Citazioni


sabato 29 giugno 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo V: Il rumore dell'anima

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Il sangue mi cola copioso dall’orecchio, ma in questo momento non sento neanche il dolore. L’unica cosa che ha importanza è il suo volto che annuisce e i suoi denti, mostrati da un sorriso che va allargandosi, che paiono splendere in mezzo alla penombra e alla sua scura figura.
Un rumore attutito mi giunge come da un luogo lontanissimo, mentre il gorgoglio sempre più lento del sangue si spegne.
E, all’improvviso, un nuovo spettro di suoni mi si rivela: sento un lieve ringhiare provenire dai cani neri.
Ma quello che mi colpisce, istantaneamente dopo, quasi con violenza,  è l’insostenibile quantità di rumori proveniente dallo sgabuzzino rimasto socchiuso:  fragori, stridolii, versi di ogni genere. Sbatto le palpebre più volte, distogliendo finalmente lo sguardo dal mio oscuro muto interlocutore e osservando la porta socchiusa.
Un secondo dopo lo riporto sullo specchio e lui non c’è più.
Solo in quel momento mi accorgo di un altro fortissimo rumore, di fondo , che aleggia nell’aria, come trasmesso da impianti stereo posizionati nei muri: un suono ripetitivo e quasi ipnotico.
Lo ascolto per qualche istante in silenzio, guardandomi attorno, sgomento per la scomparsa dell’uomo nero.
L’unica cosa che mi ricorda è il rumore insensato delle stazioni radio vuote, ma più intenso e consistente.
Mi avvicino alla porta dello sgabuzzino e i rumori si fanno più voraci ad ogni centimetro coperto.
Il cuore mi palpita furiosamente nel petto, ma non lo sento: sento solo le forti vibrazioni che rimbombano nel mio sterno.
-          Chi c’è? –
Angoscia, ansia, orrore.
Non mi sento.
-          Chi sei? –
Nulla: percepisco le mie labbra muoversi, le mie corde vocali vibrare, la mia lingua battere sul palato, ma quello che odo è solo un sottilissimo fruscio misto al caos che ormai aleggia nei miei timpani rotti.
La mia mano, tremante e sudata, va sulla maniglia e per un attimo mi scivola tra le dita, una spinta lieve per aprire la porta di qualche millimetro. Basta quello per risvegliare qualunque cosa sia contenuta lì dentro: i rumori si moltiplicano, si disperdono, tornano, si confondono con il rumore di fondo, a tratti più forte.

Mi sento quasi mancare. Pensavo che la soluzione fosse sulla punta di quel coltello e invece mi ritrovo più atterrito e sconvolto di prima.

Non ho il coraggio di aprire la porta.

Mi appoggio con le spalle al muro e mi lascio scivolare a terra, portandomi le mani al volto, invischiandole con il sangue che ancora tarda a raggrumarsi.
Chiudo gli occhi e tutto ciò che percepisco è il chiasso più assoluto, quell’insieme di onde sonore indefinibili che continuano a provenire da lì dentro.
Poi, lentamente, istante dopo istante, il rumore di fondo prende il sopravvento, inglobando tutto il resto.

Non so bene dire come né quando, non so nemmeno se sta succedendo, ma sento i sensi abbandonarmi.
Sento le mani viscide trasformarsi anch’esse in qualcosa di liquido, gli occhi insormontabilmente pesanti, l’olfatto e il gusto annullato. Solo quel suono, incessante, ha spazio dentro me.
Forse è solo qualche istante, forse ore o giorni, ma c’è solo lui e io non posso oppormi.

E poi, una vibrazione.
E un’altra.
Stavolta non dal mio petto, non dal mio cuore impazzito, ma dal muro.
Un terremoto?
No, è una vibrazione breve, che si ripete.

Mi concentro più che posso su questo nuovo elemento e riesco ad aprire gli occhi, ad alzarmi appoggiandomi al muro con una mano.
Provo ad avvicinarmi alla fonte di questo tonfo che porta disturbo a tutti quei rumori di disturbo nella mia testa e finisco di fronte a quella che una volta era l’uscita di casa mia.
Adesso, ormai, per quello che mi riguarda, è solo un feticcio di legno. Poggio un palmo della mano aperto sulla sua superficie e lo sento, forte e chiaro.
E’ qualcuno che bussa.

L’uomo nero è tornato.




Dalila aveva bussato due o tre volte al suo portone. Poi si era allontanata, aveva parlato con qualche vicino, ma nessuno di loro l’aveva visto negli ultimi tempi.
Si era convinta fosse scomparso, partito.
Come nei telefilm, quando il protagonista decide che la sua vita è troppo noiosa e insensata e allora molla tutto e parte per andare lontanissimo e ricominciare una nuova esistenza.

Si decise ad andare via.
Poi le venne in mente una cosa: controllare nel box auto.
Scese ai piani sotterranei e andò a memoria a cercare quello giusto. Lì dentro sembrava un labirinto con pavimento in asfalto, soffitti grigi e intere pareti di avvolgibili gialle, ognuna con una finestrella minuscola e alta per far prendere aria all’ambiente interno.

Dopo qualche minuto lo trovò, o almeno era quasi certa fosse quella. Si sporse sulle punte più che poteva per guardare al suo interno.

E la macchina era lì.

A quel punto le opzioni erano due: o lui stava giocando a nascondino per non vederla oppure era morto in casa.
Non fece in tempo a concludere questi pensieri che si ritrovò a correre a perdifiato, giungendo nuovamente di fronte al portone.
Iniziò a tempestarlo di pugni, urlando:
-          LORENZO! Lo so che sei lì dentro, aprimi! Che cazzo stai facendo?! –
Il cuore le batteva all’impazzata, era arrabbiata, no, era assurdamente preoccupata. Morto per un incidente, morto suicida, morto, ferito, morente, non rispondeva.
-          LORENZO!!! –
Ai  pugni si succedono calci fino a diventare una vera lotta a corpo a corpo, qualche vicino si affaccia, qualcuno si avvicina, prova a fermarla.
-          LORENZO APRI QUESTA FOTTUTA PORTA! –
Voci indistinte alle sue spalle, “oh, litigi tra giovani”, “chissà cosa gli ha fatto”, “e se stesse male?”.
Si accascia in lacrime, la sollevano, la allontanano.



