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Il sangue mi cola copioso dall’orecchio, ma in questo momento non
sento neanche il dolore. L’unica cosa che ha importanza è il suo volto che
annuisce e i suoi denti, mostrati da un sorriso che va allargandosi, che paiono
splendere in mezzo alla penombra e alla sua scura figura.
Un rumore attutito mi giunge come da un luogo lontanissimo, mentre il
gorgoglio sempre più lento del sangue si spegne.
E, all’improvviso, un nuovo spettro di suoni mi si rivela: sento un
lieve ringhiare provenire dai cani neri.
Ma quello che mi colpisce, istantaneamente dopo, quasi con violenza, è l’insostenibile quantità di rumori
proveniente dallo sgabuzzino rimasto socchiuso: fragori, stridolii, versi di ogni genere.
Sbatto le palpebre più volte, distogliendo finalmente lo sguardo dal mio oscuro
muto interlocutore e osservando la porta socchiusa.
Un secondo dopo lo riporto sullo specchio e lui non c’è più.
Solo in quel momento mi accorgo di un altro fortissimo rumore, di
fondo , che aleggia nell’aria, come trasmesso da impianti stereo posizionati
nei muri: un suono ripetitivo e quasi ipnotico.
Lo ascolto per qualche istante in silenzio, guardandomi attorno,
sgomento per la scomparsa dell’uomo nero.
L’unica cosa che mi ricorda è il rumore insensato delle stazioni radio
vuote, ma più intenso e consistente.
Mi avvicino alla porta dello sgabuzzino e i rumori si fanno più voraci
ad ogni centimetro coperto.
Il cuore mi palpita furiosamente nel petto, ma non lo sento: sento
solo le forti vibrazioni che rimbombano nel mio sterno.
-
Chi c’è? –
Angoscia, ansia, orrore.
Non mi sento.
-
Chi sei? –
Nulla: percepisco le mie labbra muoversi, le mie corde vocali vibrare,
la mia lingua battere sul palato, ma quello che odo è solo un sottilissimo
fruscio misto al caos che ormai aleggia nei miei timpani rotti.
La mia mano, tremante e sudata, va sulla maniglia e per un attimo mi
scivola tra le dita, una spinta lieve per aprire la porta di qualche
millimetro. Basta quello per risvegliare qualunque cosa sia contenuta lì
dentro: i rumori si moltiplicano, si disperdono, tornano, si confondono con il
rumore di fondo, a tratti più forte.
Mi sento quasi mancare. Pensavo che la soluzione fosse sulla punta di
quel coltello e invece mi ritrovo più atterrito e sconvolto di prima.
Non ho il coraggio di aprire la porta.
Mi appoggio con le spalle al muro e mi lascio scivolare a terra, portandomi
le mani al volto, invischiandole con il sangue che ancora tarda a raggrumarsi.
Chiudo gli occhi e tutto ciò che percepisco è il chiasso più assoluto,
quell’insieme di onde sonore indefinibili che continuano a provenire da lì
dentro.
Poi, lentamente, istante dopo istante, il rumore di fondo prende il
sopravvento, inglobando tutto il resto.
Non so bene dire come né quando, non so nemmeno se sta succedendo, ma
sento i sensi abbandonarmi.
Sento le mani viscide trasformarsi anch’esse in qualcosa di liquido,
gli occhi insormontabilmente pesanti, l’olfatto e il gusto annullato. Solo quel
suono, incessante, ha spazio dentro me.
Forse è solo qualche istante, forse ore o giorni, ma c’è solo lui e io
non posso oppormi.
E poi, una vibrazione.
E un’altra.
Stavolta non dal mio petto, non dal mio cuore impazzito, ma dal muro.
Un terremoto?
No, è una vibrazione breve, che si ripete.
Mi concentro più che posso su questo nuovo elemento e riesco ad aprire
gli occhi, ad alzarmi appoggiandomi al muro con una mano.
Provo ad avvicinarmi alla fonte di questo tonfo che porta disturbo a
tutti quei rumori di disturbo nella mia testa e finisco di fronte a quella che
una volta era l’uscita di casa mia.
Adesso, ormai, per quello che mi riguarda, è solo un feticcio di
legno. Poggio un palmo della mano aperto sulla sua superficie e lo sento, forte
e chiaro.
E’ qualcuno che bussa.
