Citazioni


domenica 28 aprile 2013

In loving memory of Andrea


Un regalo di addio a chi
addio non ho potuto dire.

Sabato 28 aprile 2012.
Ore 8.30
Io ero nell’ascensore della mia scuola, pazzescamente in ritardo e in ansia per il compito di latino che mi aspettava.
Avevo il respiro corto per la corsa che avevo fatto e la sensazione di portare il peso del mondo sulle spalle, stressata e stanca, pensando quanto in certi momenti odiassi la mia vita.
Quello era uno di quei momenti.
Io mi lamentavo, mentre tu, sull’asfalto, morivi.
Io non aspettavo altro che vedere quella giornata finire, mentre tu non avresti mai potuto vederla iniziare. Quella, come tutte le altre a seguire.
Io mi affannavo lottando contro il mio dizionario e quella versione senza senso che avevo davanti, mentre tu lottavi contro la morte.
Abbiamo perso entrambi. Ma la tua posta in gioco era molto più alta della mia.
Io chiudevo un attimo gli occhi per riposare la vista, mentre tu li chiudevi per sempre.
Quegli occhioni azzurri non si riapriranno mai più.
E solo ora mi rendo conto di quanto possa essere assurda la vita.
Il mondo continuerà a girare, il sole e la luna sorgeranno e tramonteranno ancora, la gente passeggerà ancora in riva al mare, il progresso non si fermerà, e le stagioni si succederanno incessanti. Ma tu, tu non saprai mai cosa si prova a vivere tutta la vita accanto ad una persona, ad amarla, a vederla crescere, e non farai mai quelle cose che forse avresti voluto fare ma che non hai avuto il tempo di fare.
Ricordo quando ci siamo conosciuti, circa 5 anni fa.
Il giorno dopo mi trascinarono da te per farci incontrare di nuovo, e io non ricordavo più neanche il tuo nome.
Non avrei mai potuto immaginare, quel giorno, che oggi sarei stata qui a scriverti parole che non leggerai, o ascolterai mai, piangendo ancora, ad un anno dalla tua scomparsa.
Era tanto tempo che non ci vedevamo o sentivamo, e probabilmente ora non so niente della persona che eri diventato, ma ricordo la persona che ho conosciuto. Ricordo la persona che era accanto a me a scrivere una data su un muretto, ricordo la persona che era accanto a me sotto la pioggia, sorridendo nonostante i miei primi sbagli, ricordo la persona che ha pianto per me e con me.
Ricordo una persona che non meritava di andarsene così.
No, certo, nessuno merita di andarsene come te.
Ma solo ora mi rendo conto di quanto questa cosa sia reale.
Non mi ero mai scontrata con la morte così violentemente, prima che il tuo filo fosse spezzato.
Le cose quando sembrano lontane le si prende sempre con leggerezza.
Sarò sincera, la tua scomparsa non ha cambiato niente nella mia vita, dato che non ne eri più parte, tutto ha continuato ad andare come prima, ho continuato a lamentarmi dei miei problemi e a sorridere per ciò che mi ha fatto stare bene, e continuerò a farlo.
Però ogni volta che penserò a te, sarò triste, e mi ricorderai sempre di dare più importanza a quelle piccole cose che possono in apparenza sembrare banali, ma che tu non vivrai, non proverai, non vedrai né assaporerai mai. E questo le rende tutt’altro che banali.
Le rende un dono.
Il dono che a te è stato strappato, e che io non sprecherò.

