Citazioni


lunedì 28 gennaio 2013

How much is real?


Vi è mai capitato di temere che la realtà fosse finzione?


A volte tutto sembra talmente immobile, rarefatto che ho paura di vedere i bordi del mio campo visivo sfumare, come una foto con un filtro, come una ripresa sfocata.

Altre volte penso che da un momento all'altro compaia, così, dal nulla, qualcosa che so che non può essere vero: un essere fantastico, forse, qualcosa di eccessivamente colorato o strano, o semplicemente un oggetto che non era lì, qualcuno o qualche cosa che non possono essere dove si trovano.

Altre volte ancora, invece, temo di morire. Penso che ho ancora molte cose da fare, studiare, leggere, scrivere, vedere... E poi penso che potrei morire, anche senza un motivo ben preciso, da un momento all'altro. 
Morire e sparire definitivamente dalla faccia di questo mondo. Giovane e con voglia di vivere, muore. Paradossale, anche questo, però accade.

Allora perchè non potrebbe accadermi di vedere con i bordi sfumati? Di vedere qualcosa di inesistente? Qualcosa di magico, qualcosa di strano, qualcosa di fuori posto?

E poi mi chiedo: "e se fossi io fuori posto?" Se all'improvviso mi accorgessi, come qualcuno che dopo un'amnesia riacquisisce in un sol colpo tutti i propri ricordi, che il mio posto non è questo?
Che, a un certo punto, ho preso una botta in testa così forte da dimenticare chi sono, da dove vengo e vivere una vita non mia? "Sto vivendo una vita non mia?" mi chiedo, oppure "Se capissi che questa non sono io, che questo non è il mio mondo?", cosa potrei fare? Scappare, ma dove? Ma se mi tornassero alla mente tutti i ricordi, forse saprei dove andare. Però ormai sono affezionata a questa vita. E allora? Scappare o restare?

E, subito dopo, mi ricordo che ho dei genitori che mi hanno cresciuto, delle persone che mi sono vicine fin dalla nascita... Fa tutto parte di una congiura? Come in The Truman Show? Oppure no, forse no.
Allora è probabile che... Tutto sia falso.
Ecco, e se stessi immaginando tutto? Ci sono molte patologie mentali che ti fanno credere al 100% che quello che stai vivendo è vero, che tutte le persone che hai accanto sono vere, che la realtà è vera.
Poi, invece, un giorno ti svegli su una poltrona e stai parlando con uno psichiatra.
E scopri che hai immaginato tutto. Che vivevi solo dentro la tue mente, sempre.
Che sei finto, che hai sognato tutto.

O un sogno? E se fossi solo un sogno di qualcuno? Oh, questo sono sicura che qualcuno di voi l'abbia pensato almeno una volta!
Faccio spesso sogni sconnessi, con un inizio e una fine, certo, ma di cui non ricordo molte cose... E a volte sono sogni lunghi, molto lunghi. Se qualcuno stesso sognando una vita, la mia vita? Al suo risveglio non ricorderà molte cose, ovviamente, ma io morirò.
Oppure no? Come il sognatore del fuoco di Borges, lui non è poi morto quando ha scoperto di essere un sogno. Ha vissuto. 
Vivere con la consapevolezza di essere un sogno, di non avere una vita vera... Trovo che sia ancora più inquietante, più terrificante.

A volte penso perfino che potrei essere una storia raccontata, un libro scritto, un film visto, un videogame giocato... Come nel Tredicesimo piano. Poi, forse, questa ipotesi mi sembra troppo improbabile... Però il dubbio resta.

