Ispirato alla poesia "Angelo, guarda il passato", di Thomas Wolfe.
[…]
Non posso credere che lo sto facendo
davvero.
“Lo sai, vero, che ogni cosa ha il
suo prezzo?”
“Si, Smilzo, e so anche che i tuoi
sono salati come l’acqua di mare.”
I dieci giorni successivi
all’incontro sono stati un inferno. Poco appetito, apatia, persino il sonno mi
era diventato movimentato, quando c’era. E fosse solo questo. Non penso sia mai
bello svegliarsi pensando di stringerla e ritrovarsi tra le braccia un lenzuolo
aggrovigliato, e la scena si è ripetuta fin troppo spesso. E fin troppo spesso
ho sfiorato le lacrime. Ed erano solo dieci giorni.
Rischiavo di arrivare al prossimo
incontro come uno scheletro, e per questo ho deciso di rivolgermi a lui. Devo
trovare il modo di distrarmi, di uscire dalla mia testa, di vivere meglio
l’attesa, e lo Smilzo in fatto di distrazioni è il miglior contrabbandiere del
complesso. Ma naturalmente, in un mondo senza denaro, si ricorre al baratto. E
trovare qualcosa che possa interessare allo Smilzo è come cercare un ago in un
pagliaio.
“Su, vediamo cosa mi hai portato.”
Svuoto scocciato il contenuto del
sacco che mi sono portato appresso, pensando tra me e me che deve ringraziare
Dio o chi per lui che il contrabbando è tollerato dai piani alti perché da
un’idea meno oppressiva del sistema se ora si trova li a fare il borghesotto da
quattro soldi con la sua aria schizzinosa piuttosto che spalare merda nelle
fognature.
Ma tu guardalo con che aria di
sufficienza si mette a fissare la roba. Lo vedo ogni tanto soffermarsi su
cornici, spille, collane e osservarle come se fossero ciarpame. Si ferma solo
su un ciondolo dorato, che non ricordo nemmeno dove lo abbia trovato.
“Va, perché sei tu, questo può
andare bene.”
Rimette le altre cose nella borsa,
porgendomela. Non appena faccio per afferrare la borsa, mi sento afferrare per
il bavero. La bocca di quel bastardo… me la sento alitare in faccia.
“Mettiamo le cose in chiaro prima di
andare avanti. Tu non sei mai stato qui. Non mi conosci. Non sai dove hai preso
quello che stai per prendere e sicuramente non in un posto qui vicino. Non
provare a fregarmi, che giuro su Dio che ti ritrovi in una fossa. Sono stato chiaro?”
Mi levo le mani di dosso in malo
modo, guardandolo in cagnesco.
“Lo prendo per un si. Avanti,
seguimi.”
Colpisce un paio di punti nella
parete, che si apre su di un corridoio poco illuminato. Lo vedo prendere una
torcia, e farmi ancora cenno di seguirmi.
“Non ho ben capito cos’è che stai
cercando. Più avanti ci sono giochi, svaghi vari, mentre a sinistra ci sono i
libri. Quelli si che sono difficili da reperire al giorno d’oggi…”
E ci credo, se ci fosse libertà di
stampa si darebbe uno strumento troppo potente in mano agli “anti-conformisti”.
Anche alla libertà fittizia c’è un limite.
“Mi serve qualcosa che mi prenda,
che mi faccia distrarre, e che sia duraturo. Penso che non sia il caso
dirottarsi per i giochi da tavola. Oltretutto, da solo non è che sia questo gran
passatempo…”
“E allora, all’ala dei libri.”
Giriamo a sinistra, arrivando in una
stanza particolarmente chiusa. L’odore di chiuso è palpabile, così come la
polvere. Mi porge la torcia, invitandomi a cercare in mezzo a quegli scaffali
disordinati. Non mi sembra particolarmente voglioso di accompagnarmi
nell’impresa. Sospiro. Entro nella stanza, strappandogli la torcia di mano.