martedì 23 aprile 2013

Noia Mortale

La morte. Ecco, io di morire non ne avevo voglia, sinceramente. Già che la vita di una persona è tutto un rincorrersi di impegni, non so se mi spiego, poi se ci si mette di mezzo anche la morte allora ciao, stai fresco. Ti svegli la mattina e devi andare in bagno, e poi guardarti la faccia allo specchio, e poi la colazione, e poi la doccia, e poi il lavoro se vai al lavoro, la scuola se vai a scuola, la ricerca di un lavoro se lavoro non ne hai o se ti va bene passi la giornata a stare sulla poltrona a macinare idee sulla vita. E poi la domenica a pranzo dalla suocera, la birra al bar, il telegiornale, andare a votare, tenersi stretti gli amici. Impegni, tutti che si rincorrono, tutti che si mordono la coda giorno dopo giorno. Fatti la barba. Lavati i denti. Stirati le camice.
Io di morire non ne avevo voglia perchè i sogni mi arrivavano in ritardo, la notte, e riesco a bermeli solamente al mattino, pucciandoli dentro il caffellatte, e oltretutto ero costretto a sorbirmeli in tutta fretta, che poi c'avevo da macinare idee sulla vita, io, sulla poltrona. Teoricamente avevo anche gli impegni in ritardo, però c'erano. Mi occupavano il tempo come una specie di custodia immota, un involucro pigro e sfaccendato buttato li, afflosciato, sulle mie giornate. 
Sveglia la mattina all'ora che capitava, molto spesso verso mezzogiorno, e già dovevo stare li a sbattermi per mettere un piede dietro l'altro e deambulare verso il bagno. Una volta arrivato superare il trauma del dover muovere ulteriori muscoli per abbassarmi i pantaloni il tanto che bastava per fare quello che dovevo fare, tirarli nuovamente su, muovere ulteriori muscoli per ruotare il corpo verso il lavandino, lavarmi le mani. Anche oggi devo guardarmi allo specchio, che palle. Devo aggiustarmi la barba. Magari rifarmi pure le sopracciglia, magari eh. Lo so che state provando esattamente quello che provavo io, non negatelo. Vi suona familiare quella sensazione di giornata tediosa, vero? Quel grigiume che si accumula come una montagnetta di fango giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno, e dovete rimuoverlo, e anche quello è un impegno.
Ecco, io di morire non ne avevo voglia. Già che la vita ce l'avevo piena di impegni, come vi sto dicendo, adesso sono morto e che palle. Uno certe cose le mette in conto però, cavolo, ti aspetti che almeno un minimo di pianificazione ci sia. E invece passi tutta la vita con le occhiaie, a dare un senso ed un ordine e, cosa più importante, un perchè, e poi pam, ciao, il cervello si spegne, il cuore non batte, il coso li (qualunque cosa sia) che ti tiene in vita decide di abbandonarti e nulla, ti mettono dentro una cassa di legno, o ti bruciano, o magari bho, qualche zolla di terriccio fresco in faccia e te ne stai così. 
Avevo letto Stephen King, da vivo, e mi ricordo molto bene una sua definizione di questa condizione umana: un eterno time-out. Bhe vedi zio Stephen, non è che è proprio un time-out, perchè comunque anche il time-out è un impegno, non so se mi spiego.
Mi capite? Capiamoci: anche gli intervalli sono impegni, son cose che devi fare. E la morte idem, la morte devi farla, esattamente come tutte le cose che devi fare da vivo: alzarti, andare in bagno, guardarti allo specchio, la colazione, l'ambaradan della giornata, andare a trovare la fidanzata, decidere o no se berti il caffè dopo pranzo. Tutti gli impegni. E la morte non è da meno, solo che la morte rimane sempre la stessa, sei tipo in un blocco di cemento e non ne puoi uscire per l'eternità.
Cosa devo fare oggi? Il morto. Chissà domani. Ah già, giusto, devo continuare a fare il morto. Devo continuare a morire da morto, roba così. Almeno quando ero vivo se mi rompevo di fare una cosa c'era sempre quell'impegno che mi permetteva di fare altro, potevo dormire tutto il giorno, per esempio. 
Adesso no. E vista la mia attuale condizione è già tanto che sto scrivendo.

Effettivamente morire è una gran rottura di coglioni.



venerdì 19 aprile 2013

Face of Melinda


E cosa sono adesso?
Un uomo vuoto.
Un uomo solo.
Mi allontano da lei, dal profumo dei suoi capelli neri, dalla profondità del suo sguardo, lascio indietro la sua voce, il suo cuore, il suo corpo, ma sento scivolare via me stesso.
Posso vedere la figura di Melinda che mi guarda scappare via, lo sguardo spento, il volto triste e scavato dai solchi del dolore che le provoca rinunciare a questo amore, che lei cerca di nascondere con un sorriso amaro e falso…e posso vedere me stesso, dall’alto, che corro senza neanche la forza di piangere. Non ci sono espressioni sul mio volto, non ci sono sentimenti nel mio cuore, non ci sono emozioni in quest’involucro vuoto che ormai è solo carne.
Le immagini del nostro amore sepolto si sovrappongono alle immagini di ciò che sarà la mia vita senza di lei, di ciò che sarà la mia vita senza me stesso.
Il suo sorriso, amaro e falso…
Può ingannare se stessa, ma non può ingannare me, che ho smascherato il dolore nell’allegria fatiscente.
Donna amata, idealizzata e divinizzata, ma non è altro che una puttana di Dio su questa terra.
Adesso piango, adesso odio.
Ma non piango per lei né a lei il mio odio è destinato.
Piango per me, e il vuoto che mi ha lasciato dentro.


