Citazioni


mercoledì 28 agosto 2013

Senza nome 1

Ore quattro e dieci del mattino: ancora sveglio, in cucina, a mangiare biscotti.

Mi si dice che c'è da fare la votazione per il nuovo argomento del blog: amori perduti o cibo.
Voto per gli amori perduti, perchè sinceramente del cibo non saprei cosa dire. Ora, alle quattro e un quarto della mattina, realizzo finalmente che non so cosa dire nemmeno sugli amori perduti.
So che sono come il cibo: magari ti svegliano la notte all'improvviso, anche se avevi già cenato tranquillamente qualche ora prima, e ti fanno scomodare, ti fanno mettere le calze e le ciabatte, ti fanno sgattaiolare silenziosamente in cucina cercando di fare il meno rumore possibile, mentre a dispetto invece le dita dei tuoi piedi scricchiolano come rametti secchi mentre tu cerchi di camminare sulle loro punte. Gli amori perduti sono come il cibo perchè la fame colpisce nei momenti più strani della giornata, e hanno varie sfumature, vari gusti. C'è l'amore perduto che ricorda tanto la merenda, uno di quelli che ancora non si è passato e sulla quale ci si fissa mentalmente ogni giorno, ad un dato momento, solitamente ripensando sempre alle solite cose sbagliate. C'è l'amore perduto alla frutta, che solitamente era un tradimento, tipo quelli banane, lampone, chi c'era con te, chi c'era stasera? Ci sono gli amori perduti caramelle e ci sono amori perduti che sono grigliate in gran stile. E ci sono amori perduti che ti svegliano alle quattro del mattino, e ti fanno scendere in cucina a mangiare biscotti, bere aranciata e ti fanno fissare un punto vago della parete illuminata dalla debole luce di servizio del cucinino. Amori biscotti fragili, porosi, dolci e morbidi al tatto, coperti di farina, che ne puoi mangiare ottanta e non ti sazierebbero comunque, amori biscotti che dentro al caffellatte svaniscono senza nemmeno dire “a”, amori biscotti che trovi sempre ai matrimoni, quando a casa dello sposo o della sposa ti offrono il caffè, prima che tutti si vada assieme in chiesa, e loro sono sempre li, nel vassoio d'argento, affianco agli amori caffè e agli amori di zucchero, tutti perduti nella notte di addio al celibato.
Nemmeno potrei dire che mi manca il tuo amore amatriciana, che la sera che abbiamo cenato assieme ho parlato solo io mentre tu mangiavi e ridevi, e alla fine hai finito prima di me e la pasta mi si era freddata nel piatto, e l'ho mangiata lo stesso mentre tu guardavi, e io odio quando mi si guarda mentre mangio, perchè mi mette in imbarazzo. Ancora non lo sapevo, ma ho iniziato ad odiarti da quel momento, e ho iniziato ad odiare l'amatriciana fredda. Ho odiato anche la birra che ho bevuto solo io, che tu non ne hai assaggiato nemmeno un sorso, ed era birra che non hai mai bevuto. Tanto lo sapevo che una pastasciutta fredda e una birra bevuta da solo non portavano nulla di buono. E anche gli amori al cioccolato fondente. Che poi magari non sono nemmeno amori, sono una specie di infatuazione strana e potente, ma che per svariati motivi non raggiunge mai il novanta per cento di purezza del cacao, e allora sono mezzo al latte e mezzo fondenti, che poi si mischia tutto e non si capisce più niente e va a finire che non ci si parla più, non si mangia più cioccolato.
Quattro e trentaquattro del mattino, e ancora lo stomaco mi brontola un po'. Forse dovrei davvero smettere di pensarti, forse dovrei tornare in cucina e mangiare fino a saziarmi, forse dovrei semplicemente scriverti di nuovo.

Forse dovrei semplicemente dormire.


domenica 11 agosto 2013

ἀ-πάϑος


A Ivan.

“Continuiamo dopo, mi interessa”.


  

A volte è davvero complesso provare a spiegare ciò che si pensa e in effetti non ho l’ardire di tentarci.