Passo giusto una mano sul dorso di alcuni libri, e un alone di polvere si solleva
nella stanza. Tossisco, bestemmiando tra me e me, mentre inizio a leggere i
vari titoli. Si passa dal Ritratto di Dorian Gray, a Così Parlo Zarathustra, a
Uno, Nessuno e Centomila. Tutti libri che non ho nemmeno lontanamente idea di
cosa parlino. Tanto vale andare a caso, tanto per quel che ne posso sapere…
Chiudo gli occhi, e mi limito a passeggiare su
e giù per la stanza, lasciando volteggiare la mano così, a casaccio. A un certo
punto mi fermo, indicando un libro particolare. Tra l’altro, al tocco, avverto
una sensazione strana. Non so se sia per il rilievo del titolo o non so
cos’altro, ma decido di prenderlo.
Lo porgo allo Smilzo, che lo afferra
e soffia via la polvere dalla copertina.
“Che tu sia per me il coltello, di
David Grossman, eh. Parla di due tizi che si mandano lettere d’amore, o cose
simili. Sei sicuro?”
Annuisco con forza, strappandoglielo
di mano.
“Contento tu…”
[…]
Sto iniziando a perdere la pazienza.
Sono ormai ore che aspetto
nell’oscurità, sentendo il cuore sobbalzare ogni volta che sento passi in
vicinanza.
La prima volta erano tipi dei comizi
che parlavano tra di loro, da cui mi sono dovuto nascondere per non perdermi in
chiacchiere che sarebbero durate millenni. La seconda volta era la ronda, e nel
terrore mi sono raggomitolato nell’ombra, in un angolo, pregando con tutte le
mie forze che non mi scoprissero. E’ stato con un sospiro di sollievo che li ho
visti passare avanti, senza rendersi conto di niente. La terza volta era solo
un cazzo di ubriacone che poteva solamente attirare l’attenzione di chi non
doveva.
Mi sono rotto il cazzo di cagarmi
addosso per niente. Eppure doveva già essere qui. Sta andando avanti da un po’
sta storia, ormai dovrebbe essere routine. Ogni due giorni qui, all’angolo,
dove le luci sono più fioche. E’ una pratica collaudata, dannazione, sarà
almeno la quinta volta che la facciamo, da quando sono andato dallo Smilzo e ho
parlato ad Adrienne di quell’idea.
Ricordo ancora il volto incredulo
quando le ho detto di iniziare a scambiarci lettere, per diminuire l’angoscia
dei venti giorni di lontananza ogni mese, per avere l’illusione di stare vicini
nonostante questo clima di terrore di merda che ci circonda, un po’ come in
“Che tu sia per me il coltello”.
Già, da lì avevo preso
l’ispirazione… mi piaceva il modo in cui i personaggi si mettevano a nudo con
delle semplici parole scritte… sembra quasi di conoscersi meglio in quei dieci
minuti che ci vogliono a leggere una lettera che a stare mano nella mano per
mesi…
Passi.
Mi nascondo veloce nell’angolo,
appiattendomi sulla parente per quanto sia possibile. Cerco di distinguere una
forma nell’ombra, di capire chi sta arrivando. Si muove furtivo, questo è
certo.
Che sia l’uomo del colonnello?
Gli istanti sono scanditi dal basso
suono dei passi. Uno. Dopo. L’altro.
Lentamente vedo qualcosa affiorare
dall’ombra. Si vedono stralci di pantaloni, si intravede la stazza della
persona. Un uomo magrolino, cauto, che si muove lento, guardandosi attorno.
Sento un sibilo uscire dalle sue
labbra.
“Sei li?”
Sussurra piano, nell’ombra, con tono
nervoso, mentre la sua figura ormai si riesce ormai a vedere del tutto,nonostante
sia ancora un po’ ammantata d’ombra.
“Ce ne hai messo di tempo.”
Rispondo, avvicinandomi lentamente.
Di tutta risposta mi prende per la casacca e mi spinge con lui nell’ombra.
“Sei impazzito? Come diavolo
ragioni? Esci così, senza pensarci, senza neanche chiederti se sia un uomo del
colonnello o uno venuto a stanarti. Porca puttana, devi essere cauto, qui
stiamo infrangendo la legge!”
“Si, ho capito, hai ragione!”
Taglio corto io, staccandogli piano
la mano dalla casacca.
“Non ci avevo pensato, sembrava che
sapessi fin troppo bene che ci fosse qualcuno li ad aspettarti.”