Non avrei voluto vederlo.
Perdermi nei suoi occhi alimenta la mia confusione, il mio personale scontro tra la mia testa e il mio cuore…
Una valanga di ricordi mi assale, non posso tralasciare il passato, non posso non pensare, nonostante non ci sia altra cosa che vorrei al mondo…vorrei spegnere il cervello, vorrei non avere un cuore, dei sentimenti, degli scrupoli…vorrei non avere ricordi.
Vorrei non avere ricordi mentre gli dico che ormai è tutto perso, che non posso continuare ad amarlo, non posso.
Mi è stata offerta una seconda scelta, un’alternativa.
Ho visto il mio futuro senza di lui, e so che starò bene.
Ho toccato la morte con il pensiero, ho guardato in faccia l’infelicità, poi all’improvviso il buio che avevo davanti si è diradato e ho capito.
Si arrabbierà, mi odierà, non capirà, soffrirà. Ma poi staremo bene, entrambi. Lo so, lo so che è così.
Immagino il vuoto comparire nel suo cuore, immagino quei sentimenti che ha a lungo desiderato, cercato e poi finalmente trovato, abbandonarlo completamente, forse per sempre.
Lo guardo negli occhi e sto male, e lo so, che non serve a niente mascherare la tristezza dietro un sorriso amaro e farlo, perché lui sa quanto sia fatiscente la mia allegria.
-Ho giurato i miei voti ad un altro- gli ho detto.
-Sono felice- gli ho detto.
Non potevo fare altrimenti, la mia vita inizia a trasformarsi un’enorme menzogna, e ho deciso di iniziare da lui. Una bugia per il suo odio. In fondo me lo sono meritato, sono stata tanto importante per lui, lo so, e ora merito il suo odio, perché l’odio è forza. Solo così avrei potuto liberarmi di lui, solo così avrà la forza di andare avanti.

La rivoglio.
Finché avrò fiato continuerò a cercare il modo di riaverla al mio fianco. Non posso, non posso permettere che vada via così. Solo io, perché solo l’amore, posso renderla felice, e ci riuscirò , fosse anche strapparle un ultimo sincero sorriso in punto di morte.
Non vado via amore, non resto a guardare le tue bugie, non resto a guardare il sorriso e le parole banali dietro le quali nascondi infiniti “ti amo” e lacrime acide.

Ti odio.
Ti odio perché tutto finisce qui.
Hai preferito lasciarmi andare piuttosto che lasciare andare quella parte di te che mi feriva.

Ti odio.
Ti odio perché tutto finisce qui.
Hai preferito lasciarmi andare piuttosto che imparare a capire e a trovare un compromesso con quella parte di me che ti feriva.

Addio.

Addio.

Una volta ho sentito dire che chi colora gli spazi all’interno delle lettere in momenti di distrazione è perché ha dentro un vuoto e il profondo desiderio di colmarlo.
Forse è davvero così, dopo tutti questi anni.
Sono solo una ragazzina, mi dicevo, passerà.
E invece sono ancora qui, a scarabocchiare gli spazi vuoti all’interno delle lettere, come facevo quando ancora provavo a farmi forza, a lasciar andare quel dolore, quell’uomo.
Facevo affidamento sull’odio che si era insinuato tra noi, senza rendermi conto che era solo un amore che non aveva il coraggio di respirare di nuovo.
L’odio all’inizio, il tempo col tempo.
Dopo il primo anno da quel giorno in cui vidi per l’ultima volta le sue spalle arrabbiate andare via iniziai a pregare che mi avesse dimenticata, solo così avrei potuto fare lo stesso.
Che stupida a credere di essere in grado di farlo.
Ora mi chiedo ancora come dorma la notte, e mi chiedo se ci sia qualcuno al suo fianco ad abbracciarlo quando i suoi sogni lo tormentano, appena sveglio per scacciare i mostri della notte, e prima di addormentarsi per scacciare quelli del giorno.

Guardo i suoi occhi.
Quanta dolcezza, quanto amore.
Adoro quei riflessi color miele che scorgo nella sua passione, e nella sua eccitazione.
Adoro il modo in cui mi guarda, la sua malizia, quella scintilla che ancora si accende quando la tocco, meccanicamente.
Quante volte avrei voluto guardarla davvero per quello che è senza vedere nel fondo delle sue pupille nere il riflesso di quelle di Melinda.
Giurai a me stesso che avrei fatto di tutto per riaverla e renderla felice come merita di essere. Giurai a me stesso che sarei stato in grado di farla sorridere ancora, come troppo tempo addietro avevo fatto.
Ho fallito.
Ho avuto un’altra donna, e ho fatto sorridere un altro volto.
E ho fallito.
Mi sento sporco, come chi ha peccato e rivolge sguardi pentiti verso il cielo chiedendo il perdono a Dio.
Tutti questi anni cercando di colmare il vuoto che avevo dentro senza mai riuscirci, senza mai smettere di pensare a Melinda neanche per un momento.
Per tanto tempo ho pensato a un modo per riaverla, ma le parole che mi disse durante quell’ultimo incontro mi tormentavano e insinuavano il dubbio nella mia testa. Forse aveva ragione, forse dovevo semplicemente lasciare che fosse felice senza di me. Forse davvero il suo futuro sarebbe stato migliore senza i miei incubi, le mie paure, i miei disturbi…senza di me.
Poi conobbi lei, Julia, quella che le somiglia così tanto, e iniziai a vivere la mia vita sperando che almeno Melinda sarebbe stata felice.
Ma ora mi chiedo ancora se sia riuscita a realizzare i suoi sogni, se abbia qualcuno al suo fianco che sia all’altezza della sua passione. Morirei se sapessi che quel suo sguardo è ormai spento e la sua vita piatta.
Chi sa, se mi sogna ancora.