Una mano sulla spalla: mi volto di scatto e il volto dell’uomo d’ombra è ad un soffio dal mio.
Non mi ero accorto portasse una maschera che gli copre il volto fin sotto il naso, dalle fessure degli occhi si intravedono delle pupille enormi e scure.
E’ totalmente vestito di nero, indossa persino i guanti: l’unica cosa che riesco a vedere è la sua bocca, sorridente, accomodante.
Sono confuso, intontito dal dolore e dal rumore di fondo incessante, ma la mia rabbia per quell’assurda situazione finalmente straripa e mi volto di scatto, afferrandolo per le spalle:
-          CHI CAZZO SEI? –
Parole che urlo, ma che non sento.
L’uomo nero non sembra scomporsi, né provare fastidio per la mia stretta sulle sue spalle, mi sorride e mi appoggia una mano sulla testa.
Mi accorgo di avere il fiatone.

-          Il cervello ha sempre bisogno di qualcosa da ascoltare. –
Le sue parole sono nella mia testa e nelle sue labbra in qualcosa d’indefinibile: come un film doppiato male, leggo i movimenti della sua bocca, ma i suoni risuonano nelle mie orecchie, misteriosamente, sfalsati, eppure comprensibili.
Mi soffermo qualche istante, semplicemente stupito da questo effetto, e poi lo incalzo, con più calma:
-          Perché sei qui? Perché mi fai questo? –
Allontano le mani dalle sue spalle e lui lascia scivolare la mano lungo una mia guancia, prima di spostarla definitivamente e tornare serio in volto.
-          Nessuno può vivere nel silenzio. –
Inarco le sopracciglia, m’incazzo e urlo ancora:
-          Sei tu che mi hai portato al silenzio! Per avere delle risposte che non mi stai dando! –
Lui incrocia le braccia sul petto, appare divertito:
-          Ascolta: odi silenzio? –
Ascolto. Come se non sapessi già quello che posso udire.
-          No. –
Rispondo, provo a stare al suo gioco.
-          Sei vivo? –
Una domanda a cui dovrebbe essere semplice rispondere, ma la risposta mi muore in gola. Poi però proseguo:
-          Sì, certo. –
Ostentando sicurezza che non ho, che non posso avere in un momento come questo.
-          Cambiamo domanda: come ti vedi? Mezzo vivo o mezzo morto? –
Il primo istinto è quello di tirargli un cazzotto sulla sua maschera nera, poi decido di calmarmi definitivamente e di assecondarlo.
-          Se dovessi decidere, mezzo vivo. –
Lui si stringe, inspiegabilmente, nelle spalle, poi continua:
-          I morti vivono nel silenzio anche in mezzo al caos. Loro non hanno più orecchie per sentire, né occhi per vedere, né gusto o olfatto per assaporare, né mani per fare. –
Inizio a pensare che sia uno scherzo: sono in piedi, nella mia cucina, con i timpani forati, ricoperto di sangue e questo che sembra essere il mio rapitore mi parla di banalità.
Poi delineo la situazione: non è un pagliaccio, è uno di quegli psicopatici serial killer.
Mi si gela il sangue nelle vene: perché io?
-          Perché io? Ho fatto qualcosa che non dovrei? Ho fatto del male a te o a qualcuno che conosci? Rientro semplicemente in una categoria da te odiata? –
-          Odio! –
La sua esclamazione riecheggia nella mia testa per qualche minuto, insieme al rumore di fondo e al caos proveniente dallo sgabuzzino, che sembrano impazzire ad ogni nuovo eco di quella parola.
Mi porto le mani alle orecchie, inutilmente. Quando i poderosi suoni vanno attenuandosi, lo incalzo:
-          Cosa c’è nel mio sgabuzzino? –
Lui sorride.
-          Cosa tieni nel tuo sgabuzzino? –
Ci penso. Non ho mai utilizzato molto quella stanza, ma in linea di massima quello che ci tiene ogni persona.
-          Oggetti che non mi servono per casa e le cose che non vanno tenute in giro. –
Sorride ancora.
-          Anche io ci tengo le stesse cose. –

All’improvviso sento delle vibrazioni incredibilmente forti provenire dal portone.


Hanno chiamato i vigili del fuoco. Hanno dovuto provare più volte con molti mezzi prima di riuscire a sfondare il suo maledetto portone blindato. Però c’era dell’altro: mi hanno detto che sembrava incollato da qualcosa di molto forte.


La porta-feticcio va in pezzi, mentre degli uomini vestiti di rosso fanno irruzione in casa mia.
-          No! –
E’ la prima cosa che urlo istintivamente. Mi volto verso l’uomo d’ombra, ma lui è scomparso.
-          No! Devo sapere chi sei! –
Gli uomini si avvicinano a me, seguiti da altri in camice bianco. Poi vedo Dalila: sta piangendo.
Tutti mi parlano attorno, ma io non li sento.
Si avvicinano a me con delicatezza, ma io provo a scappare verso lo sgabuzzino.
-          Le cose che non uso più urlano alla mia anima, alla mia testa! –
Mi trattengono, strattono, corro, cado, sbatto con il capo contro il battiscopa, il rumore di fondo si spegne all’improvviso, insieme alle urla dello sgabuzzino.
-          NO! Dove sei?! –
-          LORENZO! –
E’ Dalila, è la voce di Dalila, mi chiama, la sento confusa, insieme a molte altre voci.
-          Lasciatemi! –
Sono tanti e sono forti, mi portano via, fuori dalla mia casa blindata.
-          NO!!! –
Appena in strada noto che c’è una piccola folla e, in fondo al marciapiede, un cane nero.
-          E’ LUI! –
Riesco a divincolarmi, cado a terra a quattro zampe, quasi corro da quella posizione, poi mi alzo e mi dirigo verso il cane che, istintivamente, mi ringhia contro.
Mi riafferrano, mi portano su un furgone bianco.

Dalila piange.