“I tempi non sono più tranquilli,
imbecille. Accortezza è la parola d’ordine. La prossima volta vedi di
ricordartene.”
Sbuffo, annoiato dal sermone. Ma
anche volendo non avevo modo di ribattere. Aveva ragione su tutti i fronti,
purtroppo.
“Tagliamo corto. Hai cosa mi dovevi
portare?”
“Si, è qui. Ho trovato enorme
difficoltà ad aggirare le ronde stavolta… si vede che non c’è un comizio oggi.”
Mi porge un piccolo tubo metallico,
che gli strappo velocemente di mano.
“Domani alla solita ora?”
Gli dico semplicemente.
Mi fa cenno di sì, e mi saluta, sparendo di nuovo nell’ombra.
Lo imito, dirigendomi verso la mia
cella, cercando di sentire ancora qualsiasi passo nelle vicinanze.
Stringo ancora forte il tubo in
mano...mi ritrovo impaziente come tutte le volte.
Non resisto, mi fermo in un angolo
poco battuto nelle ronde e lo apro, tirandone fuori un foglio di carta.
Sento il cuore battere, mentre
scorro veloce le mani sulle lettere.
Arrivo alla fine, e i battiti non li
sento più.
[…]
“…”
“…”
“Quindi… ne sei certa, non è così?”
“Diciamo che i dubbi sono veramente pochi,
mettiamola così.”
“E… quando lo avresti scoperto?”
“Beh, non ho ciclo, ho nausee e
cazzate varie, uno fa due più due.”
“Quindi non sei andata da un medico
per chiedere…”
“Non ho voluto rischiare. Non serve
che ti spieghi, no? Quello che arriva ai medici arriva a loro.”
“Già…”
“…”
“E adesso?”
“E adesso… adesso tiriamo avanti. In
fondo il Sistema voleva che facessimo proprio questo, no? Procreare, e ci siamo
riusciti. Se lo vengono a sapere…”
“Quanto tempo pensi che ci voglia?”
“Mah, tre, quattro mesi circa
immagino. Il tempo che la cosa diventi lampante e che non possa più
giustificarlo con un leggero sovrappeso.”
“E poi…”
“Poi sarò automaticamente esclusa
dalle camere di replicazione fino al tempo necessario per partorire e per
svezzare il bambino… almeno sei mesi, immagino.”
“Sei mesi…”
“Si, sei mesi almeno, se siamo
fortunati.”
“…”
“…”
“Sto per diventare padre…”
“Per quel che vale, lo sai come
funziona qui. Non vedrai mai tuo figlio… tecnicamente non dovresti nemmeno
sapere di averne uno.”
“Lo so, ma la nostra situazione è
diversa, no?”
“Non illuderti, tutto è diverso, ma
nulla cambia qui. Non mettere false speranze, quel modello di famiglia è morta
tanti anni fa. Non puoi nemmeno starmi vicino in questi momenti, a stento ci
vediamo 4 volte al mese per qualche ora.”
“Lo so… però è strano. Conosco il
volto della madre di mio figlio… conosco la sua voce, il suo sorriso. E’
strano… sembra di sentire la stessa tensione che ha sentito mio padre o il
padre di mio padre. Mi sembra che si sia tornati alla normalità… per quel che
può essere considerato normale…”
“…”
“E così, altri quattro mesi. Poi non
ci vedremo più per un po’.”
“Ma sono ancora quattro mesi, no?
Godiamoceli almeno. E poi abbiamo le lettere, no?”
“…Non so se resisterò.”
“Lo capisco, ma non abbiamo
alternative purtroppo. Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come
prima…”
[…]
Finchè il regime rimane le cose non
saranno mai come prima.
Sono passati quattro mesi da quando
Adrienne mi ha detto quelle stesse parole. E questo è il primo mese in cui non
ci vedremo.
Pensavo che non avrei avuto molta
voglia di uscire, che sarei stato un po’ scostante, un po’ chiuso in me stesso,
in definitiva triste, ora che l’unico modo che avevamo per parlarci erano delle
parole su di un pezzo di carta.
Mi sbagliavo. Va molto peggio.