Mi mancano le parole.
Mi manca il respiro.
Mi manchi tu.
Ti ho cercato a lungo, e quando ti ho trovato sono stata immensamente felice di scoprire che almeno tu sei riuscito ad andare avanti e ad avere la vita che volevi. Ho sempre creduto in te, sapevo che ce l’avresti fatta.
Avrei tanto voluto essere al tuo fianco, per condividere con te le gioie e i dolori che ti hanno portato ad essere dove sei.
Tu ce l’hai fatta, io no.
Sei stato per me l’inizio di una lunga serie di fallimenti. Ho distrutto la mia vita nel momento in cui ti ho lasciato andare. E ora sono sola. Completamente sola.
E soprattutto sono stanca. Sono stanca di combattere per sogni che non potrò condividere con nessuno. Non ho più niente da offrire a questo mondo da troppo tempo ormai.
Sembra assurdo, si, ma la mia vita finisce qui. E l’ultima cosa che volevo fare era farti sapere che non ho mai smesso di amarti, neanche per un momento. Non sai quante volte avrei voluto chiamarti, parlarti, cercare conforto mentre tutto intorno a me scoloriva e moriva. Chissà  se mi hai pensata, chissà se ti sei mai chiesto come me la stessi passando, chissà se hai per me domande alle quali non riceverai mai una risposta. Chissà, per quanto tempo mi hai odiata.
Scusa, scusa se te lo dico solo ora, che è troppo tardi, e scusa anche per il solo fatto di averti cercato, ma morire senza farti sapere tutto questo non avrebbe senso per me.
Addio, amore mio.
Tua per sempre, Melinda.

Leggo.
Leggo una seconda volta, e poi una terza, e anche una quarta.
Credo di non aver mai pianto tanto in vita mia, credo di non aver mai odiato tanto il mondo e la vita stessa in tutta la mia vita.
Non so quante ore sono rimasto a fissare quelle parole che a ogni rilettura perdevano sempre di più il loro senso.
Poi, lentamente, si è fatta strada una sensazione, nel grigiore in cui ero sprofondato per ore, o forse solo per qualche minuto…
Sono libero.
Respiro, sono libero, e ce l’ho fatta.
Io ce l’ho fatta, a sopravvivere a questo amore, e lei no.
Malato, mutilato, ma vivo.
Addio amore mio, per sempre.

Questa sarà l’ultima cosa che vedrò nella mia vita:
un muro di cemento e mattoni, illuminato dai fari della mia stessa macchina, sempre di più, man mano che mi ci avvicino ad alta velocità, e i miei occhi nello specchietto retrovisore, brillanti e pieni di vita per la prima volta dopo tanto tempo.
È buffo, no?
Sorrido.
Sono così coraggiosa quando si tratta di lasciare andare le cose, le persone…prima lui, tanti anni fa, poi la mia vita, adesso.




lunedì 15 aprile 2013

While your lips are still red

Silenzi a parte, scrutando il vuoto.
Esplosione di sole, calore, vita.
Profumi, splendidi colori, volteggi celestiali.

Io no, però.
Potrei, forse starei meglio, forse peggio, ma no. Resto qui.

Avrei voluto fare molte cose.


Ha prosciugato via tutta l'energia, tutto l'entusiasmo, tutta la forza.
Ne avevo, ma adesso?
Adesso mi restano le mie ossa, la mia pelle, i miei occhi spenti.

Non voglio ribellarmi a questa condizione, così sto bene.
Al riparo dalla gioia, dalla felicità.
L'allegria è passeggera, la serenità dura per sempre.
Se non permetto alle emozioni di farmi ondeggiare come un piccolo vascello in uno sconfinato mare, starò bene. Sto bene, mi ripeto, sto bene.

Non ho voglie, nè desideri, nè novità a sconquassarmi; non ho timori di affondare, di essere sconfitto, nessuno, niente, neanche un animale domestico di cui prendermi cura.
Non ho che me stesso, ma neanche lui ha bisogno di cure.

