Mi sono sempre chiesta se gli acchiappasogni funzionassero davvero.
Di quelli che si vedono nei film, o sulle schiene perfette di ragazze bellissime, tatuati.
Dreamcatcher.
Ne ho sempre voluto uno, mi hanno sempre dato un senso di tranquillità, forse ne tatuerò anche io uno, anche se non ho la schiena perfetta e non sono bellissima.
Comprarne uno mi sembrava banale, inappropriato, non da me.
Un giorno ho preso dei fili di cotone, un cerchio di ferro e ho raccolto delle piume d'uccello in un campo.
Era estate, ero con una ragazza, la prima ragazza per cui ho davvero avuto una cotta. Era bella.
Era bella sotto il sole, con i capelli che splendevano di rosso, illuminati da quei raggi di fine luglio.
Mi ha aiutata a cercare le piume, le ho detto a cosa mi servivano e ha riso, i denti bianchi e perfetti incorniciati da labbra piene e sexy.
Ho pensato che fosse bellissima, ma non ho sorriso pensando a lei, né il mio cuore ha iniziato a battere forte quando mi ha accarezzata. Ho ripensato a quella notte in cui quelle labbra mi hanno baciata per l'ultima volta. Ma non ho tremato all'idea, non avrei voluto che succedesse di nuovo, e non mi rattristava l'idea che non ci fosse più stata l'occasione perché ciò accadesse. Più che altro il mio enorme orgoglio era ferito dal fatto che lei non volesse.
Ma sto divagando.
Stavo divagando, mentre, baciata dal sole, leggermente bagnata di sudore ma rinfrescata dal vento che spirava in quel prato, cercavo le mie piume.
Pensavo me ne sarebbero bastate tre, e camminavo in quel verde macchiato di giallo, con gli occhi incollati al suolo protetti dalla luce con un paio di occhiali da sole, per trovarle. Pensavo a quanto sarebbe stato bello il mio acchiappasogni, davvero bello per me dato che lo stavo costruendo io.
Tre piume. Tre piume ora ondeggiano sotto quell'anello di ferro incastrato in fili di cotone rosso verde e bianco. Non sono i miei colori preferiti, ma solo quelli che avevo a disposizione.
In fondo va bene così. Non posso chiedere di meglio.
E poi ora so che funzionano, gli acchiappasogni intendo.
D'estate le piume vengono mosse dal vento che entra dalla finestra aperta mentre dormo, e attirano nella rete colorata i miei sogni, i miei incubi, e la mattina sono lì, che mi aspettano. Li vedo dispiegarsi dinanzi ai miei occhi a fotogrammi. Il primo, poi l'ultimo, poi il terzo, infine riesco a mettere ordine nella mia testa e le scene si susseguono come mi si sono presentate durante la notte.
Certi sogni sono così reali che il mattino dopo le sensazioni le sento incise sulla mia pelle.
Certi sogni sono così reali che a volte penso sia quella la realtà nella quale mi sono addormentata per iniziare a sognare nel momento in cui apro gli occhi nel mio letto e vedo intorno a me un posto che non mi sembra il mio. Ci si può liberare dei sogni?
Ci si può liberare dei ricordi?
E se i sogni fossero ricordi?
Di quale vita?
Della nostra vita interiore alla quale abbiamo rinunciato nascendo. Un mondo parallelo dal quale ci siamo allontanati nel momento in cui siamo stati concepiti.
I ricordi ci perseguitano nella vita reale. Perché non potrebbero perseguitarci anche in una vita parallela? E chi dice che i ricordi delle due vite non possano mescolarsi, confondendoci, amandoci, odiandoci, illuminandoci, deprimendoci...guidandoci?
La mia vita è scritta nei miei sogni.
Io non sogno come le persone normali, non sempre almeno.
Le persone normali potrebbero interpretare i miei sogni, potrebbero riscontrarvi un qualche disturbo inventato da altre persone normali, ma io lo so che tutto va oltre questo.
Io lo so che i miei sogni sono la rivelazione di qualcosa che non posso controllare.
Vederla così è davvero triste. O forse è apprezzabile dato che potrei salvare la mia anima tenendomi lontana dalla vita dei miei sogni.
I miei sogni condannano la mia anima.
Forse ho già perso la mia anima.
Come? Perché? Quando?
L'ho deciso deliberatamente nel momento in cui ho deciso che non avere un'anima è molto più divertente che averne una che non fa altro che pensare, pensare, pensare...
