cresciuti ma quella nuova era molto più spaziosa, discorsi che facevo senza neanche riflettere, la mia mente era un turbinio di pensieri turbati, i ricordi di quella notte passata nel suo letto mi scavavano nel cranio e si facevano strada verso il centro della mia mente, le parole tre giorni martellavano l’interno della mia fronte, tre giorni, due persone, un letto: pazzia. Non sarei potuto resistere tre giorni con Claire che dormiva nel mio letto, con il caldo e con i suoi comportamenti da amica d’infanzia, con la sua pelle nuda e con le sue trasparenze. “L’autobus ­–le dissi– dovrebbe passare tra cinque minuti, e ci lascia a pochi metri da casa mia. Com’è andato il viaggio?” Lei iniziò a parlarmi, e io guardavo le sue labbra che avrei baciato, e il suo collo dal quale avrei odorato il sangue che le scorreva sotto la pelle, e le spalle che avrei morso, e mi voltai verso i graffiti sulla parete di fronte a noi per evitare che lei potesse notare il turbamento nel mio sguardo. Non riuscivo a distinguere le parole sul muro, anche perché erano coperte da una scritta rozza, fatta con una bomboletta spray: “perdonami”. E nella mia mente, impugnavo una bomboletta anche io, e di fronte casa di Claire scrivevo: “scopami”.

Le braccia esili di Claire si avvinghiano intorno alla mia testa mentre indietreggio verso il divano, trascinandomela addosso. Il suo vestito chiaro si alza scoprendo le sue gambe abbronzate mentre sale a cavalcioni su di me. Mi poggia le mani sulle spalle e si allontana muovendosi sinuosamente, il volto nascosto dalla penombra e dai capelli. Intravedo la forma delle sue labbra che bacerei, e il suo collo dal quale odorerei il sangue che le scorre sotto la pelle, e le spalle che morderei, e mi perdo in quell’immagine…

Quarantacinque minuti dopo eravamo già a casa, Claire aveva posato la sua borsa in camera mia. Mi ero offerto di lasciargliela e dormire sul divano, ma lei aveva detto di non avere problemi a dividere il letto con me, aveva sorriso e mi aveva chiesto dove fosse la doccia. Mentre l’acqua scorreva sul suo corpo e io cercavo di allontanare dalla mente l’immagine del suo corpo bagnato, aprii una birra ghiacciata e una busta di patatine, e controllai l’orologio. Entro un’ora sarebbero arrivati i ragazzi, eravamo finalmente riusciti ad organizzare una rimpatriata a casa mia, con pizze da asporto e molte, forse troppe, bottiglie di vino. Di nuovo, come quella notte nel letto di Claire, pensando agli amici che sarebbero arrivati e ricordando le esperienze vissute insieme mi sentii un adolescente. In quel momento, tra un sorso di birra ed una patatina, realizzai che Claire non si era spogliata davanti a me: aveva fatto il gesto di togliersi la maglia, ma si era fermata e mi aveva chiesto dove era il bagno, lasciandomi lì immobile con quelle accennate trasparenze nella mente. Scossi la testa e ripetei a me stesso che era un caso, che stavo cercando di vedere cose che in realtà non c’erano. Normalmente avrei pensato alla presenza di un altro uomo, ma Claire mi aveva detto che non c’era nessuno. E Vera, che fine aveva fatto? Non era più il centro della mia mente, in quarantacinque minuti era stata declassata a pensiero periferico da birra e patatine. Le mandai un messaggio: “La mia amica è arrivata, e tra un po’ inizia la festa. Buonanotte, un bacio.”
“Scrivi alla tua fidanzata?”
La voce di Claire mi fece sussultare. Risposi vagamente di no e la invitai a sedersi al tavolo e partecipare al mio aperitivo, mentre mi chiedevo per quale motivo, nei dieci giorni che erano passati da quando avevo conosciuto Vera, non ne avevo mai fatto menzione con Claire.