E' lì, su un letto, fissando una stanza troppo piena e una finestra che da su un mondo troppo vuoto.

Avrei potuto correre su una spiaggia, andare a passeggiare nei boschi, rilassarmi su un prato; avrei potuto prendere il sole e bagnarmi nella pioggia; avrei potuto conoscere molti luoghi, molte persone, molti animali o piante; avrei potuto apprendere mestieri e lingue, leggere su un aereo o su una nave, forse più probabilmente su un treno; avrei potuto guidare un automobile, una moto, una bicicletta. O andare su dei pattini a rotelle o su uno skate; avrei potuto diventare qualcuno d'importante, fare in modo che il mio nome fosse ricordato, nel bene o nel male, invece... E' l'oblio che mi attende.

Io morirò e nessuno saprà chi sono stato.

E' l'oblio in cui sono adesso che mi accompagnerà anche quando non sarò più.


Avrei potuto amare, coltivare amicizie, accudire i miei parenti; avrei potuto realizzare progetti, cogliere l'attimo... Cogliere l'attimo: salire su un treno in partenza verso luoghi sconosciuti, fermare una persona per strada solo per apprendere la sua storia, baciare le labbra di una sconosciuta per poi prendermi uno schiaffo.

Invece quel treno è partito, quella persona è andata via, quella sconosciuta è svanita.
E' svanita con le sue labbra piene e rosse, con il suo trucco forte, con i suoi vestiti strani, con il suo profumo dolce.
Mi è passata accanto e io l'ho guardata, ma lei non si è accorta di me.
Non si è accorta del mio cuore, della mia energia, del mio entusiasmo, della mia forza che l'hanno seguita, divenendo suoi, lasciandomi da solo.

Piangerei tutte le mie lacrime e pregherei tutti gli dei, farei in modo che il mondo si riavvolgesse, passerei tutti i miei giorni facendo supplizio e tutte le mie notti insonni... Solo per baciare quelle labbra.
Ma adesso sono svanite, da ore, giorni, anni, sono svanite, scolorite, assopite.

E io non ho più qualcosa che mi tiene legato a questo mondo.
Non ce l'ho mai più avuto, da quel momento, in cui è sfilata via, accanto a me.

Avrei potuto fare molte cose, ma non le ho fatte perché non avrebbero avuto senso.
Morirò e nessuno saprà chi sono stato.
Morirò e di me resterà soltanto una tomba con un nome come tanti, abbandonata e senza fiori, colori, parole.
Grigia, come sono ora le sue labbra.

Avrei dovuto essere coraggioso.
Ma invece sono nato timido e impaurito, sperduto in questo mondo, cieco di solitudine.
Là fuori mi spaventa.
Solo quelle labbra potevano salvarmi dal mio torpore, ma io le ho lasciate andare via.

Le ho lasciate andare via, come tutto il resto: come i miei sogni, come i miei progetti, come la mia vita.


Adesso sono solo, lì, in un letto e il mondo è divenuto troppo, troppo grande per me.
Sono nulla senza le sue labbra.
Merito di essere nulla, di morire nel nulla...
Senza le sue labbra rosse.