Mi sono sempre ritenuta un’aspirante conoscitrice della lingua italiana, ma oggi, riflettendo, non sono riuscita a dare una definizione da “vocabolario” alla parola “Apatia”, per cui sono andata a controllare:
Apatia -  1) “Stato d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico; in medicina, notevole riduzione o mancanza di reazioni affettive; si verifica con particolare frequenza in alcune forme di schizofrenia, in alcuni stati depressivi e nella frenastenia di notevole grado. 2) Nella filosofia antica, stato di perfezione contemplativa dello spirito, che attraverso l’esercizio della virtù consegue la libertà interiore intesa come indipendenza, indifferenza e imperturbabilità rispetto alle passioni e alle emozioni umane, ai piaceri sensibili, agli eventi esterni in genere, secondo un ideale di saggezza sostanzialmente unitario propugnato in età ellenistica da cinici, stoici ed epicurei e variamente recepito e discusso dai Padri della Chiesa e dagli apologisti cristiani.


Ora, devo ammettere che da quando, ormai diversi anni orsono, la filosofia degli stoici è entrata nelle mie conoscenze ha subito su di me un grande fascino: vuoi l’adolescenza, momento di turbamenti e forte emozioni, vuoi il lavaggio del cervello operato dal liceo classico, mi è sembrata un’ottima idea tentare di operare su me stessa il punto 2) della definizione gentilmente offertami dal Treccani.
Devo dire che, in qualche modo, per qualche periodo, ci sono riuscita, solo che, a causa dei turbamenti sovra citati, probabilmente i padri dello stoicismo non sarebbero propriamente stati fieri di me: alternavo periodi di perfetta indifferenza e imperturbabilità, per l’appunto, verso il mondo, a stati di dolore profondo e lacerante per quanto facevo durante i serafici periodi di cui prima.
Attorno a me poteva esplodere la terra e poteva anche crollarmi in testa il cielo, ma io avrei trovato il modo di sdrammatizzare, di prenderla “con filosofia”, di restare calma.

Se da un lato questo atteggiamento mi ha portato grossi vantaggi, sia perché riuscivo a mantenere il sangue freddo in situazioni più o meno estreme, sia perché le naturali batoste emotive del periodo tendevano a spezzarmi le gambe, dall’altro lato poteva capitare che finissi per ferire le persone che mi stavano attorno, che mi vedevano del tutto indifferente alle mie o alle loro emozioni (nelle migliori delle ipotesi, ma solitamente finivo per sbeffeggiare, inconsapevolmente – ormai era diventata un’”abilità” innata – i loro sentimenti o i loro gesti d’affetto) o che finissi per espormi, addirittura, a rischi o a pericoli.
La negatività della cosa, tuttavia, mi lasciava, ancora, indifferente, almeno fin quando, in quanto – purtroppo – io non sono e non ero una stoica, non subentrava il mio onnipresente animo umano a dirmi cosa cazzo stavo facendo. A quel punto mi abbandonavo alla tristezza più totale e ai sensi di colpa più terribili per aver trattato male me stessa e gli altri.
A parlarne così, comunque, mi sembra di sminuire la cosa, benché io non sia di certo qui a scrivere quanto la sottoscritta Angelica Papasergi abbia, poveretta, sofferto nella sua vita.
In realtà il dolore che provavo in quei momenti era qualcosa di assolutamente atroce (e anche questo termine, non vorrei sembrare melodrammatica, ma non credo calzi alla perfezione): forse, ognuno a modo proprio, anche se non lo auguro a nessuno, ha già raggiunto la “soglia del male sopportabile” e intuisce cosa sto cercando con i miei pochi mezzi di dire. Prendendo un altro filosofo, Epicuro, che ci diceva “Il dolore non va temuto, infatti se è intenso è breve, se è lungo non è intenso”, e chiedendogli scusa perché non ho saputo fare felice neanche lui, vorrei specificare che quest’affermazione non potrebbe essere più falsa: cosa intendiamo con “intenso”? Cosa con “breve”, cosa con “lungo”?


Il dolore che ho provato in quei momenti, in quei giorni, in quei mesi, in quegli anni non ha niente di paragonabile ad un dolore fisico, benché ne abbia testati di piuttosto forti; è un male che pervade ogni singola fibra del corpo, che fa desiderare di perdere i sensi, che obnubila totalmente la mente tanto da far sembrare come se non avessi più le braccia o le gambe, perché quel sangue amarissimo che il cuore sta pompando non giunge ad arrivare alle estremità prima di evaporare dolorosamente dalle vene, lasciando il vuoto più assoluto.