Mi alzo dal divano, sollevandola di peso e continuando a baciarla. Percorro pochi passi e poi la faccio sedere sul tavolo. Le mie mani esplorano gli spazi tra il suo vestito e la sua pelle, le sue afferrano la mia cintura e iniziano ad aprirla. Il suo respiro si fa più pesante, un brivido percorre la mia schiena quando sento le sue mani abbassare i miei boxer e toccarmi.

Una decina di persone erano sedute intorno al mio tavolo, con una decina di bicchieri di vino pieni e già troppe bottiglie vuote, abbastanza sigarette e tanti ricordi. Aspettavamo le pizze e parlavamo di cosa ci era successo negli ultimi anni e di tutte le cose che ci erano successe ai tempi del liceo. Claire si alzò per prendere un’altra bottiglia, e sotto la luce al neon potevo intravedere la sagoma nera della sua biancheria, e dei suoi fianchi che ondeggiavano ad ogni passo. Versò il vino e si sedette, incrociando le gambe. Il suo vestito chiaro si alzò sollevando le sue gambe abbronzate, e sentii il mio sangue diventare più caldo, più veloce assecondando il ritmo con cui le sue trasparenze si facevano più o meno audaci. Nel milleottocento era lecito provare desiderio anche per la vista di una caviglia, mentre la pornografia oggi non lascia più nulla all’immaginazione. Eppure, un movimento del suo corpo o un centimetro di pelle erano abbastanza per farmi sentire a disagio: immaginavo di afferrare quelle gambe, ai lati delle mie, e sprofondare tra le lenzuola insieme a lei, immaginavo di accarezzarle, sentendo il suo corpo agitarsi mentre le mie mani salivano, e immaginavo intimo nero  che scivolava giù lungo quelle gambe fino alle caviglie, e il calore di lei avvolto intorno a me, immaginavo risvegli abbracciati, e avevo paura di immaginare oltre, perché avevo troppo da perdere. Probabilmente l’imbarazzo ci avrebbe uccisi, ma nelle mie fantasie lei avrebbe girato per casa vestita solo di una mia camicia, fermandosi sull’uscio delle porta di una qualunque stanza, e si sarebbe spogliata fissandomi negli occhi, e poi avrebbe abbassato lo sguardo sul suo corpo per guidare il mio, e poi la voce di qualcuno interruppe i miei pensieri per ricordarmi di quella volta che, giocando al gioco della bottiglia, mi obbligarono a baciare quella studentessa straniera bruttissima e con i baffi a cui puzzava l’alito. E di quell’altra volta in cui una delle presenti era riuscita a baciare il ragazzo che le piaceva, il quale proprio grazie a quell’esperienza aveva scoperto di essere gay, e di tutti i pettegolezzi su me e Claire che stavamo insieme, cosa che sembrava palese a tutti, tranne per il fatto che non era vera.

Sono seduto su una sedia, Claire è stesa sul tavolo e stringe le gambe intorno alla mia testa, mentre scopro il suo sapore ed esploro il suo ventre con le mani, i suoi sospiri mi arrivano ovattati come se fossi sott’acqua, ma sento benissimo i brividi che le scuotono il corpo. Un attimo dopo sono in piedi, tutti gli abiti a terra e la fisso negli occhi, nonostante la penombra. Lentamente mi faccio strada dentro di lei, e un attimo dopo tutto è diverso. Da questo momento, so che nulla sarà più come prima, ma questo momento vale tutto il futuro che stiamo perdendo. Claire afferra il suo vestito dal tavolo, prendendo il colletto in una mano e il bordo inferiore nell’altra, lo lancia intorno al mio collo e mi tira verso di lei. Ci baciamo ancora, voracemente, vogliamo imprimere nella mente ogni sapore, riversare la nostra anima nell’altro attraverso la bocca. Il suo corpo diventa più caldo e umido di sudore, e sento piccole gocce formarsi anche sulla mia fronte. Mi allontano di un passo e la faccio alzare. Lei mi guarda, si avvicina fino quasi a sfiorarmi, e mi fa strada verso la camera da letto, la seguo e nel buio distinguo solo la sagoma delle sue braccia mentre cammina sfiorando le pareti.