lunedì 8 aprile 2013

Velociraptor Zoo

A volte la parte più difficile è l’attesa.
Nella caccia ogni istante può essere fatale. Una folata di vento non calcolata potrebbe rendere il proprio odore percettibile. Un movimento non controllato potrebbe innervosire la preda. L’eccitazione di un secondo potrebbe compromettere la concentrazione. Persino l’ambiente potrebbe nascondere insidie che vanificherebbero i lunghi appostamenti fatti.
Per questo è importante essere pazienti.
Tutto passa per un attimo. Quell’attimo, l’attimo che fa la differenza tra il successo e il fallimento, la vita e la morte. Quell’attimo fuggente che il cacciatore deve saper calcolare… e sapersi propiziare.
Appostato, osservo l’animale. Lo guardo, mastodontico, spostare neve in cerca di germogli o qualsiasi cosa che possa sfamarlo.
Entra nella testa dell’animale! Analizza il suo campo visivo! Cosa vede? Mi vede? Pare di no…
Faccio qualche passo, mimetizzandomi tra le nevi. Scatto. Mi celo dietro cumuli particolarmente alti.
Ascolta, per tutti i fulmini, ascolta!
Non sento suoni particolari. E’ tranquillo, sembra non avermi notato. Prendo fiato… respiro a pieni polmoni, e sento l’aria pervadermi il torace, fredda, intensa. Mi focalizzo su questa sensazione. Asciugo il sudore, può solo essermi d’ostacolo…
Sento i rumori della ricerca cessare… forse ha scovato qualcosa…
Che fare...mi sporgo?
Devo rischiare.
Soffoco la tensione dentro di me e, lentamente, mi avvicino al margine. Controllo bene il terreno. Non devo scivolare.
Respiro.
Mi sporgo lentamente… quel poco che basta per vederlo con la coda dell’occhio. Sorrido. Mangia, la bestia. Goditi quel tesoro…
Devo muovermi, o perderò l’attimo! Rimango accovacciato, avvertendo la tensione nei muscoli. A piccoli passi inizio a muovermi, il peso sempre caricato sulle gambe…
Guardalo… ignaro della mia presenza, mentr…
Scaccio il pensiero con una pacca al volto. Devo essere paziente, tutto è ancora in discussione. Sento le dita stringersi attorno alla lancia. La stretta è forte, energica, così vigorosa da farmi quasi male.
Non devo farmelo scappare! La carne che ne ricaveremmo sarebbe un dono divino, per non parlare della pelle! Con questo freddo poi!
Già, il freddo… Non riesco quasi a ricordarmi più com’è il cal…
CONCENTRATI!
Eppure è così vicino… quanto sarà distante, venti passi? Trenta?
Devo pazientare.
Mi avvicino… trattengo il fiato.
Non un rumore. NON. Un. Rumore. Eccolo… sono vicino… ancora qualche passo…
L’eccitazione mi pervade. E’ li! Devo solo….
Inciampo, sentendo il contatto della neve sul volto. Un secondo… un secondo di fretta e il mio piede non ha trovato il giusto appiglio. E così sprofondo nel manto innevato. Come le mie speranze.
Con gli occhi come in fiamme mi divincolo, cercando di liberare la gamba da quella presa glaciale.
Il mio occhio cade sul mammut. Un istante di spavalderia mi ha fregato. Un istante di eccessiva sicurezza mi ha palesato. Un istante di superbia… mi ha condannato.
Tutto in fumo. Lo vedo girarsi verso di me. Barrisce, e alle mie orecchie è come se mi deridesse.
Riesco a liberarmi a stento, rimanendo chino. Afferro la lancia, analizzo la situazione. Lo vedo gonfiare il corpo, minaccioso, aggressivo, e tutto in lui sembra ispirare una forza insormontabile. E’ pronto alla carica.
Cosa posso fare? Fuggire? Sono ancora in tempo? …no… è di fronte a me, ormai non ho scampo.
Mi appello all’orgoglio. Urlo, cercando… sperando di scacciare la paura dal mio cuore. E inizio la carica.
La lancia stretta in pugno, copro la distanza che ci separa a grandi falcate. Il moto delle gambe è armonico… cerco di trasmettere tutta la forza possibile in quello che può essere il mio ultimo salto. Spicco il balzo.
Distendo il braccio.
Affondo.
Carne penetrata. Sangue.
Il mio.
Osservo sconvolto il corno che mi passa da parte a parte.
Mi sorprendo a trovarmi sorridere. Già…un attimo di impazienza ha fatto la differenza tra la vita e la morte, e così ha fatto. La mia. L’ultima lezione che imparerò, prima di raggiungere i miei avi…
Sento a stento il mio corpo volare e schiantarsi su un albero. Il dolore…non so più cosa sia.
La neve mi sommerge, nascondendomi alla luce. Nel buio, mi rilasso.
Sento la vita fuggire.
Chiudo gli occhi.