       
        E così Lorenzo è impazzito.
In realtà i medici mi hanno detto che potrebbe trattarsi di un forte esaurimento nervoso o di depressione, che l’ha portato ad autolesionarsi forandosi un timpano.
Hanno trovato tutte le uscite della sua casa bloccate da un collante, tutti i tubi del gas e dell’acqua fuori uso, i fili elettrici scollegati; “un lavoro fatto bene”, mi hanno detto, in modo che non potessero generare perdite o pericoli, ma semplicemente che non funzionassero per portare energia e servizi in casa.
Ma la cosa più inquietante era stato aprire lo sgabuzzino: era completamente vuoto e ricoperto di disegni sulle pareti molto simili a graffiti preistorici, solo che erano tutti neri e rappresentavano quelli che sembravano mostruosi animali, i più riconoscibili erano dei grossi cani, gli altri restano degli scarabocchi con occhi ed arti a caso.
La casa, comunque, è stata rimessa totalmente a posto. I medici hanno detto che per lui è meglio riabituarsi ad un ambiente familiare, a convivere con cautela con la quotidianità, a riprendere le mansioni giornaliere, poco a poco.


Sono tornato a casa dopo mesi passati in ospedale non tanto per le mie ferite fisiche quanto per quelle psicologiche, o almeno così mi hanno detto i medici.
Io mi sento tranquillo, anche se non posso dimenticare tutto ciò che ho visto e sentito. E forse va bene così, che la mia mente mi abbia giocato questo brutto scherzo.
Dalila mi è restata vicino e io la apprezzo molto per questo.
Sembra volermi molto bene, non pensavo così tanto.
Siamo arrivati da poco, abbiamo cenato, sorridendo, e visto un film in tranquillità. Adesso dormiremo, finalmente, di nuovo insieme.

Nel buio non ho paura. Ormai, dopo quei giorni, sinceramente non mi sento più spaventato da nulla.
Dalila mi dorme accanto, il suo respiro è così sottile e dolce.
Mi assopisco.

-          Il silenzio dell’anima ti ucciderà. Combattilo finché hai orecchie, naso, gola, occhi e mani. Custodisci i doni della vita. Abbi cura di te e di ciò a cui tieni. Poi il silenzio ti prenderà, infine, ma ciò è inevitabile... –
La voce è apparsa ridondante nella mia mente, chiara e impura allo stesso tempo; sembrava volesse continuare a dire qualcosa, ma si è dissipata come nebbia non appena sono saltato a sedere sul letto.
Istintivamente mi volto verso Dalila, ma fortunatamente dorme ancora.
Mi alzo, esco lentamente dalla stanza, vago per la casa alla ricerca di quella voce.

Non c’è, è scomparsa.
Cosa voleva dirmi?
C’è solo una stanza in cui non sono entrato ed è quella che non vorrei più varcare, nonostante sia felice di essere tornato a casa mia.
Perciò lo devo fare, devo affrontare questa paura, questa mia nevrosi che mi porta incubi così consistenti.

Abbasso la maniglia della porta dello sgabuzzino.
Entro e accendo la luce.
La stanza è vuota, le pareti e il soffitto bianco, il pavimento grigio.
Grigio e nero.

Al centro della stanza, a terra, giace una maschera nera.
E’ impossibile dimenticarla.

Mi abbasso, chinandomi in avanti, sento i miei movimenti ovattati come quelli di un sogno, perché forse è un sogno.
La raccolgo.
E non appena le mie dita la toccano il mio cervello viene trapanato nuovamente dal penetrante suono del rumore di fondo.
Stringo gli occhi, ma stringo anche la mani attorno ad essa.

-          Non temo il rumore dell’anima. –
Queste parole si figurano nella mia mente e poi lievi sulle mie labbra e poi sempre più ferme nella mia voce, le ripeto per un tempo indefinito come un mantra.

Sollevo la maschera. Provo il desiderio di indossarla.
Lentamente, con torpore sacrale, l’avvicino al mio viso, chiudendo gli occhi.
E’ sulla mia pelle.

Riapro gli occhi.
E’ buio.
Ma non mi spaventa perché c’è qualcosa di più del buio in quel luogo, qualcosa che non avevo mai davvero udito così denso, così reale: il silenzio.

Mi manca il fiato. Non percepisco neppure il mio respiro o il battito del mio cuore. Non esiste nessun suono, niente.

Poi però delle parole prendono forma in un istante, come un lampo, e si materializzano sulla mia lingua:
-          Per quanto imponente, basta un sussurro a rompere il silenzio. –

Sorrido.

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Spero sia stata una degna conclusione.
Altrimenti, potete sempre inventare un nuovo finale voi! (=


mercoledì 19 giugno 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo IV : Il suono del silenzio