L’uomo nero è tornato.
Dalila aveva bussato due o tre volte al suo portone. Poi si era
allontanata, aveva parlato con qualche vicino, ma nessuno di loro l’aveva visto
negli ultimi tempi.
Si era convinta fosse scomparso, partito.
Come nei telefilm, quando il protagonista decide che la sua vita è
troppo noiosa e insensata e allora molla tutto e parte per andare lontanissimo e
ricominciare una nuova esistenza.
Si decise ad andare via.
Poi le venne in mente una cosa: controllare nel box auto.
Scese ai piani sotterranei e andò a memoria a cercare quello giusto.
Lì dentro sembrava un labirinto con pavimento in asfalto, soffitti grigi e
intere pareti di avvolgibili gialle, ognuna con una finestrella minuscola e
alta per far prendere aria all’ambiente interno.
Dopo qualche minuto lo trovò, o almeno era quasi certa fosse quella.
Si sporse sulle punte più che poteva per guardare al suo interno.
E la macchina era lì.
A quel punto le opzioni erano due: o lui stava giocando a nascondino
per non vederla oppure era morto in casa.
Non fece in tempo a concludere questi pensieri che si ritrovò a
correre a perdifiato, giungendo nuovamente di fronte al portone.
Iniziò a tempestarlo di pugni, urlando:
-
LORENZO! Lo so che sei lì dentro, aprimi! Che
cazzo stai facendo?! –
Il cuore le batteva all’impazzata, era arrabbiata, no, era
assurdamente preoccupata. Morto per un incidente, morto suicida, morto, ferito,
morente, non rispondeva.
-
LORENZO!!! –
Ai pugni si succedono calci
fino a diventare una vera lotta a corpo a corpo, qualche vicino si affaccia,
qualcuno si avvicina, prova a fermarla.
-
LORENZO APRI QUESTA FOTTUTA PORTA! –
Voci indistinte alle sue spalle, “oh, litigi tra giovani”, “chissà
cosa gli ha fatto”, “e se stesse male?”.
Si accascia in lacrime, la sollevano, la allontanano.
Una mano sulla spalla: mi volto di scatto e il volto dell’uomo d’ombra
è ad un soffio dal mio.
Non mi ero accorto portasse una maschera che gli copre il volto fin
sotto il naso, dalle fessure degli occhi si intravedono delle pupille enormi e
scure.
E’ totalmente vestito di nero, indossa persino i guanti: l’unica cosa
che riesco a vedere è la sua bocca, sorridente, accomodante.
Sono confuso, intontito dal dolore e dal rumore di fondo incessante,
ma la mia rabbia per quell’assurda situazione finalmente straripa e mi volto di
scatto, afferrandolo per le spalle:
-
CHI CAZZO SEI? –
Parole che urlo, ma che non sento.
L’uomo nero non sembra scomporsi, né provare fastidio per la mia
stretta sulle sue spalle, mi sorride e mi appoggia una mano sulla testa.
Mi accorgo di avere il fiatone.
-
Il cervello ha sempre bisogno di qualcosa da
ascoltare. –
Le sue parole sono nella mia testa e nelle sue labbra in qualcosa d’indefinibile:
come un film doppiato male, leggo i movimenti della sua bocca, ma i suoni
risuonano nelle mie orecchie, misteriosamente, sfalsati, eppure comprensibili.
Mi soffermo qualche istante, semplicemente stupito da questo effetto,
e poi lo incalzo, con più calma:
-
Perché sei qui? Perché mi fai questo? –
Allontano le mani dalle sue spalle e lui lascia scivolare la mano
lungo una mia guancia, prima di spostarla definitivamente e tornare serio in
volto.
-
Nessuno può vivere nel silenzio. –
Inarco le sopracciglia, m’incazzo e urlo ancora:
-
Sei tu che mi hai portato al silenzio! Per avere
delle risposte che non mi stai dando! –
Lui incrocia le braccia sul petto, appare divertito:
-
Ascolta: odi silenzio? –
Ascolto. Come se non sapessi già quello che posso udire.
-
No. –
Rispondo, provo a stare al suo gioco.
-
Sei vivo? –
Una domanda a cui dovrebbe essere semplice rispondere, ma la risposta
mi muore in gola. Poi però proseguo:
-
Sì, certo. –
Ostentando sicurezza che non ho, che non posso avere in un momento
come questo.