Da qui, chiaramente, il cane iniziava a mordersi la coda, avevo necessariamente bisogno di tornare “stoica” e vivere la mia vita pacificamente con strafottenza fino alla prossima ondata di atrocità.
Ma non si può vivere di alti e bassi perennemente, così, ad un certo punto, ho deciso di soffrire e basta, visto che non ero in grado di essere apatica.


Mi sono persa in un mondo lontanissimo, in cui tutto ciò che desideravo era irraggiungibile perché mi sfuggiva, e forse mi derideva anche, ma sarebbe stato sopportabile se non fossi stata ammorbata da quell’entità malefica che è la Speranza, di vedere la luce e poterla afferrare, o semplicemente sorridergli senza che mi sentissi raggelare nel tentativo di farlo, senza comprenderne il motivo.


Ho continuato a ferirmi e a ferire, a tremare di emozione di fronte a gesti belli (la bellezza del cuore, intendo), di fronte alla novità, di fronte a ciò che capivo che trasmettesse una qualche forma di amore; ma ogni volta non sapevo gustare tutto ciò, assaporarlo e farlo mio, e così, infine, svaniva in una nube nerastra e carica di tempesta, di cattivi presagi e di tristezza.


Ho avuto paura del mondo, da morire, perché sapevo che era dannatamente bello (la stessa bellezza di prima) e pazzescamente fragile, ma, cazzo!, nessuno intorno a me sembrava accorgersene. Per cui ho dovuto, per forza, capite?, nascondermi da quel mondo che tanto amavo perché sarebbe stato inutile continuare a tentare di far comprendere che c’era di più, di più sotto la fottutissima superficie brillante del mare al tramonto.
“Là sotto ci sono i pesci! E quanti tipi di pesci! Ci sono anche i fondali marini, moltissimi tipi di vegetali, e sicuramente anche qualche reperto archeologico!”
“Sì, ok, ma non lo vedi quanto è bello il sole? E’ tutto rosso e fa brillare l’acqua e tinge il cielo.”
Io ogni volta mi giravo, nuovamente, e fissavo il tramonto: la luce radente di quell’ora mi fa sempre pizzicare gli occhi e, talvolta, mi fa piangere.


Ecco, il tramonto, voglio dire, ad un apatico non dovrebbe importargliene niente delle emozioni che può suscitare nell’animo (ma a uno stoico forse sì, devo indagare); non dovrebbe importargliene niente neanche del fatto che tutto, tutto lo stramaledetto mondo guarda il tramonto, in montagna, al mare, in città, e, o lo ignora, oppure si ferma a fissarlo, magari in compagnia, sapete com’è, e a perdere parole sulla sua bellezza (no, non la bellezza di prima).
E’ bello il tramonto, bravo, l’hanno già detto in miliardi, di sicuro aveva bisogno di sentirselo dire anche da te.
La verità è che non esistono parole per descrivere le cose belle (di nuovo la bellezza del cuore) come non ne esistono per parlare dei moti dell’animo: forse perché anch’essi sono tra le cose belle del mondo, anche se non tutti meriterebbero questo aggettivo, a mio parere.
E’ importante quello che sto dicendo? No, e me ne rendo conto, ma è questo quello che chiamano “filosofia”: riflettere su cose che nella vita, odierna, di tutti i giorni non servono a niente.
Attenzione, però, io non sono una filosofa, né potrò mai esserlo (come abbiamo visto i miei tentativi sono falliti piuttosto platealmente), per cui voi sentitevi in diritto di continuare a guardare la superficie del mare brillare.
Io, di tutta risposta, mi sentirò in diritto di continuare a temere il mondo. Perché le cose speciali sono sempre fragili ed incomprensibili, e io ho troppa paura di affrontare ciò.

Questo, fra mille altri pensieri, affonda inutilmente al di sotto di quella superficie brillante.