In tutte le comitive c’è sempre l’amico che rimane eternamente giovane. Quella sera ce n’erano due, che ricordavano alla perfezione tutte le regole dei giochi alcolici che facevamo quando eravamo più giovani: regole che tutti noi conoscevamo a menadito all’epoca, ma che a molti di noi non apparivano più così ovvie dopo un decina di anni e mezza dozzina di bicchieri di vino. Tirare dadi, pescare carte, guardare Claire, perdersi nelle trasparenze del suo vestito, ad ogni carta corrispondeva una regola in rima che decideva chi beve, passare il turno al giocatore alla tua sinistra, no alla tua destra, ma se la carta di prima era un otto il senso passava da antiorario ad orario, i dadi cadevano a terra e Claire ci abbassava a raccoglierli, e speravo di non dovermi alzare al mio turno altrimenti tutti avrebbero visto il gonfiore nei miei pantaloni, e i vecchi amici ubriachi non perdonano, e ogni centimetro del suo corpo non tollerava che io guardassi altrove, e i bicchieri si svuotavano e le pizze non arrivavano e Claire apriva un bottone della sua scollatura e sono sicuro di aver passato almeno tre minuti ad osservare una gocciolina di sudore che lentamente le scivolava tra i seni, invidiandola.
In tutte le comitive c’è sempre l’amico un po’ pervertito, quello che quando arriva il momento delle penitenze da pagare fa surriscaldare l’ambiente. Una delle ragazze improvvisò uno strip tease perché non era riuscita a finire il bicchiere in un sorso, due ragazzi si erano dovuti toccare le parti basse a vicenda perché non erano riusciti ad arrivare alla fine dello scioglilingua, e ridevamo e il mio sguardo si perdeva nelle trasparenze di Claire, bloccato tra i suoi abiti e la sua pelle, o tra la sua pelle e il suo sangue, o ancora peggio tra il suo sangue e la sua anima. Ero completamente perso nei fumi dell’alcol e non saprei se fu un dado o una carta o una bottiglia o un sorteggio a decidere che toccasse a me pagare la penitenza. Feci girare la bottiglia e mentre girava decisero che avrei baciato qualcuno. L’amico pervertito incalzava “con la lingua” e tutti approvavano, e io ridevo, finché la bottiglia non si fermò con la punta rivolta verso Claire.
Risate. Ci alziamo. Ci avviciniamo.
Siamo io e lei, e non so sotto quale strato delle sue trasparenze sia persa la mia mente.
Ci avviciniamo, ci guardiamo, sorridiamo imbarazzati.
Il rumore del citofono.

Claire è stesa a pancia in giù e io sono dentro di lei, le nostre guance si sfiorano e le nostre bocche si mangiano, il mio petto è a tratti tutt’uno con la sua schiena, una delle mie mani sulla sua guancia, morsi su un dito e gemiti nelle orecchie, i suoi capelli sparsi sul letto, la sua bocca che morde la coperta e gli spasmi che ci percorrono insieme, sempre di più, sempre più forte, il volume sempre più alto e i corpi sempre più caldi, un sogno diventato realtà, un momento di piacere interminabile mentre la mia lingua percorre il suo corpo e assapora il suo sudore salato, mentre il nostro abbraccio è sempre più stretto, sempre più forte, sempre di più, so che questo momento rimarrà impresso in questa stanza per sempre.