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Resto immobile.
Rimango ancora qualche secondo a fissare quel riflesso che mi sembra così alieno.
Resto immobile, sperando che sia solo un flash, sperando che sia una semplice allucinazione che i miei occhi ancora poco abituati alla penombra cercano di regalarmi.
I secondi passano, ma il riflesso diviene semplicemente più chiaro. La visione si affina. I contorni diventano più nitidi, più reali, più...inequivocabili. Non ho interrotto la visione se non per i brevi, intermittenti battiti delle ciglia che provo a evitare più che posso, ma niente, non posso fare a meno di eseguire. Eccolo, che continua a stamparsi nella mia retina, il riflesso dell'essere che sembra perseguitarmi da quando l’incubo è incominciato.
Lo osservo con attenzione. Non una mossa, non una smorfia. L’uomo coi cani è fermo, immobile, il respiro…a stento riesco a percepire il movimento che fa nel respirare. Persino i cani non sembrano fare alcun cenno. La cosa, se possibile, rende la situazione ancora più inquietante. Come il silenzio che pervade la stanza.
 L’istinto mi spingerebbe a girarmi, a vederlo direttamente…ma non riesco a trovare il coraggio di distogliere lo sguardo. Sento come se un solo secondo potrebbe bastare a rompere quell’equilibrio così precario, così inquietante, ma che in ogni caso mi tiene…vivo.
“Chi s…”          
Le parole si fermano sulla punta della lingua, sostituita dai ricordi che vengono richiamati, incontrollati, dalle viscere della mia memoria. Deja-vù. Ho già provato a fargli domande, e so già quali saranno le sue risposte. Anzi, la sua risposta, unica: il silenzio. Sempre il silenzio.
La sensazione di nervosismo mi assale, chiuso come sono ora in quella specie di stallo. Mi sento sotto scacco, e con tutta l'impressione che sia uno scacco matto.
Devo riflettere, ci deve essere un modo per uscirne.
Pensa, dannazione, pensa! Osservo, preso dai pensieri , ma non trovo una soluzione. Mi sento perso.
E mentre lo guardo, sento il sudore scendere dietro la schiena. Ipnotizzato, osservo lo specchio, stampo nella mia memoria l’immagine che riflette. Ogni singolo dettaglio, ogni…
Raggelo. Di nuovo, nell’arco di pochi secondi. Osservo il mio volto, soffermandomi in particolare sulla mia guancia, dove c’è quel rivolo di sangue raggrumato che scendeva dal mio timpano lacerato. O almeno, dovrebbe esserci.
E invece nulla, il mio volto è pulito, non una goccia. Passo la mano incredulo, sentendone ancora il rilievo e la sensazione fastidiosa ad ogni minimo movimento. Passo la mano solo per rendermi conto che le nocche, in quell'immagine che quella lastra di vetro e piombo mi mostra, sono integre. Non un graffio, sane, nonostante abbiano raschiato con forza contro la parete. Osservo il dente, ormai mi manca la prova del nove, l'unico incidente che mi rimane da controllare. Ed eccolo lì, perfetto, riflettersi nella parete senza neanche l'ombra di un'incrinatura. Sembra addirittura pulito, nonostante non abbia avuto certo modo di pensare a lavarmeli. Niente, perfetto come non dovrebbe essere un dente che si è schiantato contro lo stipite di una porta, e che mi fa un male cane anche ora.
Eccomi lì, sano, senza neanche uno dei singoli infortuni che mi sono “autoinflitto” da quando sono chiuso in quest’inferno che chiamavo casa. Sano solo all’apparenza, visto che al tatto, nonché al dolore, permangono ancora tutti i danni che ho subito.
Quello specchio, per un determinato motivo che ancora non riesco a spiegarmi, mi mostra così. Così come mostra per la prima volta l’Uomo coi cani. Per un istante vengo sfiorato da un’idea. L’idea che tutto questo sia solo una suggestione. L’idea che sono ferito, e il dolore sta a testimoniarlo, anche se lo specchio mostra il contrario. E che quindi anche lui potrebbe essere un’illusione. Un’idea tanto bella, quanto insufficiente a vincere la mia paura, a portarmi finalmente a guardare da un'altra parte, magari a sfidare la sorte e rischiare di guardarlo in faccia.
Sfioro con la mano il riflesso del mio volto, per vedere se magari al suo passaggio appaia la mia vera immagine, come quando provo a pizzicarmi il volto per vedere se sogno, ma niente. Nessun rivolo, nessuna incrinatura, nessun lembo di pelle. In compenso...lui è ancora lì, immobile, come una statua.
Deve esserci un filo che unisca tutto, una spiegazione. Troppe cose strane stanno succedendo per credere che sia solo un caso. Devo solo trovarla. Anche ragionando per assurdo, DEVO trovarla.
Penso a tutti gli episodi che ho vissuto. I bicchieri che si frantumano, rendendomi in parte invalido. Gli accendini. Le bruciature ai polpastrelli, che ancora mi fanno bestemmiare. I passi.
I passi. Cazzo, ho sentito quei dannati cani proprio dopo i passi in quel maledetto sgabuzzino.
Quanti erano, 9? Dai pensa, magari ci può essere una correlazione, una di quelle cagate tipo Lost. Tanto, stranezza più stranezza meno…
Ricapitoliamo, sono in questa casa da tre settimane precise. 3 settimane sono 21 giorni, che è multiplo di tre.
Si, si, forse è così che funziona. Il filo, cazzo, il filo c'è.
Che altri numeri mi vengono in mente?
I battiti del cuore, certo! Sessantaquattro battiti, quando ero tranquillo. Ogni sessantaquattro battiti, bussava ogni sessantaquattro battiti! Non è multiplo, però…aspetta, ma un essere umano ogni minuto fa quanti battiti? Settantadue? Settantadue per ogni sessanta secondi, sessanta multiplo di tre, quindi ogni quanti secondi bussava alla porta? Sessanta diviso settantadue per sessantaquattro, cazzo fa girare i conti, nella matematica sei sempre stato bravo. Ecco, fa 53,3 periodico. Il tre, forse è il tre che è al centro di tutto. Forse ci sono, cazzo. Dai, mi serve la prova del nove. A che ora mi sono svegliato in questo Posto?
Magari mi sarò svegliato ad un orario multiplo o che ne so. Che ore erano? Dai, maledizione, ricordati.
E alla fine ricordo. Ricordo che la sveglia era spenta, come tutto in quella casa, e che non avevo modo di sapere che ore fossero. E che comunque i passi sono stati 17, poi 9, poi tutti numeri che non c’entrano niente l’uno con l’altro. E che quindi tutti quei cazzo di ragionamenti erano valsi solo a perdere il tempo e le facoltà mentali. E mi sento uno stupido, perché in fondo che cazzo di ragionamento volevo tirare fuori da quella storia del tre? Una di quelle cose da cristiani infoiati che cercano di trovare il trino in qualsiasi cosa nell'universo, adattando qualsiasi maledetto dato a disposizione per tutte quelle teorie del cazzo che non hanno nessun fondamento e soprattutto, come questa, NESSUNA UTILITA'.
Accantono l’idea, frustrato. Interrompo il flusso solo per sincerarmi attivamente che l'uomo non si sia mosso, quindi ritorno a rievocare i ricordi. Ricordo pugni sul muro, voci sentite a metà, le lacrime, la paura, il rumore dell’accendino, il falso coraggio, le rivelazioni inutili, la rabbia, il cellulare che muore tra le mie mani, le mani che bussano alla mia porta, il compattatore.
Niente, nulla illumina la mia fantasia. Niente, non c’è niente, niente di particolare…a parte i suoni.
E lì ricordo.
Lì ricordo il silenzio. Il silenzio della notte prima, quel silenzio così…vicino alla perfezione. Il silenzio interrotto dal suono del compattatore. Il silenzio che ha preceduto il risveglio in quel posto che non riesco più a definire casa. Il silenzio.
E il compattatore.
E le mani che bussano.
E il ringhiare dei cani, il cellulare che suona, l’accendino che clicca, la voce.
Tutto quanto…tutto quanto ha a che fare con il suono. Ho fatto vagare la mia mente a vuoto solo per ricordarmi che il ruolo centrale del suono già lo avevo notato. In fondo quell’uomo con cani a guinzaglio, che sembra perseguitarmi, cos’era prima di questa visione che mi ritrovo davanti se non un rumore, un suono?
Tutto è suono. Persino il mio primo incidente, se così possiamo chiamarlo, ha a che fare col suono.
Persino l’unica porta per il mondo esterno, persino quella mi si è rivelata tramite un suono. Una melodia, una vibrazione nell’aria, onde sonore provenienti da un cellulare che mi avvertiva. Mi avvertiva che Dalila e chissà chi altro chiedevano di me. Le persone di Fuori mi cercavano, senza avere la più pallida idea di ciò che sto vivendo. Mi cercavano, senza che sapessero che il mio cellulare era come scomparso, che io cercavo inutilmente di rispondere alla loro chiamata, mettendo a soqquadro l’intera stanza, facendomi guidare da un suono la cui sorgente nonostante i miei sforzi continuava a sfuggirmi.
Ed è stato LUI a trovarlo. Lui ha fatto in modo che lo trovassi. La porta per la Salvezza, una illusione che si è spenta con la batteria del mio cellulare.
Non può essere tutto un caso.
Per quanto assurdo, non riesco a credere che tutto sia una coincidenza. Cazzo, il silenzio è stato l’alba di quel giorno.
La mia mente viaggia a velocità inimmaginabili. Tutto sembra collegarsi, come un’enorme puzzle che aspetta solo che inserisca l’ultimo tassello. Le fughe rocambolesche da qualcosa che non sono riuscito a definire se non guardandolo nel riflesso di uno specchio e che ben presto si è rivelato essere ben lontano da una minaccia, sebbene si sia trovato in una situazione più che favorevole per farmi veramente del male; le rivelazioni che mi hanno colpito in quel caos in cui mi ritrovavano e che mi avevano improvvisamente reso conscio di quanto fosse vuota e, se così possiamo dire, inutilmente laboriosa la mia vita nel mondo esterno; il suono del cellulare, apparso solo dopo la lacerazione del timpano.
Ed effettivamente, nella lunga serie di accidenti che mi sono capitati, quello sembra essere la sorgente di tutto. Tutto è nato dopo che quel pezzo di vetro, rimbalzando come il più pazzo dei flipper, si è conficcato nel mio orecchio, lacerandomi il timpano. Rendendomi sordo a metà. E facendomi sentire.
Il suono dei cani, i passi che mi seguono, il cellulare, il suono della porta, persino la voce di quell’uomo. Tutti seguiti a quel “Caso”, quel segno del destino. Ma per quanto la rivelazione mi colpisca come un fulmine a ciel sereno, non riesco a liberarmi dalla sensazione che manchi ancora qualcosa.
Ricordo allora di quando sentivo la voce dell’uomo che rimango ancora a fissare, anche se distrattamente. Di come la sua voce mi risultasse troppo bassa, troppo fioca, come se lo ascoltassi in modo distratto, o focalizzando le mie orecchie nel modo sbagliato. Il tutto col mio orecchio fermamente premuto sul dorso di legno della porta che ci separava. L’orecchio integro.
Ma tutto questo… tutto questo non ha nulla a che fare col suono. E’ nel silenzio che tutto è nato, è nel silenzio che ho iniziato anche solo lontanamente ad avvertire la loro presenza. E’ quando una delle mie due orecchie era ormai destinata ad avvertire solo il silenzio che ho iniziato ad ascoltarli.
E solo lì capisco.
Capisco cosa devo fare.
Lo guardo, sorridendo, immergendomi nei suoi occhi. La paura andata via.
La mia mano raccoglie il coltello da terra, accarezzandone lentamente il manico lucente, metallico. Non si è mosso, nonostante abbia interrotto lo sguardo. E’ li, ad osservarmi, come se aspettasse che faccia quello che devo fare.
E allora alzo la lama, portandomela a livello del timpano ancora integro. Chiudo gli occhi, e sento con un unico movimento il coltello penetrare la membrana. Non un fremito, non un’ incertezza.
Il sangue cola, senza che lo specchio lo rifletta.
Il dolore è solo un sacrificio necessario perché io possa ascoltare veramente. Perché possa essere con lui nel silenzio.
E allora finalmente rompo gli indugi. Rompo il “silenzio”. Una sola domanda
“Ora mi risponderai?”
E a quel punto il suo volto si muove su e giù, annuendo, mentre un sorriso si apre su quel volto non più fermo.