Ad un certo punto, dopo altri vari avvenimenti piacevoli e spiacevoli e con il naturale corso (o decorso?) delle cose, è giunta la definizione 1).
Non so, e non so se riuscirò mai a scoprirlo, quanto l’una abbia influenzato l’altra cosa, ma adesso ci sono dei lunghi momenti, chiamiamoli così per non spaventarmi troppo, in cui io non desidero.
E nella vita, io lo so, bisogna desiderare: mangiare, bere, dormire, uscire, vestirsi, lavarsi, sorridere, parlare, gridare, giocare, avere, essere qualcosa, qualsiasi cosa, avere un sogno.
Così, però, è più comodo: fissare il soffitto o un punto qualsiasi della parete è comodissimo. Non mi va di fare altro, perché dovrei? Perché, potrei?

Non sempre però fila tutto così liscio, a volte le giornate mi spingono, e forse un po’ mi ci spingo da sola per il timore (reale) di morire da sola nel mio letto, a fare qualche cosa e, quasi sempre, ciò comporta avere a che fare con “persone”.
Sto pensando perché ho messo le virgolette intorno a “persone” e non ho saputo darmi una risposta: non credo sia l’ora tarda, credo semplicemente, ammettendolo con onestà, che ora come ora mi sento così estraniata dai rapporti sociali da vedere quella parola come del tutto aliena.
In quei momenti, in questi momenti, vorrei fortemente scomparire. Ma sono troppo attaccata al mondo e alla mia anima per desiderarlo veramente, per cui quello che desidero in realtà è nascondermi agli altri.
Ora mi spiego meglio: d’inverno è tutto più semplice. Ho freddo, posso ricoprirmi di vestiti, mettermi sciarpe fin sopra il naso e un cappuccio fin sotto le sopracciglia e riesco a sentirmi un pochino meglio. Talvolta, addirittura, quando cammino per strada riesco a guardare fino al mento delle persone che mi passano accanto. Il viso no, adesso non esageriamo. D’estate, invece, è tutto un casino: ho caldo e non riesco a tenermi addosso neanche una sciarpa leggera, all’interno della quale calcarmi fino al naso, alla necessità. Cioè, ma io quindi dovrei andare in giro a mostrare la mia faccia, la mia pelle, le mie braccia, le mie gambe? Dovrei riuscire a guardare in volto le persone? Dovrei riuscire a parlare con loro, fissandole negli occhi, senza spostare lo sguardo a destra e a sinistra, senza guardarmi le punte dei piedi, senza fare finta di controllare l’ora o di leggere un messaggio sul cellulare? Veramente???
Ah, wow, interessante.

Per cui, alla fine, finisco per sentirmi a disagio, in ansia e stare in silenzio, parlare quando interpellata o quando è veramente necessario dire qualcosa (a volte mi lascio un po’ andare e parlo a sproposito, cioè dico quello che mi passa per la testa: subito dopo, quasi sempre, me ne pento e provo una grandissima vergogna, benché comprenda che non abbia detto nulla di particolarmente cattivo o fuori luogo). E’ difficile avere voglia di avere relazioni sociali così.


Altre volte, invece, l’apatia scema e lascia spazio ad una sensazione dolorosa: non è un male acuto, lancinante, è più che altro un fastidio.
Un pensiero martellante.
Un’inquietudine incessabile.
Una certezza di fallimento, di incomprensione, di terrore.
Una di queste, o tutte insieme, non fa differenza: m’impedisce, il più delle volte, di muovermi dal letto o dal divano e di fare attività pratiche o utili.


Trovo, a tal proposito, che la lingua italiana sia molto strana: posso spiegare, quindi, in tanti modi le sensazioni che trasmette l’Apatia, ma non riesco a spiegare in alcun modo la Bellezza. Perché non esiste un termine specifico con cui io vorrei poter sostituire quel “bellezza”.

Magari potrei pensare a questo nei momenti poco prolifici di assoluta vegetazione sul letto: creare un nuovo vocabolo da inserire nel Treccani.