Perché pensare quando si può agire contro istinto, o quando qualcun altro ha già deciso cosa devo fare? Quando qualcuno ha già deciso il modo in cui possa essere utile e divertirmi al tempo stesso. A volte ci si rende conto di non essersi mai svegliati dal sogno della propria vita.
A volte invece ci si rende conto di sognare la propria vita.
Altre volte ancora si vive in due vite parallele, segnate da un sottilissimo confine per cui è difficile stabilire dove inizia il sogno e dove finisce la realtà. E in fondo nessuno può dirlo. E in fondo è meglio così.
Quando le cose si mettono male a un certo punto basta aprire gli occhi...o chiuderli. E a un certo punto bisogna smetterla di farsi domande, a un certo punto bisogna vivere e sognare, sognare e vivere, senza aspettarsi spiegazioni o risposte, assaporando i sapori che si mescolano, le sensazioni che si fondono, i suoni che si confondono, le immagini che si sovrappongono, tutto come i colori su una tavolozza, un pasticcio di tonalità e sfumature, morbide, intense, chiare, scure, fino ad assumere la consapevolezza che di fatto niente ha un senso, e niente deve continuare ad averne, perché va bene così, l'ordine non serve. L'equilibrio più perfetto puó essere scorto nel caos più totale. E se per una volta può sembrare che la bilancia penda più da un lato e meno dall'altro, bisogna lasciare che le cose facciano il proprio corso. Se per una volta tutto sembra più insensato e surreale del solito, bisogna lasciare che tutto continui a scorrere, perché a un certo punto le cose acquisteranno ordine, le linee si dispiegheranno rette dinanzi ai nostri occhi, e tutto acquisterà senso e melodia.
Citazioni
giovedì 27 marzo 2014
giovedì 20 marzo 2014
Vincitore del concorso SeiAutori
Il concorso per il primo anniversario di questo blog volge al termine e finalmente abbiamo un vincitore:
Clocchina con il suo racconto "Il principe nero"!
La decisione, credeteci, non è stata facile, pertanto vorremmo ringraziare tutti i partecipanti e aggiungere due parole: non siamo professionisti, non siamo una casa editrice, il nostro giudizio non vale più del vostro.
Il nostro è solo un parere, siamo aspiranti scrittori esattamente come voi, e ognuno di noi, leggendo i vostri scritti, ha scelto il proprio vincitore a sentimento: solo tramite una scaletta dei voti è stata eletta Clocchina, che si prende le nostre più sentite congratulazioni, unite comunque a quelle per ognuno di voi, se non altro per il coraggio che avete dimostrato mettendovi in gioco in questo concorso di nicchia.
Clocchina con il suo racconto "Il principe nero"!
La decisione, credeteci, non è stata facile, pertanto vorremmo ringraziare tutti i partecipanti e aggiungere due parole: non siamo professionisti, non siamo una casa editrice, il nostro giudizio non vale più del vostro.
Il nostro è solo un parere, siamo aspiranti scrittori esattamente come voi, e ognuno di noi, leggendo i vostri scritti, ha scelto il proprio vincitore a sentimento: solo tramite una scaletta dei voti è stata eletta Clocchina, che si prende le nostre più sentite congratulazioni, unite comunque a quelle per ognuno di voi, se non altro per il coraggio che avete dimostrato mettendovi in gioco in questo concorso di nicchia.
Non è finita qui, però, perché ci siamo sentiti in dovere di assegnare un premio speciale per un altro scritto: stavolta una poesia. Il vincitore di questo secondo premio è Ishkan con "Vetrocristallo - Genesi"! I nostri complimenti per la sua opera che tutti potrete leggere a seguito del racconto.
Vi ricordiamo, inoltre, che chiunque di voi volesse un parere o un consiglio su ciò che ci ha inviato, può richiedercelo commentando questo post o contattandoci sulla nostra pagina Facebook!
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Grazie della partecipazione e buona lettura!!!
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venerdì 14 marzo 2014
Il vecchio con il sorriso ironico
A otto anni, il bambino con il bracciale di legno era
motivato da una forte curiosità. La madre gli aveva dato quel bracciale qualche
anno prima perché una qualche divinità lo proteggesse, e lui continuava a
portarlo. Dovunque andava, non faceva altro che guardarsi intorno e chiedere
spiegazioni, ai suoi genitori quando c’erano e altre volte agli sconosciuti.