..
.
..
…Ma che… cos’è questa… mi sento intorpidito… come se…
Il mammut! E’ ancora li! Posso ancora…
Raggelo nel toccare terra. Cercavo a tentoni la lancia… e l’unica cosa che noto è quanto questo terreno sia… inusuale. Freddo. Liscio. Persino la consistenza è “innaturale”. Sembra pietra… ma lavorata… non era così pr…
Ma… sono vivo?! Non dovrei essere…
Tocco il punto in cui il mammut mi ha trafitto. Per quanto possa cercare, non trovo ne una cicatrice, ne una ferita marginale, ne una traccia di qualsiasi tipo. Persino i peli sono tornati “integri”.
E i vestiti? Che fine hanno fatto?! E perché non sento freddo?
Mi gira la testa… cerco a tentoni una superficie su cui appoggiarmi. Magari una rupe, magari l’albero su cui ricordo di essere stato scaraventato.
Mi ritrovo a stringere tra le mani una strana asta. Fredda, di un materiale più duro della pietra. Un materiale del tutto ignoto.
Mi sembra di impazzire… ed è lì che mi accorgo della mia situazione.
Sono in trappola. Chiuso qui, tra quattro muri di sbarre, prigioniero. E a quanto vedo non sono il solo. Lo sguardo corre sul mammut stesso, ma i detenuti sono tanti… bestie, che condividono lo stesso stato da detenuti.
Le grandi distese innevate falciate dal vento, le rade vegetazioni… sembra tutto così lontano ora. Qui… qui non c’è niente. Né una fronda, né uno specchio d’acqua… persino lo spazio manca!
Solo a quel punto metto a fuoco chi sono i miei carcerieri.
Li scorgo a stento con la coda dell’occhio, come se fossero apparsi dal nulla. Sobbalzo, ma mi ricompongo subito. Sono un guerriero. Un guerriero non mostra MAI la sua paura. Li osservo guardingo… e loro osservano me.
Umani. Almeno sembrano tali. Però… sono strani. Non sembrano una tribù di combattenti, esili come sono… e i peli! Non vedo neanche un pelo su quelle porzioni di pelle non coperte. Tutti vestiti dello stesso vestito, dello stesso strano materiale. Tutti uguali.
Sono… inquietanti. Non fanno un cenno, ma non mi staccano gli occhi di dosso. Occhi vitrei, senza emozioni, che continuano imperterriti ad osservarmi. Che siano curiosi? Cosa hanno da guardare? Non hanno mai visto un vero uomo?!
Mi infastidiscono. Mi irritano. Mi terrorizzano.
Distolgo lo sguardo. Ecco, lo abb… ma cos…
Noto uno strano recipiente nella gabbia.
Mi avvicino, odorando. Carne. Per cosa mi hanno preso, per una dannata BESTIA D’ALLEVAMENTO?! Sono un uomo, maledetti, un uomo!
Il mio orgoglio viene messo a tacere dal mio stomaco.
Sento le energie venire meno… sembra che non mangi da secoli! Tremante, afferro il cibo, sentendo la vergogna aumentare ad ogni morso. Inghiotto carne e bile.
Macchiare così l’onore di un guerriero…la pagherete cara, maledet…
Le mie imprecazioni si fermano al sentire versi familiari. Lancio lo sguardo verso la sorgente del suono e vedo cuccioli d’uomo osservarmi. Ridono, gli scriccioli. Risate vuote e piatte come le loro espressioni, ma indubbiamente risate. Di scherno.
Cuccioli che ancora puzzano di latte ridono di me. Ridono. Ridono. RIDONO.
Non ci vedo più. Il volto piegato in una maschera d’ira, mi lancio verso di loro. Al tocco delle sbarre…. ricado indietro. Urlo, sentendo un dolore disumano pervadermi. Il corpo inizia a scuotersi da solo, senza controllo. Mai ho provato un dolore simile.
Tremo. Urino. Ridono.
Sento le risate aumentare, e il mio ego morire. Iniziano a lanciarmi pietre. Le sento percuotermi il volto, il torace, il corpo…e non so se è per il dolore o per la vergogna che inizio a piangere…
...
...
Del mio orgoglio, del mio onore… nulla più è rimasto ormai.
Non ho coscienza del tempo che è passato da quando mi sono risvegliato in quell’inferno. Imprigionato come sono, persino la vista del cielo mi è preclusa, e la monotonia dei giorni aiuta ad alimentare quel senso di alienazione che mi pervade. Magari son passati mesi, se non addirittura anni. Già… il tempo sicuramente è passato, seppur privato di qualsiasi valore…
L’unica cosa che posso fare, chiuso in quel buco, è guardarmi attorno… e ormai quel posto l’ho esplorato attentamente. Con lo sguardo, si intende.
Spesso mi sono fermato ad osservare gli altri “detenuti”. Chiusi da sbarre, ingabbiati, vedo animali che una volta imperversavano su quelle lande che una volta mi erano così familiari. Spesso erano minacce, come quella maestosa tigre dai denti a sciabola, altre volte comode prede, se non fidi compagni. Altri animali invece… non li ho mai visti in vita mia. E nonostante i possibili contrasti che una volta ci legavano, ora ci accomuna un senso di empatia che mai mi sarei aspettato di provare… nemmeno per la gente del mio villaggio. Spesso rimango a guardare quel mammut, la prima cosa che i miei occhi hanno scorto quando si sono inaspettatamente riaperti. Magari è lo stesso che mi ha ucciso in quella battuta di caccia. Magari no. So solo che gli sguardi che ci scambiamo da dietro le sbarre mi tengono compagnia come poche cose… e pensare che magari è davvero il responsabile della mia morte!
Perché io sono morto. Quella sensazione è troppo viva nella mia testa perché possa pensare di negarla.
Come non posso negare di essere vivo ora. E vivendo li è nata in me l’idea di non essere l’unico ad aver dovuto sottostare a questo ciclo abominevole.
Già… questa è probabilmente l’altra cosa che accomuna noi “reclusi”. La provenienza
Quel capanno, li, al centro di questo inferno.
L’unica struttura un minimo differente in quell’oceano di gabbie tutte uguali, l’unica nota diversa nella squallore di quel posto.
Mi ritrovo spesso a lanciarci uno sguardo. Alto, imponente, grigio. Salta all’occhio il marchio disegnato sulla parete. Ci sono… strane lucertole. Bipedi, dall’aria aggressiva.
Quell’edificio spesso emette strane luci, intense, che più di una volta ci hanno fatto entrare nel panico. E ogni singola volta, dalle viscere di quel tripudio luminoso, un altro disgraziato veniva vomitato tra noi. Era impossibile non associare quei bagliori all’amara consapevolezza che un’altra vita veniva restituita da quei mostri con chissà quale stregoneria per lo stesso, solito motivo: farle perdere di significato.
E il ritmo con qui questi nuovi parti avvengono sta aumentando vertiginosamente negli ultimi tempi.
Vedo spesso i nostri carcerieri abbozzare un’aria soddisfatta su quelle maschere piatte che si ritrovano al posto del volto. Demoni che non sono altro, giocano. Giocano a dominare la natura. E sembrano fuori controllo.
Eppure, nonostante le differenze, sono pur sempre…
Le luci! Di nuovo?!
Mi appiattisco al suolo, atterrito. Quelle luci… mai le avevo viste così intense! E queste urla? Cos’è successo? Cos’è questo baccano?
Urlano. Urlano. Urla di disperazione. Forse qualcosa è andato storto, forse…
Mi ritrovo a sorridere vedendoli emergere dal capannone con la paura dipinta sul volto. La paura, nonostante tutto, la riescono a mostrare ancora.
Li guardo scappare, cercare di mettersi in salvo… e finalmente capisco da cosa.
Quelle lucertole! Le stesse del marchio. Ma quante sono…
Vive. Affamate. Decine.
Si riversano, portando con loro il terrore e il caos.
Rido. Rido pensando all’arroganza che li ha condannati. Forse sono andati a stuzzicare qualcosa di troppo grande per loro. Qualcosa fuori dalla loro portata. O forse… forse non hanno saputo aspettare.
Rido alla sola idea. E’ sempre difficile attendere eh? E ora guardali, i disgraziati. Giocavano a fare gli dei. Guardali invece ora come fuggono, guardali come si attaccano alle loro vite quando hanno disprezzato le nostre!
Fuggite, sciocchi! Fuggite, schiavisti! Finalmente raccogliete ciò che avete seminato!
Vedo il branco di “lucertole” spargersi, inseguirli, banchettare coi loro cadaveri. Li osservo euforico, assaporando una vendetta a cui non sto partecipando. Guardo ciò che è stato costruito da quei maledetti crollare al suolo, e quasi non mi accorgo che nella loro furia cieca i rettili si avventano tra le prigioni.
L’euforia lascia il posto al cieco terrore. Si avvicinano, travolgendo tutto. Sento la terra tremare al loro passo, le gabbie cedere alla loro pressione. Si avvicinano.
Cerco scampo nelle viscere della prigione, salto verso di esse, ma l’impatto di quelle forze della natura scuote le fondamenta stesse di quel posto.
Rovino a terra… e guardando in alto, vedo il soffitto iniziare a cedere.
Chiudo gli occhi.