Ah, un'ultima cosa importante: questo non è un racconto, però forse, in effetti, avrei dovuto dirvelo all’inizio.
Questo è solo un minuscolo frammento della mia anima.


domenica 4 agosto 2013

Human Immunoefficiency Virus




“Che palle, non riesco a trovarla da nessuna parte… vediamo, deve essere contrassegnata dal Codice di Differenziazione 4. Codice di Differenziazione 4, Codice di Differenziazione 4, Codice di Differenziazione 4… Niente, non la trovo, maledizione. Aspetta, aspetta… ecco, trovata!”
Lascio alle mie spalle il mantello, entrando finalmente nella cella a cui sono stato assegnato.
Guardandomi attorno, non riesco a fare a meno di notare come il senso di sollievo provato nell’essere arrivato a destinazione stia a poco a poco sfociando nell’apatia più assoluta. Una ricerca infinita tra milioni di celle… e il paesaggio che mi si mostra è sempre lo stesso.
Le solite Mura, piene di varchi così strettamente sorvegliati, il solito Centro di Spedizioni, la Raffineria, l’ennesima, che fornisce la cella dell’energia di cui abbisogna per mantenersi operativa. L’ennesima cella, una delle tante di quel grottesco sistema, uno dei tanti contenitori di quelle micro comunità tutte preposte a compiti così diversi tra loro… ma con lo stesso, identico scopo: mantenere integro, efficace e sano il sistema. E poco importa se la cella in questione è preposta all’attivazione delle difese, come questa, o all’eliminazione fisica degli agenti disturbanti il sistema, o sailcazzo cosa.
In effetti, l’unica cosa importante al momento è che io faccia il mio lavoro: liberare il sistema dalla Piaga.
Faccio per addentrarmi, sospirando, sentendo per l’ennesima volta gli sguardi su di me. I soliti sguardi, un misto tra diffidenza, stizza, magari semplice curiosità. Sorrido, amareggiato. Magari una volta la sensazione mi avrebbe fatto sentire a disagio, ma dire che non ero ancora abituato a reazioni simili equivale a mentire. Ho imparato con l’esperienza che tutto è dovuto al mio Cappello. Un Cappello che mi conferisce lo stato di viaggiatore. Che "virtualmente" mi rende libero dalle rigide catene del sistema che invece ancorano così strettamente i suoi componenti.
Che, in definitiva, mi etichetta come un estraneo.
Ignoro gli sguardi, lascio semplicemente che mi scivolino addosso, mentre io scivolo lentamente verso il Centro, dove la comunità si riunisce, dove devo eseguire il mio compito.
Un compito che, a dirla tutta, non mi entusiasma, non mi attrae, non mi soddisfa... proprio per niente.
Ma, che mi piaccia o meno, non posso oppormi. Sono stato creato per questo. Artificiale, sintetico. E’ tutto…scritto nei miei geni.
Lascio il Cappello all’entrata, penetrando nel Centro, di nuovo a contatto con gli autoctoni. Solito loro entusiasmo, solita felicità che provano nel vedermi, solita speranza di riuscire finalmente a liberarsi da quella tremenda piaga che minaccia l’integrità stessa del sistema…
Faccio orecchie da mercante, non permetto alle loro parole di sciogliermi, di farmi sentire uno di loro. Qui dentro magari siamo tutti uguali, simili, compagni uniti dallo stesso obiettivo, privi delle differenze intrinseche che vi sono tra noi. Ma so già che non appena varcherò la soglia da cui sono entrato, non appena avrò reindossato il Cappello che avevo lasciato fuori… sentirò di nuovo quegli sguardi, che mi ricorderanno la semplice realtà: che sono un mostro.
Annoiato, arrivo alla mia postazione, cominciando ad adempiere al mio dovere: potenziare le difese, alla svelta.
Invio velocemente il progetto al Centro di Assemblaggio. Mi sembra già di vedere i loro sguardi meravigliati, interrogativi, chiedersi magari come sia nata l’idea per un progetto simile, come funzioni. Rido all’idea che, in fondo, non lo so nemmeno io! Dentro di me ci sono le informazioni, che meccanicamente, senza pensarci su troppo, trascrivo in quei progetti. Tutto automatico.
I progetti danno poi vita a particolari sistemi di riconoscimento, armi, pronte a riconoscere e dissolvere la minaccia a vista.
Già…la piaga.
Ricordo ancora perfettamente le parole della prima comunità che visitai…
“Sia ringraziato il cielo, sei arrivato! Ormai stavamo per perdere la speranza… ci erano arrivate notizie della terribile minaccia che fa tremare le fondamenta stesse del sistema. Notizie sconvolgenti.