Più di una volta i genitori lo avevano trovato al parco che parlava con un
senzatetto o un vecchio, chiedendogli perché esistevano il giorno e la notte, o
perché il mare era azzurro. A parte questo, era un bambino normale, andava
d’accordo con i suoi coetanei, accennava un timido interesse per le bambine, si
vergognava a portare gli occhiali e gli piacevano i cartoni animati. Non era un
bambino iperattivo ma semplicemente molto curioso.
A quattordici anni, il ragazzino con gli occhiali rettangolari
iniziò ad interessarsi di filosofia. Non di quella che cercavano di insegnargli
in classe, ma di quella che nasceva nella sua mente. Aveva abbandonato la religione
e smesso di portare il bracciale di legno, aveva abbandonato la curiosità
spicciola da bambino, quella relativa a nozioni che si imparano sui libri, e si
interrogava su altro. Amava chiedersi il perché delle cose, cercare una
ragione, si chiedeva quale fosse il miglior sistema di governo per una nazione,
quali fossero i principi alla base del bisogno umano di credere in una
religione, perché nonostante il conclamato primato della ragione sulla fisicità
la guerra continuasse ad esistere e le persone ad essere giudicate in base
all’aspetto fisico. Cercava di andare a fondo con ogni domanda che si poneva,
aveva una mente scattante e amava usarla. I genitori e gli insegnanti erano
così orgogliosi di quel ragazzo che continuava a voler sapere sempre di più,
almeno finchè le sue domande non iniziarono a trovare risposte. Qualunque
sistema di governo genera falle, le religioni servono a toglierci il fardello
di pensare con la nostra testa, il conclamato primato della ragione sulla
fisicità era una bugia. Tutto girava intorno ai soldi, che a loro volta
giravano intorno al potere. Gli sembrava di aver sintetizzato millenni di
storia in una semplice frase, e si sentì soddisfatto.
A vent’anni, il ragazzo con la barba folta si perdeva negli
occhi della ragazza che amava, e tutti i possibili governi, le religioni, le
guerre e i giudizi sparivano in quello sguardo. Aveva smesso di portare gli
occhiali rettangolari ed era passato alle lenti a contatto perché stava stretto
negli occhiali, non riuscivano a coprire tutto il suo campo visivo. Gli angoli
erano sempre sfocati, e lui voleva vedere sempre di più: il suo sguardo si
allargava, ma la sua mente si stava restringendo. Tutto ciò che gli interessava
in quel momento era negli occhi e nel cuore di quella ragazza. Si chiedeva cosa
fosse l’amore, perché sebbene sapesse che l’essere umano è portato per la
poligamia e che la definizione di amore esclusivo è un’invenzione della
società, non riusciva a non sentirlo in quel modo. Si chiedeva da cosa
scaturissero l’istinto di possesso, la gelosia, le paure che provava quando la
vedeva con altri. Per la prima volta, iniziò ad interrogarsi sul futuro
piuttosto che sul passato o sul presente, pensando al plurale piuttosto che al
singolare. Si chiedeva come si sarebbe evoluto il loro rapporto, e se sarebbero
riusciti a farlo durare. Voleva sapere come entrambi si sarebbero evoluti nel
tempo, e se fossero riusciti a restare insieme e ad affrontare tutte le prove
della vita. Cercava di rispondere a quelle domande con la massima logica, ma si
rendeva conto di essere schiavo di un ottimismo incontrollato che gli faceva
sembrare tutta la vita una passeggiata in discesa. Ogni volta che pensava al
futuro finiva ad immaginare due vecchietti con le dentiere sul comodino,
nipotini che chiedevano di raccontare ancora una volta la storia di come si
fossero conosciuti, giornate serene lontane dalle difficoltà della vita. Tutto
il suo interesse, tutta la sua curiosità, la sua intera vita, ruotavano intorno
a quella ragazza, si applicava con tutta la razionalità di cui era capace e
arrivava alla conclusione più irrazionale possibile: che loro due erano
diversi, che tutto sarebbe andato bene, che avrebbe potuto morire per lei, che
sarebbe morto se lei l’avesse lasciato, che solo la morte li avrebbe separati.
A venticinque anni, il vecchio con il sorriso ironico girava
per strada con un coltello in tasca. Non che ne avesse mai avuto bisogno, ma
amava girare da solo a tarda notte, e la prudenza non era mai troppa. Erano un
paio d’anni che si radeva con cura ogni giorno, da quando la storia che
razionalmente sembrava destinata a durare in eterno si era scontrata con
l’irrazionalità della vita e aveva deciso di cambiare look, per sembrare una
persona diversa rispetto al ragazzo con la barba folta, per smettere di essere
quella persona. Aveva perso ogni interesse nell’amore da quando la vita li
aveva separati. Per un paio d’anni non aveva fatto altro che abusare di alcol,
sigarette, a volte droghe. Aveva abusato della sua giovinezza fino ad esaurirla,
almeno dentro. Non si poneva più domande sul mondo intorno a sé, non si poneva
più domande sul significato delle cose, non si poneva più domande sull’amore.