-
Cambiamo domanda: come ti vedi? Mezzo vivo o mezzo
morto? –
Il primo istinto è quello di tirargli un cazzotto sulla sua maschera
nera, poi decido di calmarmi definitivamente e di assecondarlo.
-
Se dovessi decidere, mezzo vivo. –
Lui si stringe, inspiegabilmente, nelle spalle, poi continua:
-
I morti vivono nel silenzio anche in mezzo al
caos. Loro non hanno più orecchie per sentire, né occhi per vedere, né gusto o
olfatto per assaporare, né mani per fare. –
Inizio a pensare
che sia uno scherzo: sono in piedi, nella mia cucina, con i timpani forati,
ricoperto di sangue e questo che sembra essere il mio rapitore mi parla di
banalità.
Poi delineo la
situazione: non è un pagliaccio, è uno di quegli psicopatici serial killer.
Mi si gela il
sangue nelle vene: perché io?
-
Perché io? Ho fatto qualcosa che non dovrei? Ho
fatto del male a te o a qualcuno che conosci? Rientro semplicemente in una
categoria da te odiata? –
-
Odio! –
La sua
esclamazione riecheggia nella mia testa per qualche minuto, insieme al rumore
di fondo e al caos proveniente dallo sgabuzzino, che sembrano impazzire ad ogni
nuovo eco di quella parola.
Mi porto le mani
alle orecchie, inutilmente. Quando i poderosi suoni vanno attenuandosi, lo
incalzo:
-
Cosa c’è nel mio sgabuzzino? –
Lui sorride.
-
Cosa tieni nel tuo sgabuzzino? –
Ci penso. Non ho
mai utilizzato molto quella stanza, ma in linea di massima quello che ci tiene
ogni persona.
-
Oggetti che non mi servono per casa e le cose
che non vanno tenute in giro. –
Sorride ancora.
-
Anche io ci tengo le stesse cose. –
All’improvviso
sento delle vibrazioni incredibilmente forti provenire dal portone.
Hanno chiamato i
vigili del fuoco. Hanno dovuto provare più volte con molti mezzi prima di
riuscire a sfondare il suo maledetto portone blindato. Però c’era dell’altro:
mi hanno detto che sembrava incollato da qualcosa di molto forte.
La porta-feticcio
va in pezzi, mentre degli uomini vestiti di rosso fanno irruzione in casa mia.
-
No! –
E’ la prima cosa
che urlo istintivamente. Mi volto verso l’uomo d’ombra, ma lui è scomparso.
-
No! Devo sapere chi sei! –
Gli uomini si
avvicinano a me, seguiti da altri in camice bianco. Poi vedo Dalila: sta
piangendo.
Tutti mi parlano
attorno, ma io non li sento.
Si avvicinano a me
con delicatezza, ma io provo a scappare verso lo sgabuzzino.
-
Le cose che non uso più urlano alla mia anima,
alla mia testa! –
Mi trattengono,
strattono, corro, cado, sbatto con il capo contro il battiscopa, il rumore di
fondo si spegne all’improvviso, insieme alle urla dello sgabuzzino.
-
NO! Dove sei?! –
-
LORENZO! –
E’ Dalila, è la
voce di Dalila, mi chiama, la sento confusa, insieme a molte altre voci.
-
Lasciatemi! –
Sono tanti e sono
forti, mi portano via, fuori dalla mia casa blindata.
-
NO!!! –
Appena in strada
noto che c’è una piccola folla e, in fondo al marciapiede, un cane nero.
-
E’ LUI! –
Riesco a
divincolarmi, cado a terra a quattro zampe, quasi corro da quella posizione,
poi mi alzo e mi dirigo verso il cane che, istintivamente, mi ringhia contro.
Mi riafferrano, mi
portano su un furgone bianco.
Dalila piange.
E così Lorenzo è
impazzito.
In realtà i medici
mi hanno detto che potrebbe trattarsi di un forte esaurimento nervoso o di
depressione, che l’ha portato ad autolesionarsi forandosi un timpano.
Hanno trovato
tutte le uscite della sua casa bloccate da un collante, tutti i tubi del gas e
dell’acqua fuori uso, i fili elettrici scollegati; “un lavoro fatto bene”, mi
hanno detto, in modo che non potessero generare perdite o pericoli, ma
semplicemente che non funzionassero per portare energia e servizi in casa.