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..
…li riapro ancora una volta.
La mia vista, annebbiata come i miei sensi.
Cerco di muovere le braccia… le gambe… nessuna risposta.
L’unica cosa che sento sono gocce scorrere dal naso. Sangue.
Non mi azzardo a guardare come il resto del corpo sia ridotto in questo momento.
Posso solo immaginare il fetore che emetto. Il fetore del sangue… il migliore richiamo per i predatori.
Predatore e preda… i ruoli si scambiano sempre.
Abbozzo un mezzo sorriso. Le immagini vanno e vengono. Intravedo una sagoma nera… immagino uno di quei rettili, attirato dalla carne fresca che aspetta solo di essere divorata.
Dovrei provare terrore, cercare di liberarmi, di raccogliere le energie, di salvarmi la vita.
Ma non provo nulla di tutto ciò. Quasi aspetto la fine.
La verità è che io sono già morto. Morto lì, impalato, agonizzante per un errore.
Lì, su quelle distese innevate che non riesco più neanche a sognare.
Nel silenzio che mi circonda,sento il rumore dei passi, prima appena percepibile, diventare più intenso, e la sagoma diventare sempre più grande, ogni istante.
Non sento ormai neanche più il sangue che mi ricopre.
Chiudo gli occhi, spero per l’ultima volta.
Sento l’alito del mostro sul mio volto, l’ultima sensazione, prima dell’oblio.
No, la vita che mi è stata restituita… non la desidero.
Non reagisco neanche più.

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