Le ruote scorrevano sulla strada, sobbalzando sommessamente sulle granellature dell’asfalto.
Mentre stringeva il volante della sua Peugeot, non sapeva se essere animata da rabbia o da preoccupazione. Rabbia, come quella che provava per le decine di volte che ha provato inutilmente a chiamarlo, senza che si degnasse di darle una risposta. Il cellulare continuava a suonare finché non giungeva l’odiosa voce sintetica della segreteria telefonica, che coincideva in genere con una bestemmia da parte di lei. Preoccupazione, come quella che ha provato quando ha contattato i suoi amici, i suoi parenti, per sapere dove diavolo si fosse cacciato, e avere sempre la stessa risposta.
"Non lo so".
Preoccupazione e rabbia, come quella che ha provato quando rispondendo alla chiamata che finalmente si era degnato di farle, si era ritrovata a dialogare con il silenzio.
Nessun indizio su quello che poteva essere successo, nessuna spiegazione per quello strano comportamento che stava avendo. I film in testa, in compenso, erano milioni.
Tradimento, rapimenti, omicidio, fuga fuori città e chissà quante altre teorie astruse e senza alcun fondamento che le erano balzate in testa e che alla fine non l’avevano portata a nulla.
Per questo in quel momento si ritrovava sulla strada, diretta verso casa sua, l’ultimo posto che abbia avuto anche solo lontanamente sue notizie. In un modo o nell’altro, avrebbe avuto delle risposte.
Parcheggiò alla buona davanti al viale, scendendo dall’auto.
Notò subito che sembrava non esserci un’anima. Non una luce, né una qualsiasi fonte che le facesse pensare che quella casa fosse abitata. Alzò le spalle, perplessa…