Ho paura, tantissima paura di quelle cose che potrebbero accadere, inspiegabilmente, e saprei, allora, che tutto ciò che vivo non è reale.
Non potrei spiegare meglio di così perchè... Riuscireste a immaginare l'inimmaginabile?
A volte ci provo.
Ad esempio, un giorno, camminando e guardando il cielo, potrei trovarvi nel bel mezzo dell'azzurro un'enorme piaga oscura... E le nuvole ci passerebbero sopra, entrando da un lato e sbucando dall'altro, stessa cosa le rondini o un aereo a reazione. La sua lunga coda fumosa e bianca traccerebbe come sempre una linea, ma con una spacca in mezzo, vuota. Un taglio gigantesco e insensato.

Insensato. Ho paura di trovare qualcosa di insensato... Cose che non erano mai state mie, scoperte nel cassetto del mio comodino; animali parlanti; gufi rosa shocking con gli occhi dorati; mammut camminare in città, tra le macchine... E nessuno se ne accorge, la vita sembra procedere normalmente.

E' follia? Forse sarebbe follia, sì, non un'esistenza finta scoperta.
Forse sarebbe più semplice accettare di avere visioni, di andare in manicomio e di imbottirmi di antidepressivi e calmanti, piuttosto che ammettere che la mia vita non è reale.

"E invece no, voi, tutti voi siete pazzi! Non io, io li ho visti tutti quegli strappi della realtà! Li ho visti e voi mi state solo mentendo, per costringermi a continuare a vivere questa vita finta, di prese in giro, di verità nascoste!" urlerei, ad un certo punto.
Farebbe molta scena e, di conseguenza, passerei il resto della mia vita con una camicia di forza, probabilmente.
Il resto della mia vita finta, s'intende.


Davvero non vi è mai capitato di temere che la realtà fosse finzione?

A me capita spesso, spessissimo.
Soprattutto quando sono felice.

Felice, ma inquieta. Sempre.








mercoledì 23 gennaio 2013

Regalo d'addio

Dedicato ad una leonessa.

Si dice che il 31 ottobre i morti tornino sulla terra.
Nulla di più falso.
Sarebbe troppo facile così, ti serve un permesso per tornare, bisogna aspettare la coda, bisogna che la commissione apposita valuti la tua richiesta, bisogna passare i test psicologici per provare che una volta lì non ti convincerai di essere ancora vivo. E hai a disposizione un solo ritorno per tutta l’eternità. Di solito lo usano tutti nei primi trenta anni dopo la morte, ma ho sentito di spiriti che hanno ne aspettati anche settanta. Alcuni spiriti non lo hanno mai usato, perché una volta che lo usi vieni messo in lista per la reincarnazione.
Ti cancellano la memoria, ma non le sensazioni, e poi ti buttano di nuovo sulla terra. Molti spiriti sono talmente attaccati ai propri ricordi che scelgono di non reincarnarsi, altri semplicemente si trovano meglio qui e decidono di non voler affrontare di nuovo le difficoltà della vita. Io, personalmente, devo andare ad un funerale. Poi mi reincarneranno, e anche se sarà difficile ricominciare tutto daccapo portando con me solo le sensazioni di questa vita, so che è giusto che vada così. È il momento che anche io abbia la mia seconda possibilità.