Per tutta la serata io e Claire non ci guardammo in faccia. Se quel bacio ci fosse stato avremmo potuto riderne, ma era proprio la sua assenza a renderlo così pesante, almeno per me. Il suo sguardo mentre ci stavamo avvicinando, l’imbarazzo nei suoi occhi color nocciola, mi erano rimasti nelle ossa e nella carne. Non pensai ad altro mentre mangiavamo, né mentre giocavamo a carte né mentre finivamo le ultime bottiglie. I giochi alcolici da adolescenti erano finiti con l’arrivo delle pizze, e sembravano usciti dalla mente di tutti, soppiantati da lauree, lavori e matrimoni in vista, e tutti i discorsi che fanno da preludio all’atto finale della serata.
“È stato un piacere ritrovarci, buone cose, arrivederci, ciao, mi raccomando, teniamoci in contatto.” E la porta di ingresso si apriva e si chiudeva tante volte, ogni volta su una o più schiene sempre diverse, finchè dentro non rimanemmo solo io e Claire. La stanchezza e il vino avevano preso il controllo del mio corpo, non pensavo più a lei né alle sue trasparenze. Esattamente come qualche ora prima alla stazione, il pensiero di lei era lontano dalla mia mente e sentivo che avrei potuto resisterle se non fosse venuta a stuzzicarmi, cosa che sembrava poco intenzionata a fare, e che mi rendeva tranquillo ma triste allo stesso tempo. Il suo imbarazzo era molto più palese del mio, sembrava pensierosa e a tratti una voce nella mia testa mi diceva che sembrava indecisa su cosa fare con me. Non sapevo in quale scelta sperare, non sapevo in che direzione spingerla, non sapevo neanche se tutto ciò fosse reale o solo una mia fantasia.
Dirigendomi verso la camera da letto mi fermai tra il tavolo e il divano, sospirai e le chiesi di spegnere la luce.

Nella penombra della luce appena spenta, il sorriso malizioso di Claire a malapena visibile e la sua voce: “Baciami.”

mercoledì 10 luglio 2013

Untitled 1

Più di un mese.
Dopo più di un mese dalle ultime parole scritte su questo quaderno, specchio di noi,
riflesso dei nostri sogni, delle nostre paure, delle nostre riflessioni più recondite,
eccomi qui, accanto a te, a scrivere ricordi,
per la prima volta con la consapevolezza di star costruendo qualcosa di indelebile,
eppure con la paura che un giorno tutto possa svanire come il fumo delle sigarette che stiamo fumando su questo letto.
E quindi fisso le immagini, nella mia testa,
in bianco e nero come le parole.
E da cosa cominciare se non da quel letto,
l'inizio di tutto nel momento in cui sono entrata da quella porta,
tra quelle coltri rosse
che hai condiviso anche con lei, l'altra,
e li i primi scontri, i primi morsi e i primi graffi
e poi i primi baci, e le nuove promesse,
l'inizio di un nuovo sogno,
o forse un nuovo inizio per un vecchio sogno,
e quest'anello che porto al dito.
E poi il continuo di un film del quale prima avevamo solo provato ad immaginare qualche fotogramma,
queste coperte grigie che abbiamo finalmente scelto insieme, e l'accontentarci di un tramezzino al tonno.
Cose nuove si mischiano alle vecchie,
come l'odore di noi, la nostra passione che brucia durante la notte e illumina il buio delle nostre paranoie, scaccia le ombre e i fantasmi che si insinuano striscianti.
E i nostri sogni che si disperdono nelle note della nostra musica.
Si, nostra, non più mia che mi ricorda te, o tua che ti scalda il cuore con la mia essenza,
ma nostra, scelta come queste coperte, o le tende che sostituiremo a queste con i fiori davvero brutte.
A volte il mondo sembra iniziare e finire in questa stanza, nei nostri respiri,
nei nostri libri, riflesso delle nostre idee,
nelle scarpe accatastate accanto alla porta, nei vestiti sparsi sulla poltrona e in quelli mischiati nella cassettiera,
e nelle bottiglie di birra sull'armadio, svuotate e messe lì il giorno dopo perché la voglia di appartenersi ci ha impedito di finirle appena comprate.
Vorrei fotografare ogni cosa, ogni dettaglio,
per avere prova tangibile di ciò che vedo e che di tanto in tanto mi sembra ancora un sogno.
Vorrei fotografare ogni cosa, ogni dettaglio, per tenermi stretto ogni ricordo, nel caso dovesse finire.
E provo a scattare fotografie in bianco e nero, nella mia testa,
come parole,

come poesie...