Ma la cosa più
inquietante era stato aprire lo sgabuzzino: era completamente vuoto e ricoperto
di disegni sulle pareti molto simili a graffiti preistorici, solo che erano tutti
neri e rappresentavano quelli che sembravano mostruosi animali, i più
riconoscibili erano dei grossi cani, gli altri restano degli scarabocchi con
occhi ed arti a caso.
La casa, comunque,
è stata rimessa totalmente a posto. I medici hanno detto che per lui è meglio
riabituarsi ad un ambiente familiare, a convivere con cautela con la
quotidianità, a riprendere le mansioni giornaliere, poco a poco.
Sono tornato a
casa dopo mesi passati in ospedale non tanto per le mie ferite fisiche quanto
per quelle psicologiche, o almeno così mi hanno detto i medici.
Io mi sento tranquillo,
anche se non posso dimenticare tutto ciò che ho visto e sentito. E forse va
bene così, che la mia mente mi abbia giocato questo brutto scherzo.
Dalila mi è
restata vicino e io la apprezzo molto per questo.
Sembra volermi
molto bene, non pensavo così tanto.
Siamo arrivati da
poco, abbiamo cenato, sorridendo, e visto un film in tranquillità. Adesso
dormiremo, finalmente, di nuovo insieme.
Nel buio non ho
paura. Ormai, dopo quei giorni, sinceramente non mi sento più spaventato da
nulla.
Dalila mi dorme accanto,
il suo respiro è così sottile e dolce.
Mi assopisco.
-
Il silenzio dell’anima ti ucciderà. Combattilo
finché hai orecchie, naso, gola, occhi e mani. Custodisci i doni della vita.
Abbi cura di te e di ciò a cui tieni. Poi il silenzio ti prenderà, infine, ma
ciò è inevitabile... –
La voce è apparsa
ridondante nella mia mente, chiara e impura allo stesso tempo; sembrava volesse
continuare a dire qualcosa, ma si è dissipata come nebbia non appena sono
saltato a sedere sul letto.
Istintivamente mi
volto verso Dalila, ma fortunatamente dorme ancora.
Mi alzo, esco
lentamente dalla stanza, vago per la casa alla ricerca di quella voce.
Non c’è, è
scomparsa.
Cosa voleva dirmi?
C’è solo una
stanza in cui non sono entrato ed è quella che non vorrei più varcare,
nonostante sia felice di essere tornato a casa mia.
Perciò lo devo
fare, devo affrontare questa paura, questa mia nevrosi che mi porta incubi così
consistenti.
Abbasso la
maniglia della porta dello sgabuzzino.
Entro e accendo la
luce.
La stanza è vuota,
le pareti e il soffitto bianco, il pavimento grigio.
Grigio e nero.
Al centro della
stanza, a terra, giace una maschera nera.
E’ impossibile
dimenticarla.
Mi abbasso,
chinandomi in avanti, sento i miei movimenti ovattati come quelli di un sogno,
perché forse è un sogno.
La raccolgo.
E non appena le
mie dita la toccano il mio cervello viene trapanato nuovamente dal penetrante
suono del rumore di fondo.
Stringo gli occhi,
ma stringo anche la mani attorno ad essa.
-
Non temo il rumore dell’anima. –
Queste parole si
figurano nella mia mente e poi lievi sulle mie labbra e poi sempre più ferme
nella mia voce, le ripeto per un tempo indefinito come un mantra.
Sollevo la
maschera. Provo il desiderio di indossarla.
Lentamente, con
torpore sacrale, l’avvicino al mio viso, chiudendo gli occhi.
E’ sulla mia
pelle.
Riapro gli occhi.
E’ buio.
Ma non mi spaventa
perché c’è qualcosa di più del buio in quel luogo, qualcosa che non avevo mai
davvero udito così denso, così reale: il silenzio.
Mi manca il fiato.
Non percepisco neppure il mio respiro o il battito del mio cuore. Non esiste
nessun suono, niente.
Poi però delle
parole prendono forma in un istante, come un lampo, e si materializzano sulla
mia lingua:
-
Per quanto imponente, basta un sussurro a
rompere il silenzio. –
Sorrido.
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Spero sia stata una degna conclusione.
Altrimenti, potete sempre inventare un nuovo finale voi! (=