Il ritorno sulla terra, dopo dieci anni, è molto doloroso, fa male come se avessi tutte le ossa rotte. Particolare, dato che non ho un corpo e quindi non ho ossa. Sono invisibile e impalpabile, quello che si definisce un fantasma. Nonostante tutto sento dolore fisico, come se fossi stato buttato sotto da un autobus. Particolare, dato che è esattamente così che sono morto. Il mondo mi appare lievemente diverso da quando l’ho lasciato, i negozi sono cambiati, i sensi di marcia delle strade sono cambiati. E anche lei ha cambiato casa. Ho fatto richiesta alla commissione affari dei viventi per ottenere un dossier sul suo conto, per sapere chi è diventata, dove si è trasferita, cosa ha fatto dopo che io le ho voltato le spalle quella sera.
Tutto sommato è comodo non avere un corpo, puoi prendere la metropolitana senza pagare il biglietto. E mentre aspetto che il treno percorra le otto fermate che mi separano dalla casa dove lei abita ora, mi informo su come le è andata la vita. Nel dossier c’è scritto che è venuta al mio funerale, che ha pianto per me e che ha sofferto, che anche se l’ultima cosa che mi ha detto è che mi voleva fuori dalla sua vita, il modo in cui ne sono uscito è stato troppo drastico. Per fortuna, non mi ha visto morire. Né ha visto il mio cadavere prima del funerale, così non ha mai saputo che mi stavo strappando quel bracciale mentre attraversavo la strada. Quel bracciale, pegno d’amore comprato ad un festival di artigianato, a cui è legata la promessa di indossarlo finchè ci saremmo amati, era nella mia mano nel momento in cui me ne sono andato. Ed è nella mia mano ancora ora, mentre leggo il suo dossier. Per due anni non ha lasciato avvicinare nessuno, troppo turbata dal mio improvviso abbandono, forse turbata dall’idea che potessi averlo fatto di proposito. Non riuscirò a vivere se non mi perdoni. Questa frase che le ho detto pochi minuti prima di dirle addio, deve aver assunto una connotazione abbastanza ambigua nella sua mente. L’importante è che dopo quei due anni lei abbia finalmente lasciato entrare qualcuno nella sua vita. Il dossier mi dice che è una brava persona, che non l’ha fatta soffrire come ho fatto io, che non ha peccato di eccesso né di carenza di amore. Non le ha mai mentito, non ha accumulato peccati di cui farsi perdonare. Anche lei ha imparato dal nostro fallimento a non commettere quegli stupidi errori che si impilano fino a diventare una montagna insormontabile.

Ho rimpianti? A volontà. Rimpiango di non averle strappato un ultimo bacio e di essermene andato con le lacrime agli occhi, arrabbiato e fuori di senno. Rimpiango di non essere morto da ingegnere ma da studente pigro. Rimpiango di non aver detto addio alla mia famiglia. Il dossier dice che lei soffre per avermi negato quell’ultimo bacio, ma in fondo la vita va così. Spesso ci facciamo male senza neanche volerlo, e non sempre abbiamo la possibilità di rimediare ai nostri errori. Molti vivi credono che noi morti torniamo per rimettere a posto i torti, i rimpianti, i rimorsi o gli errori. Nulla di più falso. Torniamo quando ci va, quando c’è posto in fila, quando decidiamo che è il momento giusto.
Ed eccomi qui, sotto casa sua. Salgo le scale, attraverso la porta e sono in camera da letto. Luci soffuse, tende tirate e risate. Lei è lì, nuda, nel letto con il suo uomo, con la persona che merita. Ammetto di sentirmi un po’ triste, ma è giusto che sia andata avanti, non possiamo consumare la vita preoccupandoci di non ferire le persone a cui teniamo, perché prima o poi succederà in ogni caso. Ci vediamo domani, piccola, le dice lui. Anche io la chiamavo così. Quanto sappiamo essere banali noi umani.
Lei sorride. Quante volte ho desiderato di vedere quel sorriso rivolto a me, quando ero ancora in vita, ma a quanto pare una volta che hai perso qualcosa l’hai persa per sempre. Le cose non puoi recuperarle, puoi solo cercare di non perderle. Lui esce, lei rimane nel letto, io mi stendo al suo fianco. Lei si stringe nelle coperte, ha sempre freddo dopo aver fatto l’amore. Faccio come per abbracciarla, poggio delicatamente la mia mano impalpabile sulla sua spalla, le do un bacio sul collo. Guardo nel palmo della mia mano, il bracciale è ancora lì. E guardo il suo polso, completamente nudo. Il dossier mi ha detto dove è finito il suo bracciale. Mi alzo dal letto, lentamente, e in un paio di passi sono vicino alla cassettiera. Lì sopra c’è una foto di noi due, sorridenti, ai primi tempi. E davanti alla fotografia, poggiato sulla cassettiera, c’è il suo bracciale, insieme ad un piccolo animale di peluche che mi aveva regalato, e che ha ripreso dopo che sono diventato parte del paraurti di un autobus. Mi siedo di nuovo vicino a lei sul letto, e le ripeto le ultime cose che le ho detto. Vorrei solo che tu stessi bene, con o senza di me. Vorrei che tu riuscissi a perdonarmi, perché non ne posso più di soffrire per il male che ti ho fatto. Per il male che ci siamo fatti. Vorrei solo che esistesse la possibilità di andare avanti.
Lei dorme. Mormora il mio nome. È normale, è perché le mie parole interferiscono con le sue onde cerebrali. Dovrei smetterla, anche perché tra una settimana lei si sposa. E io sono venuto a farle gli auguri, a dirle che sono contento che la sua vita abbia preso una piega soddisfacente, e a celebrare un funerale.
Il funerale del mio ricordo.