E si incamminò per il viale.


venerdì 7 giugno 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo III : Anelito


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No. Mai. Non aprirò questa porta. Silenzio, attesa, il cuore in gola e i muscoli in fiamme, mi alzo in piedi e cerco di parlare con voce forte, decisa, non rotta dalla paura.
-Chi sei?
La mia voce mi sembra quella di un estraneo, non la sentivo da quando ho scoperto di essere solo in casa, è quella di un estraneo che mi parla solo nell’orecchio sinistro. È sempre stata così? Dalla porta non arriva alcun suono. Mi arrampico sui mobili che ho usato per bloccarla e avvicino l’orecchio sinistro alla porta, fino a sentire il legno freddo e liscio contro la guancia. Sento chiaramente una voce che sussurra, ma non riesco a distinguere nessuna parola. Un paio di volte mi sembra di sentire il mio nome, ma probabilmente è solo un’illusione. Mi schiarisco la voce, cercando di apparire sicuro:
-So che sei lì fuori! Cosa vuoi?
Nessuna risposta, solo silenzio e angoscia. Silenzio rotto solo dal mio respiro incerto e dal battito del mio cuore, sempre più insistente, più rumoroso, unica difesa contro il silenzio. Afferro un abat-jour e decido di aprire la porta, se devo morire sbranato da mostri, così sia, almeno li affronterò. Non intendo chiudermi in una prigione sempre più piccola. Non intendo morire di paura, non intendo morire di silenzio. Sicuro di me, inizio a disfare la mia rudimentale barricata. Sposto la prima sedia di pochi centimetri, e bussano ancora. Tremo, e capisco che non ce la posso fare, la paura è troppa, troppo densa, troppo pesante, e quel suono, quella bussata lenta, quattro colpi e nulla di più, mi scuote nel profondo. Ancora: toc, toc, toc, toc, silenzio. Spingo di nuovo la sedia, mi ci appoggio con tutto il mio peso, angosciato, spaventato, frustrato, e mi allontano a grandi passi, gli occhi pieni di lacrime di nervosismo. Cosa ha importanza ora? Dalila, che non posso più contattare? Le porte, che non posso più aprire? L’oggetto in cui inciampo, che al buio non posso più riconoscere? Il sapore del pavimento dove cado, quello è importante. Lecco il pavimento, lo abbraccio, perché almeno lui è lì e mi accoglie sempre, lui non è come le stanze che si allungano o come le porte che si bloccano o come le chiavi che girano da sole. Lui è lì, ha il sapore di pavimento e del mio sangue e di fallimento e di pazzia incombente. Mi rannicchio, non importa in che punto della stanza io sia, e ascolto il mio cuore. Ogni tanto battono ancora sulla porta, non importa più. Mi sto calmando, forse mi sto rassegnando alla prigionia, alla pazzia, al buio e al silenzio, il mio cuore finalmente inizia a rallentare. Bussano alla porta: toc, toc, toc, toc. Bussano ancora novantasette battiti di cuore dopo. E ottantacinque battiti dopo. E settantasette battiti dopo. E sessantaquattro battiti dopo, e poi il mio cuore si stabilizza e loro bussano ogni sessanta battiti. Il ritmo del mio cuore e della porta mi culla, non so se i miei occhi sono aperti o chiusi, lentamente scivolo nel sonno.

Quando apro gli occhi vedo la luce e capisco che è stato solo un sogno. Con le palpebre semichiuse, mi godo lo spiraglio di luce che bagna la mia vista, apro la bocca per far sì che la luce mi disseti, mi stropiccio gli occhi e li apro, e ciò che vedo è l’incontro tra il pavimento e il balcone, la persiana lievemente sollevata, quanto basta per capire che è mattina. Mi alzo e mi guardo intorno, sconvolto dall’incubo, che sembrava reale quanto la vita vera. Come sono arrivato a terra? Il letto è al suo posto, il materasso anche, riconosco nella penombra le sagome della sedia dei mobili dell’abat-jour, tutti al loro posto. Cammino e tocco, sollevato, mi accorgo di avere fame. Tantissima fame. Sorrido con me stesso, la porta è aperta e tutto è al suo posto. Vrr, vrr, vrr. Una luce nel buio. Il mio cellulare vibra tre volte prima dell’inizio della suoneria, e il cellulare è in bella vista sulla cassettiera dove lo lascio ogni sera. Appena lo afferro, smette di squillare. Era Dalila, ho diciotto chiamate perse. Le telefono, ansioso di sentire la sua voce. Uno squillo, due squilli, il suono di qualcuno che solleva la cornetta, il segnale della batteria scarica. Osservo il cellulare, buio come la mia casa, muto come la notte. Bisogna metterlo in carica. Ma prima, decido di alzare la persiana e ridere del mio incubo. Lo sforzo che faccio per cercare invano di alzarla rende più acuto il dolore all’orecchio sordo, al dente scheggiato, alla mano coperta di sangue.

Era tutto reale.
Hanno aperto la porta.
Hanno rimesso tutto a posto.
Sono entrati.
E non mi hanno fatto niente.