Ogni secondo che non passo a
spaccarmi le mani per un tozzo di pane lo passo li, chiuso nella cella, con la
sola compagnia di quel libro e delle innumerevoli lettere che quasi sommergono
quel posto. Le avrò lette ognuna una dozzina di volte. E ogni giorno ne
arrivano di nuove. Ed ogni giorno ne scrivo una, due, dieci, chiuso in un
flusso di parole dal quale non voglio uscire per avere l’illusione di vivere un
rapporto vero, di poter sentire la sua voce mentre dice le parole che mi scrive
ogni giorno. Un’illusione di un rapporto vicino, che in realtà è separato da
mura di ferro.
Mi manda ogni giorno notizie, ha
fatto persino la prima ecografia. Ecografia di cui non ho chiesto il risultato.
E’ vero, tecnicamente l’idea del sesso del bambino non dovrebbe cambiare nulla.
Già, non dovrebbe. Ma anche la sola
idea di non sapere se è un maschio o una femmina rende il pensiero ancora
informe, immateriale, distante da me. Riesco ad evitare di renderlo realtà. Se
sapessi che è maschio, cosa mi fermerebbe dal vedere nella mia testa l’uomo che
ne uscirà, così simile a me, ma con gli stessi occhi ipnotici della madre? Cosa
eviterebbe di immaginarmi una Adrienne più giovane, con i miei stessi capelli
che le incorniciano il viso, se sapessi che è femmina? Cosa eviterebbe di
immaginarli piombati in questo inferno anche loro, innocenti, schiavi di un
regime che li allontana dalla madre e da loro stessi?
Risuonano ancora le sue parole nella
mia testa.
Finchè il regime rimane le cose non
saranno mai come prima.
Vorrei urlare, alzarmi, unirmi a
loro, trovare la forza di combattere, di liberarmi, di liberarci.
Ma la forza è l’unica cosa che mi
permette di andare avanti ora. A tempo debito, quando quel calvario sarà
finito, tornerò a partecipare alla rivolta, a cercare consensi, a cercare
aiuto.
Ora… ora devo aiutare me stesso.
[…]
“IL-CANDIDATO-46219-E’-PREGATO-DI-RECARSI..
“
“Si si si, alla stanza 203, la so la
solfa.”
Interrompo la voce robotica e mi
fiondo come una furia all’interno del corridoio, col cuore che batte
all’impazzata. Ho aspettato tanto questo momento, sei mesi lunghissimi che sono
sembrati quasi anni, a vivere come un topo di biblioteca con le lettere come
compagne di vita e il libro come cuscino. Le immagini della persona che mi
aspetta diventano più vivide ad ogni passo, e questo non fa altro che rendermi
più impaziente.
Senza che me ne renda conto, non sto
più camminando. Corro, nell’oscurità, inciampando un paio di volte in quel
cazzo di terreno a cui non fanno MAI la manutenzione. Mi sembra quasi di
vedermi, la prima volta che camminavo nella penombra, cercando la camera 203.
Eccola li, un paio di stanze ancora, sulla destra. Eccola, Eccola, ECCOLA.
Sbatto i pugni sulla porta, come per
metterle fretta, e finalmente si spalanca. Faccio qualche passo dentro, vedendo
una figura muoversi nell’ombra. Sento l’elettricità nell’aria, palpabile.
Un
istante e le luci si accendono. Un istante e gli occhi si abituano. Un
istante e la vedo li, come la prima volta, appoggiata al muro. I capelli le sono
cresciuti, arrivando quasi alla spalla, ma gli occhi, gli occhi sono quelli.
“Adrienne…”
“Ehi-“
Mi muovo veloce, poggiandole le dita
sulla bocca.
“Parliamo dopo.”
La bacio, la tocco, la rendo ancora
mia.
[…]
“…”
“…”
“Beh…”
“Si?”
“E’ che…non so cosa dire. Cioè, so
cosa dire, Dio santo è passato così tanto tempo, per forza so cosa dire. Ma non
riesco ad iniziare. Sono successe così tante cose…”
“Come sta?”
“Chi?”
“Lei. O lui, questo non lo so
ancora.”
“Benissimo, dovresti vedere, è
adorabile.”