È giusto che lei vada avanti.
Torno alla cassettiera e lascio che il bracciale prenda una forma solida nella mia mano (concessione straordinaria della commissione apparizioni) e lo poggio vicino al suo.
Sono due i permessi che ho ricevuto dalla commissione apparizioni: far solidificare il bracciale e poter toccare un oggetto. Un piccolo quadretto di legno con una foto di due ragazzi che sorridono.
Lo colpisco dietro, e lo guardo cadere a terra. Lei si alza di scatto e si veste. I suoi movimenti non sono cambiati di una virgola. Si avvicina lentamente alla fotografia e la raccoglie da terra. È un po’ perplessa, sta unendo i puntini nella sua mente. Mi ha sognato, ed è stata svegliata dalla nostra foto che inspiegabilmente cade a terra.
Sgrana gli occhi, quando vede il mio regalo d’addio. Lo raccoglie, lo osserva, trema, una lacrima spunta nell’angolo del suo occhio. Domani lei starà meglio, e sei giorni dopo io sarò solo memoria, anzi, meno che memoria. E mentre lei si sposerà, io saluterò i miei amici e mi reincarnerò.
E lei andrà avanti per la sua strada.
Io non posso, dato che la mia strada è finita sotto un autobus, ma potrò avere una strada nuova.

Tornando al punto dove sono morto, ripenso ai momenti felici che abbiamo passato insieme, ed è bellissimo, perché io sono solo mente e quella felicità mi pervade per intero. Non sento altro che il calore del suo primo abbraccio, ed è con quella sensazione addosso che mi stendo e chiudo gli occhi, per riaprirli nell’aldilà.

domenica 20 gennaio 2013

Tu che nome gli daresti?


Tu che nome gli daresti?

Era facile una volta, quando si fingeva...
Sai, quando da piccoli si fa finta che tutto è più semplice:
Facciamo finta che questo... Facciamo finta che quello...e altre cose così.
Tutto si risolveva in un attimo. Bastava volerlo, bastava crederci, e per magia eccoti nel posto in cui volevi essere. 
Eccoti che eri come volevi essere.
Sì, era magico, ricordi? Fa' finta che sia ed è subito così.
Ma adesso, oh adesso è tutta un'altra storia, non è mica semplice.
Gli adulti fan presto a dimenticare di fingere.
Gli adulti non sanno più chi sono, perché non fingono.
Gli adulti non si guardano più dentro.
Vanno avanti pensando di essere quello che dicono gli altri, convincendosi che è quello che sono.
Pensano di essere quello che vedono fuori ma non sono mica quello.
Io stesso a volte dimentico chi sono. E cerco di sembrare altro...
Ma se mi sforzo io mi vedo, da dentro intendo: Ed è proprio così che sono.