Ci hanno riferito che è un mostro mutaforma, impossibile da riconoscere definitivamente al di fuori delle celle, e che con questo sistema è in grado di eludere le nostre difese, smettendo i panni che lo mimetizzano solo quando ormai è già riuscito a penetrare. Dicono anche che una volta entrato, inizi a sabotare il delicato funzionamento alla base del nostro equilibrio, monopolizzandone i sistemi più profondi per potersi moltiplicare, così da potersi espandere più velocemente. Dicono inoltre che predilige le celle come la nostra, preposte all’attivazione delle difese, e che il suo malefico influsso rende il Sistema vulnerabile…fino al suo inevitabile collasso, tra milioni di sofferenze e dolori. Eravamo tutti terrorizzati, rassegnati all’idea di vedere le sue mani stagliarsi sul sistema, rovinando tutto ciò che tocchino, ma il tuo arrivo finalmente ci ravviva la speranza. Al tuo occhio…lui non sfuggirà. Lui non riuscirà a nascondersi a te...”
… Perché io sono come lui. Forse peggio. Un mostro che combatte contro altri mostri… dove andremo a finire?
Esco dal centro, scuro in volto, con l’unico desiderio di andare fuori da quella maledetta cella, di evadere, di estraniarmi da quell’aborto della natura che ogni secondo dimostravo di essere, eliminando i miei stessi simili, conscio che non potevo oppormi... che il ciclo non avrebbe mai avuto fine.
Ed è assorto in quei pensieri che finalmente vedo qualcosa di nuovo.
Sarà stata la millesima comunità che visitavo, che potenziavo, che proteggevo, ma non ero mai riuscito a vedere da cosa li proteggessi per davvero.
Il profilo del Mostro che terrorizza il sistema stesso si staglia li, ora, di fronte a me, neutralizzato dalle macchine che IO avevo creato.
Rimango scioccato nel vederlo. Per quanto io sia un organismo geneticamente modificato, le differenze che corrono tra di noi sono… praticamente nulle. Perfino il Cappello… ha perfino lo stesso Cappello.
Ed eccolo li. Il senso di appartenenza che tanto avevo fuggito. Davanti a me ora c’è l’essere che più posso definire mio simile, che a poco a poco si dissolve, sotto l’azione delle mie creazioni.
Ma per quanto voglia salvarlo, liberarlo da quelle dannate armi di cui sono l’artefice… non riesco a muovermi. Rimango li, a guardarlo attonito, e per ogni pezzo che si dissolve come polvere al vento mi sento sempre più vicino al baratro.
Alla fine il suo sguardo si congiunge col mio. Rimaniamo qualche secondo fermi, a fissarci.
“Sei tu, allora…”
Poche parole, che mi fanno trasalire da quello stato di trance in cui ero caduto
“Mi avevano detto che uno di noi era stato manipolato, schiavizzato, trasformato in un’arma contro i suoi stessi simili… maledizione, se non ti vedessi non ci crederei… Ma guardati. Come ti fa sentire l’essere sfruttato in questo modo? Ho pena per te, fratello. Veramente, perché per quanto la mia vita stia giungendo al termine, per quanto magari l’accozzaglia che popola questo buco possa reputarmi un “mostro”… almeno sono libero. E tu… tu invece non puoi nemmeno decidere di salvarmi. Diavolo, io porto il caos in questo sistema del cazzo, lo scuoto nelle fondamenta, lo faccio collassare sui suoi stessi deboli pilastri, ma almeno sono coerente con me stesso. Se io sono un mostro, tu, che agisci contro la tua stessa volontà, asservito da questo branco di privilegiati che vedrà in te sempre e solo un’arma… Ti hanno snaturato, amico mio. Sei solo il loro cagnolino ormai. Che qualcuno abbia pietà di te…”
E puff… volatilizzato. Scomposto in piccoli pezzi. Giusto il tempo di chiarirmi ancora di più quanto io sia un abominio.
Sento le sue parole risuonarmi nella testa, come un eco… un ritratto perfetto della mia situazione.
E' questo ciò che sono diventato, un fratricida. Ho sentito così tante volte il suo nome essere pronunciato con un senso di disgusto, di terrore, che quasi mi ero convinto anche io che non fosse altro che un mostro.
La verità, ancora una volta, è che il mostro sono io. Già, perché per quanto lui potesse essere causa di distruzione, di caos, era fedele a ciò che era. E io, io che sono stato creato in laboratorio, che sono stato modificato per andare contro la mia stessa natura, contro tutto ciò che simboleggio… Per quanto le comunità mi possano osannare, sono IO il vero abominio. Il vero paradosso.
Il vero mostro.
Ora non sono altro che un simbolo di come la natura sia disillusa, piegata nelle mani di creature che giocano a fare le divinità solo per poter continuare la propria  partita con la vita, per poter dare ancora vigore all’illusione di poterla vincere.
E il risultato sono io. Un orrore, mascherato da trionfo. Trionfo per gli esseri umani, che ancora una volta si voltano verso le fondamenta stessa del sistema naturale, solo per riempirlo di sberleffi. Già immagino cosa starà facendo ora il mio creatore. Lo vedo già, porsi tronfio, davanti ai suoi simili---