Mi abbandono contro il muro e scivolo a terra, forse dovrei smettere di oppormi, di fuggire, di tenerli lontani. Mi hanno dimostrato di poter entrare dove e quando vogliono, ma non mi hanno fatto nulla di male. Sono troppo dolorante per arrabbiarmi, troppo affamato per pensare lucidamente, troppo stanco, troppo in gabbia, senza cellulare, senza elettricità, senza nulla di ciò che componeva la mia vita. Magari, queste cose che vivono con me potrebbero essere la mia salvezza: mi hanno privato della vita monotona e frustrante che tutti finiscono per odiare. Non sono andato al lavoro: mi è forse dispiaciuto? Se non lavoro non potrò pagare le bollette, ma è rilevante ora che non ho più acqua né elettricità? E i rapporti interpersonali, mi dispiace non dovermene più curare? I vecchi amici con le loro insopportabili insistenze e invasioni dei miei spazi, la nonna e il suo Alzheimer che l’ha resa qualcos’altro che ormai è solo lo stesso involucro di carne che conteneva mia nonna, anche Dalila, che nonostante io stesso abiti qui da pochissimo già fa come fosse casa sua e vuole tenere le sue cose qui quando neanche io ci tengo ancora tutte le mie. Mi dispiace davvero abbandonare tutto?

Percorro lentamente lo spazio che mi separa dallo sgabuzzino, avanzando a tentoni e aiutandomi dagli scarsi raggi di luce che penetrano dalle finestre, forse sono fantasmi che vogliono portare anche me in una dimensione in cui non ci sono preoccupazioni. Apro la porta, forse accogliendoli a braccia aperte tutto questo finirà. Nello sgabuzzino è buio pesto e mentre cammino uno due tre passi penso a quanto è facile devastare la mente di un essere umano: bastano porte chiuse e rumori nella notte. Mentre cammino quattro cinque sei passi rifletto sul fatto che nessuno mi ha fatto del male: io ho spaccato il bicchiere perdendo l’uso di un orecchio, io ho corso fino ad urtare la porta, io mi sono arrabbiato e ho preso a pugni la parete. E loro, loro cosa sono? Loro sono solo rumori. Mentre cammino sette otto nove passi ricordo che loro sono solo rumore di risate e passi e ringhi alle mie spalle, rumore di colpi contro la porta e di chiavi che girano, rumore di sussurri e di bussate: toc, toc, toc, toc. La mia mano tocca la parete, allora mi volto e torno indietro. Chissà se sarei ancora spaventato se prendessi un coltello dalla cucina, uno di quelli lunghi sottili e affilati e mi bucassi anche l’altro timpano. Finito il rumore, finita la paura: tornerò a sentire il silenzio della mia anima, il silenzio più profondo che io abbia mai sentito, perché non ci saranno più nemmeno le impercettibili onde sonore prodotte dal battito del mio cuore o dal respiro più leggero. Hanno nove otto sette sei passi per venire da me, devono farlo ora e se non lo faranno andrò in cucina e prenderò il coltello e renderò eterno il silenzio che sento. Cinque quattro tre due uno zero passi e sono fuori dallo sgabuzzino e non so se essere sollevato o meno. Un minuto dopo sono con la faccia immersa nello specchio del corridoio, ma la luce è troppo fioca per distinguere qualcosa che non siano il contorno e le sporgenze del mio volto, e la cucina sullo sfondo, un quadrato di muro alla fine del corridoio vagamente più chiaro del resto dello sfondo. Mi concentro sulla mia mano e sul coltello che impugna e che si avvicina lento e inesorabile al mio timpano, unica difesa contro il silenzio. Chiudo gli occhi per una frazione di secondo, e quando li riapro il sangue mi si gela nelle vene. I peli mi si rizzano, la mano si blocca e il coltello cade a terra.


I miei occhi immobili sono fissi sul riflesso del muro della cucina, sulla sagoma immobile di una persona con due cani al guinzaglio.

lunedì 3 giugno 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo II: Il silenzio dei sensi


(link per il Capitolo I)
(link per il Capitolo III)
 (link per il Capitolo IV)
(link per il Capitolo V)