Vedi, adesso io potrei mostrarti chi sono dentro, ma, oddio quanta incoerenza troveresti in me.
C'è davvero tanta confusione che proprio non ti saprei spiegare. Non saprei dargli un nome.
Se solo potessi trovargli un nome, ma quale nome potrei dare a una cosa così incoerente, a una cosa che esiste ma è invisibile, che si nasconde o che finge di essere altro?
Ti dirò la verità, io non so ancora come chiamarla, se dargli un nome una volta per tutte, o inventarmene uno che non esiste, e fingere che non ci sia.
Dargli un nome... 
Io non so mica se è una lei, o è un lui.
Molte volte sento che non è né l'una né l'altra. Che non è niente. E mi sento un niente anche io.

Cosa dire allora?
Potrei dirti che è quella che quando vado in giro per strada e vedo una uguale a me, mi fingo di essere diversa da me; Potrei dirti che è quella che quando gli occhi di lei si posano timidi sui miei, non so più se esser triste o felice; Potrei dirti che è quella che quando quegli stessi occhi insistono, io cerco di allontanarli dal pensiero fissando altrove; Potrei dirti che è quella che se lei, con quelle labbra mi dicesse che sente qualcosa, io le direi che è una vita che sento di volerle dire lo stesso; Potrei dirti che è quella che se lei si muovesse furtivamente con quella sua pelle liscia, io proverei a toccargliela; Potrei dirti che è quella che quando quella pelle la vedo uguale muoversi su di me, vorrei strapparla via. E ancora potrei dirti, che è quella che sento di essere, se quando cammino in mezzo alla gente mi perdo, e non ricordo nemmeno se ho un corpo maschile o femminile.
Quante cose potrei dirti, per mostrarti quella cosa che son dentro. 
Una cosa...

Ma quale cosa sarei, se non avessi un corpo?
E quale cosa sarei se fossi solo un pensiero?
Un pensiero...

Io sono un pensiero.

Adesso non posso fingere che, non posso più dimenticare il pensiero che sono.
Io lo so, lo so da sempre quello che sono.
E non è esattamente quello che vedo guardandomi allo specchio.
Lei...
Mi domando ancora chi sia lei, e come possa essere io quella lì. Sarà umana, o qualcos'altro.
Quella non sono io, sembra più un mostro che si nasconde...
Io sto apposta qui, e te ne parlo.
E' per questo che scrivo: Sto apposta qui per dargli un nome.
Un nome per il pensiero che sono.
Anche se, non riesco ancora a darglielo. Non ci riesco.

Ma tu?
Al tuo...
Tu che nome gli daresti?

domenica 13 gennaio 2013

La barba


Il treno avanzava ritmicamente sulle rotaie da ormai circa un’ora e quarantasette minuti. Lui era generalmente tranquillo quando aveva un mandato di lavoro, anzi gli procurava piacere già dalla notte precedente; preparare la sua ventiquattrore, passarsi la crema depilatoria per tutto il corpo, rinfrescarsi con una doccia, farsi con cura la barba. Quest’ultimo non era un dettaglio da trascurare: quando non aveva mandati si lasciava andare, non trovava alcuna ragione per rendersi presentabile. Passava la gran parte della giornata a leggere libri, tantissimi libri, studiandone nel dettaglio ogni espressione più inusuale o arcaica.