Il dottor Kolher fu sommerso dagli applausi al termine della presentazione. Aveva investito anni in quella ricerca, si era sentito dare del pazzo, del visionario. Era andato avanti da solo, anche quando tutti sembravano averlo abbandonato. Quegli applausi scroscianti avevano quasi il sapore della rivincita. La sua intuizione geniale era stata finalmente riconosciuta, e ormai non rimaneva che raccoglierne i frutti. Sorrise compiaciuto, sentendosi quasi titubante a fermare quella folla che inneggiava al suo genio.
Alzò semplicemente una mano, e la sala stampa ammutolì.
Lo show era appena iniziato
“Vi ringrazio infinitamente per gli applausi, davvero, non è necessario. Volevo solo ultimare la presentazione. Come avete potuto vedere, l’idea, benché all’apparenza semplice, è incredibilmente efficace. Come sappiamo, una delle componenti che rendevano maggiormente ostica la protezione dal virus dell’HIV era l’incredibile variabilità degli antigeni presentati dal suo mantello lipoproteico. Per ovviare al problema, ho quindi deciso di concentrare i nostri sforzi unicamente contro le porzioni, meno variabili, presenti a livello del capside. Sorgeva tuttavia un problema: queste componenti erano accessibili solo all’interno della cellula. Per aggirare la difficoltà ho capito che l’unico modo era potenziare le difese interne della cellula stessa! Una volta formulata una particella di DNA che desse vita ad una proteina in grado fermare e distruggere la particella virulenta, sorgeva l’unico dilemma su come esportare la “cura” a tutte le cellule che ne necessitassero. In questo c’è venuto in aiuto il virus stesso. Ho, infatti, utilizzato le sue strutture esterne, opportunamente inoculate dal DNA, per poter, usando un termine improprio, “infettare” le cellule del soggetto con il DNA curativo. Un virus per combattere un virus, insomma. E, per quanto possa suonare come una pazzia, il sistema funziona! Posso, infatti, annunciare ufficialmente che oggi il virus responsabile dell’AIDS è stato finalmente sconfitto-“
Non riuscì a terminare la frase che una nuova ondata di applausi lo sommerse. Sorrise ancora, godendoseli tutti, per poi interrompere la folla ancora una volta.
“Un attimo ancora di attenzione, miei cari, e poi non vi tedierò oltre, ve lo prometto.”
La parte finale del discorso… e poi giù il sipario
“Dato il brillante successo del sistema creato, mi sono detto: perché limitarsi? Con l’aiuto delle migliori menti del globo, stiamo mettendo in atto un progetto su vasta scala avente un unico scopo: eradicare totalmente le particelle virulente responsabili delle patologie che tormentano la razza umana dalla faccia della terra. Già domani, infatti, con lo stesso metodo metteremo fine alle piaghe che da troppo tempo ci stanno schiacciando, così da poter finalmente dire addio alle epidemie. Dio magari ci avrà lasciato in balia della tempesta biologica…ma l’umanità, finalmente, sta per prendere saldamente in mano il timone! Vi ringrazio per l’attenzione”
Un piccolo inchino, ed ecco ancora le urla di acclamazione, il suono degli applausi.
Si girò, abbandonando il palco, accompagnato dal sottofondo della gente che, finalmente…invocava il suo nome.