Camera da letto, buio, notte. Il sangue che mi sta colando dall'orecchio inizia a farsi più freddo e scuro, lo sento raggrumarsi sulla mia guancia, il che significa che devono essere passate almeno due ore buone da quando sono entrato nella stanza, alla ricerca compulsiva ma senza risultati del mio cellulare. 
Priorità: cosa mi è successo. Il compattatore, il silenzio prima del caos, dei problemi, il silenzio prima dei mostri. Il bar me lo ricordo, le birre anche, le sigarette lo stesso, perchè ormai posso contare solamente su di loro, sia per rilassarmi sia per fare un poco di luce. Sono immerso nel buio più totale ed incondizionato, e ho tre sigarette e un accendino, trovate in maniera quasi casuale quando, nella ricerca disperata del mio cellulare, sono andato a sbattere contro la sedia che ho nella camera da letto, dove sono solito ammucchiare i vestiti usati in giornata. Nella foga ho rovesciato tutto per terra, rivoltato le tasche dei jeans, aperto cassetti, gridato bestemmie. Il pacchetto morbido è saltato fuori senza che me ne accorgessi, e l'ho trovato semplicemente perchè ci ho messo il piede sopra, mentre decidevo di lasciare la stanza. Un involucro di plastica rumorosa con un nocciolo duro, all'interno. Lo tengo in mano, mi da sicurezza. Accendo un'altra sigaretta per calmare i nervi, per fare in modo che il fumo e quella minuscola scintilla color oro rosso sia un contatto, seppure labile, con la realtà. Curioso come la tua casa di colpo possa diventare così angosciante, così estranea perfino a te stesso, quando è immersa nel buio più totale.
Due sigarette, un accendino.
Cammino in mutande, orientandomi coi sensi, con la memoria muscolare. La casa non la conosco da molto, solo tre settimane, e mai mi ci sono dovuto confrontare durante un blackout.
La definisco casa mia, ormai, perchè mi da la sensazione d'esserci nato, la sensazione di essergli sempre appartenuto. Richiamo alla mente le serate romantiche passate con Dalila, le cene al lume di candela, lo spogliarci frenetico e quasi automatico davanti al camino spento, fare l'amore sia di giorno che di notte, a qualsiasi ora, in qualsiasi posto. I ricordi mi intontiscono, rimango fermo nel salotto a pensare a tutto e a nulla, e un dolore come una puntura di ape mi coglie impreparato tra l'indice e il medio: la sigaretta è finita. Non mi metto problemi, la butto per terra, ma inizio ad andare nel panico: il puntino color oro rosso è sparito.
Devo muovermi velocemente. Si, le cene...le candele. Dalila teneva sempre delle candele a casa, candele bianche e rosse, candele profumate per ogni occasione, per meditare, per concentrarsi, candele per fare i bagni rilassanti, se solo sapessi dove le mette, maledizione, maledizione! Il sudore inizia di nuovo a colarmi dalle ascelle lungo i fianchi, lento, appiccicoso, inesorabile, come le cose che si muovono dentro questa casa, al buio. Ho troppa paura, non ce la faccio, non resisto: cammino in direzione dello sgabuzzino accendendo per pochi secondi l'accendino, memorizzando in flash di luce le stanze, le porte, la disposizione delle cose. Tutto mi danza nel cervello. I bastoncelli dei miei occhi mal sopportano questo gioco di acceso-spento, e devo sforzarmi doppiamente per riuscire a vedere qualcosa: tutta la vista notturna che ero riuscito ad accumulare svanisce in un click meccanico e in due secondi e mezzo di luce tenue. Ma arrivo alla porta dello sgabuzzino, la apro, mi ci chiudo dentro. Click meccanico, sigaretta, ampia boccata.
Una sigaretta, un accendino.
Lo sgabuzzino è forse l'unica parte della casa che ancora non avevo visto. Non ci ho mai cercato nulla perchè effettivamente non mi ha mai interessato. Sembra di stare dentro un..cosa? Click.
Una stanza grande. Allargo le mani come un cristo in croce, toccando delicatamente coi polpastrelli tutto ciò che posso, per darmi un senso di spazio. Sono dentro un..click. Una specie di corridoio, come se fossi dentro uno di quei magazzini delle prove che si vedono nei film polizieschi.
Uno, due, tre, quattro, cinque passi. L'alluminio mi gratta la pelle dei polpastrelli, restituendomi una sensazione di polvere, e cose messe in ordine. Mi porto le dita al naso, annuso: odore stantio, come se la stanza non venisse pulita da mesi. Sei, sette, otto, nove passi, click. Scatole. Alla mia destra, alla mia sinistra, scatole catalogate ovunque. E nessuna candela. Allungo il braccio sinistro, con la quale tengo in mano il pacchetto di sigarette e con le nocche tocco qualcosa di duro e ruvido:
la parete. Sono arrivato in fondo alla stanza? Dopo qualcosa come una decina o poco più di passi? Non va bene. Inizio di nuovo a sudare. E lo sento: un caldo fastidioso e persistente tra l'indice ed il dito medio, che morde e pizzica nell'incavo dei suddetti: ci sono ricascato di nuovo, la sigaretta è finita. E quando mi giro per tornare indietro, la stanza mi appare enorme.
Più sicuro di me stesso, stavolta, cammino decisamente più velocemente.
Uno e due e tre e quattro e cinque e sei e sette e otto e nove e click.
E la stanza non è ancora finita.
Dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici e diciassette e click. Buio, ovunque attorno a me, come liquido denso e vischioso, e ho come la sensazione che siano tornati, che mi stiano seguendo, che siano dietro di me, dio, ti prego, fa che non sia così, dio ti prego no e mentre lo penso li sento ridere, sento i brividi che mi scuotono la spina dorsale e i peli della nuca che diventano rigidi come aghi e i testicoli mi risalgono in gola e allora corro altri dieci altri venti altri trenta passi click corridoio nero altri tenta li sento sbavare e ringhiare dietro di me le scatole che cadono sono qua sono qua ancora pochi passi e mi prenderanno click corridoio click corridoio click corridoio corro lampo di luce bianca e accecante dolore come uno spiedo nei denti sono per terra a gattoni. Ho sbattuto contro la porta, lo realizzo immediatamente, mi lancio contro la maniglia con la foga di chi annega e si lancia su un pezzo di legno per stare a galla, la spalanco, esco strisciando, quasi, la sbatto con forza dietro di me. Il tonfo che pochi secondi dopo segue il mio gesto mi dice che la cosa, qualsiasi cosa, qualsiasi cose mi stessero seguendo hanno appena sbattuto contro il legno di ciliegio. Le sento raspare e dibattersi, a meno di cinque centimetri dalla mia schiena, e benedico la mia prontezza di spirito nell'aver immediatamente girato la chiave nella toppa, senza nemmeno pensarci troppo. Tremo d'un tremore senza precedenti.
Mi accendo l'ultima sigaretta.
Il fumo mi brucia gli occhi, e mi lascio andare ad un pianto disperato, sconfortante. Non ricordo più nulla, non so' perchè sta succedendo tutto questo, mi fa di nuovo male l'orecchio, e credo di essermi incrinato un dente sbattendo nella mia corsa disperata. Mi trascino di nuovo verso la stanza da letto: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e...nulla. Non c'è un click. Stavolta, in maniera più nervosa, riprovo: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e ancora nulla, sono davanti alla camera da letto, ma l'accendino ha smesso di funzionare. Non sento il caratteristico pfsss che dovrebbe fare se fosse carico di gas. E mentre realizzo ciò sento la chiave della porta dello sgabuzzino girarsi da sola. Urlo, entro nella camera , mi chiudo dentro, disfo il letto e lancio il materasso contro l'entrata, puntellandolo con il resto del letto e con la sedia e i mobili. E mentre lo faccio grido e bestemmio e piango e sfogo la mia rabbia così, tra una boccata di sigaretta e l'altra, prendo a pugni la parete, mi apro la pelle, perdo sangue. Ancora. Mi siedo per terra, con la schiena contro il muro, la testa incassata dentro le ginocchia, esattamente com'ero prima di tutto questo. La sigaretta mi avverte che sta per arrivare alla fine della sua vita, ma non la sento più: due ore fa la mia anima si era spenta, in un silenzio di incomprensione, adesso sono i miei sensi a spegnersi, gradualmente, divorati dal buio e dall'orrore strisciante e senza nome che mi tormenta. Ripenso a Dalila, e mi abbandono così, per quella che mi sembra un'eternità, e invece devo immediatamente tornare vigile, e immediatamente i brividi ed il sudore mi devastano mente e corpo:

bussano alla porta.