Quel giorno era diverso dagli altri. Sarebbe più corretto dire che era iniziato diversamente dal solito e ciò inconsciamente non gli andava giù. Aveva sempre avuto un’attenzione particolare nel farsi la barba; era un rito per lui. Utilizzava sempre e soltanto un rasoio monolama da barbiere, puntualmente sterilizzato con cura e poi riposto nella sua fodera di cuoio, anche nei giorni in cui non era utilizzato. Ci era affezionato poiché era stato il regalo più significativo di suo padre, prima che lo abbandonasse per sempre. Gli era stato insegnato che l’uomo vero deve sempre aver cura del suo viso, e la barba deve essere fatta nel migliore dei modi ogni qual volta si presenti un evento importante; e ogni mandato di lavoro era per lui un evento importante. Quella mattina alle sei e zero due aveva iniziato la sua opera d’arte; prima prese le forbici e accorciò la parte inferiore del pizzetto che spuntava fuori dai contorni del viso, poi passò ai baffi, i quali alle estremità iniziavano a creare un accenno di spirali perfettamente simmetrici. La distanza con lo specchio si ridusse vertiginosamente nel momento in cui verificò se la barba era uniforme e abbastanza corta da poterla tagliare via tutta con il suo scettro monolama. Il suo respiro si fece più attento e regolare così da appannare una piccola parte di specchio in corrispondenza della bocca; così capì che doveva allontanarsi. Passò delicatamente e in maniera uniforme con un pennello di tasso, senz’ombra di dubbio il migliore, la schiuma preparata qualche minuto prima in una ciotola. Quando il viso fu completamente ricoperto di schiuma senza irregolarità, maneggiò il suo monolama con fierezza e delicatamente iniziò a raspare via i peli misti al sapone, cercando di ripassare il rasoio meno volte possibile, e soprattutto, facendo la massima attenzione a non tagliarsi. Erano circa dieci anni che non si procurava un taglio mentre si radeva. Ma ciò che temeva avvenne quel giorno. Era un piccolo taglio sulla curvatura del mento, che prontamente provò ad arginare con un minuscolo pezzetto di carta igienica. Stava per perdere la calma, ma si rese conto che il taglio era davvero impercettibile e che durante l’incontro di lavoro non sarebbe stato notato.

Eppure c’era qualcosa che lo rendeva nervoso e lui sapeva benissimo che quel qualcosa era il taglietto sul mento. 

Cercava di distrarsi guardando fuori dal finestrino la fitta nebbia dalla quale spuntavano saltuariamente rami spogli e tronchi sottili. Erano passate quasi due ore ed era la dodicesima volta che controllava l’orologio. Il treno era in ritardo di quattro minuti. Al quinto minuto di ritardo finalmente la voce registrata annunciò l’arrivo alla stazione di Isone, un paesino sperduto in Svizzera, nel cantone italiano. Come rinato indossò il cappotto, prese la ventiquattrore, si alzò e attese per poi scendere. Si inoltrò nella nebbia senza fermarsi, come se già sapesse dove sarebbe dovuto andare. Infine arrivò in una villetta di campagna, molto gradevole per quello che si poteva notare attraverso la nebbia. Si avvicinò alla porta e bussò al campanello.