Non si poneva più domande perché gli sembrava di aver trovato, con la fine di
quella storia, tutte le possibili risposte. Girava senza meta con il sorriso
ironico di chi ha capito come funziona il mondo, girava per locali e poi per
strada ogni notte, osservando ciò che gli accadeva intorno solo per trovare
conferme di ciò che già sapeva, tra vicoli bui e mattoni di pietra, guardando la strada bagnata su cui si riflettevano le insegne al neon dei locali nei quali succedevano cose che aveva già visto mille volte.
La sua giovinezza era morta con la sua
curiosità, era convinto di aver già visto tutto. Si muoveva per i locali e si
guardava intorno: uomini pieni di sé che si toccavano i pettorali per
assicurarsi che fossero bene in mostra sotto le maglie troppo leggere per il
clima, automi con gli occhi spenti che cantavano la stessa canzone inneggiante
alla gioia che non avevano dentro, che guardavano ragazze brutte dall’alto
verso il basso con sguardi apprezzanti come se fossero modelle solo per
rinforzare la certezza di essere stati in un posto pieno di belle donne e
potersi vantare con gli amici senza sembrare dubbiosi, che si incrociavano tra
una stanza e l’altra ognuno sperando che nella stanza da cui proveniva l’altro
ci fossero ragazze facili. Persone giovani dentro che andavano a ballare per
fare conquiste ma che non si sarebbero mai permessi di avvicinare una ragazza
nell’autobus che portava entrambi verso lo stesso locale dove sarebbero finiti
a pomiciare poche ore dopo, perché le conquiste non si fanno nell’autobus,
perché lo scopo stesso di andare in quel posto era fare conquiste, nell’autobus
nessuno lo avrebbe notato, la mattina dopo non ci sarebbero state foto su
internet di corpi che pomiciavano nel tentativo di fare respirazione bocca a
bocca all’anima dell’altro, conoscersi nell’autobus avrebbe reso inutile tutto
ciò che veniva dopo. Nel bagno degli uomini, tutti intenti a controllare che i
capelli fossero perfetti, come se qualcuno fosse mai stato rifiutato per un
capello fuori posto. Marcavano strette le ragazze ubriache e le ascoltavano
parlare mentre barcollavano, aspettando quel momento di silenzio adatto a
baciarle, e quando il momento sarebbe arrivato non le avrebbero baciate
raccontandosi qualche bugia, mantenevano bicchieri di birra ergendoli a scuse per
non socializzare, si ripetevano di essere troppo impegnati a reggere il
bicchiere per poter parlare con i loro simili. Tutto gli sembrava banale. La
sua mente si era spenta, la sua vita non era stata altro che una discesa verso
l’abisso della noia, della ripetitività, non si stupiva più, non lasciava che
nulla lo stupisse o lo interessasse. Tornò a casa e si tolse le scarpe. Erano
le sei, e la sua mente vorticava. Non capitava spesso, ma quelle poche volte
andava sempre a finire che si trovava pieno di speranze, ripetendosi che il
giorno dopo sarebbe cambiato tutto, che bastava sperarci e impegnarsi e la vita
lo avrebbe ricompensato con un nuovo inizio, che nessuno sarebbe mai entrato se
non permetteva a nessuno di avvicinarsi. Erano le giornate in cui usciva di
casa speranzoso e tornava deluso. Stava iniziando di nuovo a pensare.
Perché non lascio
avvicinare le persone?
Si era appena fatto una domanda, dopo anni. Poteva
rispondersi, riprendere a pensare, ritrovare se stesso e affrontare di nuovo la
vita, oppure poteva continuare a stordirsi e procrastinare fino al momento in
cui il bisogno di riflessione avrebbe rotto gli argini, con effetti devastanti.
Si sedette al tavolo. Poteva affrontare la situazione con forza o farsene
travolgere con debolezza. Avrebbe potuto riprendere a stupirsi e togliersi quel
sorriso ironico, come si era tolto il bracciale di legno, come si era tolto gli
occhiali rettangolari, come si era tolto la barba folta. Bastava restare seduto
e pensare.
Accese il pc, andò su un sito pornografico e si slacciò i
pantaloni.
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