La porta si aprì e lo accolse un uomo della sua stessa altezza, più anziano di lui, in carne e con una barba lunga stranamente molto ben curata, tanto che quasi ne sentiva il profumo. L’uomo lo fissò.
- Posso esserle utile?
- Oh, certo. Mi scusi, il mio nome è Rudy Volta-. Tendendogli la mano. – Sto indagando sulla scomparsa di Dalila Otto avvenuta circa dieci giorni fa.
- E’ della polizia?
- No, in realtà lavoro per un agenzia investigativa privata di Aosta. Il marito di Dalila si è affidato a noi.
- Io non conosco nessuna Dalila -. Rispose l’uomo cercando di chiudere la porta.
- Aspetti, la prego, vorrei solo farle qualche domanda. Pare che la ragazza fosse diretta qui prima di sparire dalla circolazione, e sa, il paese è piccolo, vorrei entro il primo pomeriggio fare qualche domanda a tutti gli abitanti. Mi sarebbe di grande aiuto.
L’uomo barbuto lo guardò per qualche secondo leggermente perplesso, poi con qualche esitazione spalancò la porta per farlo entrare. L’altro ringraziò sorridendo e si lasciò chiudere la porta alle spalle entrando.
- Gradisce una tazza di caffè?
- Molto volentieri.
- Mi segua in cucina.
L’ambiente era accogliente, caldo per mezzo del camino acceso già da qualche ora, in più c’era un magnifico odore di torta di mele. 
Quando furono in cucina la torta era lì che fuoriusciva dal ruoto in maniera irregolare. L’uomo barbuto prese il termos di caffè ancora caldo e riempì due tazze, prese un coltello e portò tutto al tavolo centrale. Infine tagliò una fetta di torta e la pose in un tovagliolo di carta per poi offrirla al suo ospite.
- La prego, assaggi. L’ha fatta mia moglie.
- Produzione propria?
- Sì, da quando viviamo qui cerchiamo di coltivare e allevare quasi tutto il necessario. Se continuassimo a mangiare quello che ci vendono i supermercati dovremmo ammalarci e morire prima del previsto.
Rudy sorrise. L’incontro era iniziato in maniera davvero divertente. Fece un sorso di caffè, ma non toccò il dolce. Alzò quindi lo sguardo verso chi gli era di fronte.
- Allora, lei è il signor? 
L’uomo fissava il dolce, quasi in trance. In realtà era attento alla domanda. E dopo qualche secondo di silenzio rispose.
- Mi chiamo Bernardo Veneziani. – Mentiva, naturalmente. Cioè, apparentemente non lo faceva. Era ciò che era scritto sulla buca delle lettere, ma in realtà lo disse con così poca convinzione che sembrava non appartenergli minimamente.
- Ha notato qualcosa di insolito in paese negli ultimi giorni? Qualcuno che si è comportato diversamente da come usa fare tutti i giorni? Sa, dovrebbe essere tutto più semplice in un piccolo paese come questo, vi conoscete tutti, qualcosa di insolito si … -
- Perché non mangia il dolce?- Guardando l’ospite con insistenza. 
- Lo mangerò tra pochissimo -. Gli rispose sorridendo Rudy.
- No, in realtà non ho notato niente di particolare.
- Ne è sicuro?
- Cosa ha nella valigetta?
- Questa domanda non c’entra con quello che le sto chiedendo io.
- Certo, ha ragione. Sì, sono sicuro.
- Benissimo -. Rudy fece un altro sorso muovendo la mandibola in maniera innaturale. Rimase in silenzio, tranquillo. Il padrone di casa era immobile e continuando a fissare la torta continuò la conversazione.
- Le sarei sicuramente più d’aiuto se mi mostrasse una foto della ragazza.
- Certo, era quello che stavo per fare.
- Quindi è a quello che serve la valigetta, giusto? Ma la prego, assaggi un po’ di torta di mele -. Lo disse alzandosi e recitando un’intonazione di naturalezza. – Guardi, adesso le aggiungo un po’ di zucchero a velo -.
Dopo aver preso lo zucchero l’uomo barbuto si avvicinò all’ospite e gli spolverò delicatamente la fetta . Rudy prese la valigetta e la pose sulle gambe ancora chiusa. Sorrideva. Anche l’altro uomo sorrideva e quando finì di spolverare la fetta di zucchero a velo, rimanendo in piedi, lì proprio accanto a lui, improvvisamente lo fissò con più interesse. Rudy non cedeva allo sguardo, continuando a sorridere con sicurezza, fino a che non si accorse che l’uomo barbuto non lo fissava più negli occhi, bensì studiava il suo mento.
- Noto che stamattina si è tagliato con il rasoio, deve essere più attento, Rudy.
Rudy non sorrideva più. Si sentì come incatenato alla sedia, come se non potesse più muoversi. Un uomo con una folta barba era stato attento a quel dettaglio e lui aveva perso tutta la sua credibilità. Avrebbe soltanto dovuto aprire la valigetta e sparargli, ma non ci riuscì. L’aveva fatto mille volte, senza sapere alla testa di chi avrebbe sparato e perché. Era il suo lavoro. Ed era sempre stato impeccabile a lavoro, tranne quel giorno. L’uomo barbuto lo leggeva come se fosse un libro aperto. L’aveva mortificato con una stupida osservazione e aveva capito subito che non era un investigatore privato, così d’istinto prese la tazza di caffè e glielo schizzò in faccia, facendolo ustionare e urlare di dolore. Allo stesso tempo sfilò la valigetta dalle braccia di Rudy, l’aprì e ne trasse  fuori una pistola con il silenziatore. Rudy cadde con la sedia all’indietro tirandosi la fetta di dolce, che nel cadere disperse zucchero a velo nell’aria rendendolo simile alla polvere. La canna della pistola era puntata al centro della sua testa ma lui non poteva saperlo perché era in quel momento accecato.
- Vorrei dirti di riferire a chi ti ha assoldato di scegliere più attentamente i loro sicari, ma sono costretto ad ucciderti -. Gli disse con tranquillità l’uomo barbuto.
Gli sparò al centro della testa facendo fuoriuscire fiotti di sangue che lentamente imbrattavano la sua liscia faccia. Liscia tranne che per quel taglietto.

sabato 12 gennaio 2013

P.s. Sono qui.


Ripercorro vecchie strade perdute. Lontane, ma fisse e chiare nella mia mente.
Credevo di averne perso memoria
ma un giorno nella mia testa è bastato a farmi ricordare
il fumo di una sigaretta, il calore sul viso
il fruscio dei fogli, l'odore dei libri.
Sono io, cannella e libri.
Dicembre.
Ogni mattina mi sveglio sperando che ci sia il sole ma che faccia freddo.
Cos'è per te la felicità?
Per me è questa, sapere di avere un posto dove andare anche nei momenti peggiori.
Sapere di avere qualcosa di bello, dentro, e non solo.
Non voglio condividere niente. Io sono la mia felicità, nessuno potrebbe rendermi più felice di me.
Sei felice?
Adesso si.
Non c'è nient'altro che vorrei provare e nessun altro luogo in cui vorrei andare. Sono qui, e ci resto.
Gli unici colori che sopporto sono i colori di una libreria.
Quante storie, quante vite, emozioni, sensazioni, sentimenti, sogni, progetti, pensieri, amori, dolori.
Come potrei non sentirmi piena?
Eccomi, sono qui. Siamo qui entrambe.
L'unico posto in cui io e lei possiamo stare bene insieme, senza che una eclissi l'altra. Questo posto è abbastanza grande per la mia insicurezza e per il suo orgoglio.
Ora è calma, e può parlarmi.
Dovresti bruciare tutti quei ricordi. Li vedo ogni giorno nei tuoi occhi quando ti guardi allo specchio, e ci cammino in mezzo per tutto il giorno. Lo spazio è stretto.
Mi stanno schiacciando, ma io non posso liberarmene se tu non vuoi.
Io sono più forte, ho ragione.
Cosa fai ogni giorno della tua vita?
Contemplo i miei fallimenti.
Beh, è ora di svegliarti, gli incubi lasciali alla notte.
È buio ma io ti vedo già. Sei bella anche tu quando sorridi.
Non è troppo tardi. Guardati, seduta da sola a quel tavolino, ti brillano di nuovo gli occhi.
Ce l'hai fatta, mi hai trovata.
Ricordi le poesie che scrivevi quando eri piccola su quell'agenda rossa?
Te le ricordi? Sapevi già qual'era la tua strada, e ci credevi, ora stai ritrovando quell'entusiasmo.
Ricordi il primo libro che hai letto? Certo, ce l'hai ancora.
Mi piaceva il suo odore.
Se non riesci a fare una cosa significa che in realtà non lo vuoi davvero.
È ancora così, non è cambiato niente, ti sei solo persa, ma sai di poter illuminare la tua stessa strada da sola, anche nelle notti più buie.
Tu sei come la luna.
Si, le mie emozioni, qualunque cosa mi faccia sorridere, fremere, piangere, tremare, è il mio sole che non si spegnerà mai finché avrò vita. Ecco perchè non smetterò mai di illuminare il mio buio.
Sorridi, ce l'hai fatta, piccola.
Non smettere mai, non perderti/mi di nuovo.