“Come si chiama?”
“L’ho chiamato Steve, anche se non
so se gli rimarrà quel nome. Sai come funz..”
“Steve… un maschio…”
“Si. Ti assomiglia molto, sai? Ha i
lineamenti spiccicati ai tuoi. E gli stessi occhi, se è per questo.”
“Beh, non so quanto gli convenga…”
“Ma smettila, cretin… ehi, smettila
di farmi il solletico.”
“Ma quale solletico, ti sto solo
sfiorando.”
“Si ma mi fai il solletico.”
“Mo te lo do io il solletico.”
“Cosa? No, ti prego, AIUTO.”
“Ma sentila come urla. Stavi
dicendo?”
“Oh, niente, dicevo…ah ecco, lì va
meglio…dicevo che è bellissimo. Non sai quanto vorrei che lo vedessi…”
“A questo ci pensiamo dopo.”
“Che vuoi dire?”
“Lo hai detto tu, no? Lì va meglio.”
“Ma non sai pensare ad altro?”
“Se vuoi farti prendere sul serio,
almeno non sorridere.”
“Touché.”
“E ora silenzio, fammi lavorare.”
“…ai suoi…ordini.”
[…]
“Come stiamo messi?”
“Lo vedrai quando arriviamo, fidati
di me.”
Cammino fianco a fianco col
colonnello, percorrendo il corridoio ad ampie falcate, nella penombra. L’intero
complesso sembra particolarmente animato, stanotte. C’è nell’aria
un’elettricità che non ricordo di aver mai sentito prima, e mi sembra di
percepire come un brusio di sottofondo, come tanti passi in lontananza, tutti
diretti nella stessa direzione. La
stessa in cui andiamo noi.
Camminando faccio per superare una
porta, continuando per il corridoio, ma la mano del colonnello mi inchioda sul
posto. Il volto barbuto si apre in un sorriso.
“Siamo arrivati, giovane.”
Lo guardo stranito. All’apertura
delle porte, invece, divento incredulo.
In passato avevo partecipato ad
alcuni comizi, e da poco mi ci stavo riavvicinando. Ma in genere si tenevano in
un piccolo spiazzale, magari una vecchia medicheria, a volte addirittura la dispensa.
Posti piccoli insomma. La mensa, invece, è enorme, strutturata per ospitare
tutti gli ospiti del complesso. Ed è quasi piena.
Riconosco qualche volto, gente con
cui lavoro di solito, perfino lo Smilzo era presente.
“Diciamo che mentre stavi appresso
ai problemi di cuore noi ci siamo estesi.”
Ride, il colonnello, e io rido con
lui. Mai avrei pensato che le operazioni fossero arrivate fino a questo punto.
I consensi erano aumentati per
davvero, o per lo meno lo erano gli interessati. Per la prima volta nella mia
vita l’idea di poter fuggire da quel posto, di poterci riappropriare delle
nostre vite, non mi sembrava più un’utopia.
"Non correre, però. C’è ancora
molto lavoro da fare.”
La frase mi colpisce come un pugno
allo stomaco, mentre mi giro a guardarlo interrogativo. Il volto del vecchio si
fa triste, affaticato.
“E’ vero, le quotazioni sono
aumentate, se possiamo dire così. La gente inizia a sentir parlare seriamente
di noi, non siamo più sconosciuti, ma comunque la maggior parte delle persone
presenti sono semplici curiosi o poco più. E tra i volontari, in ogni caso, le
persone pronte all’azione sono insufficienti per avere dei risultati. Stiamo
aumentando il ‘giro’, e le persone che si sono unite ultimamente stanno
imparando in fretta, ma ci vorrà ancora
del tempo.”
Faccio qualche passo, stranito. Il
colonnello rimane a fissarmi.
“Mi dispiace, ragazzo, so che…”
“QUANTO tempo, precisamente?”
Il vecchio rimane interdetto, preso
dall’improvvisa domanda. Lo vedo riflettere un po’, come a fare dei conti.
“Un paio d’anni, qualche mese in
meno se ci diamo da fare.”
“Troppo. Dobbiamo essere più veloci,
dobbiamo cercare di dimezzare almeno il tempo.”
“…ragazzo, lo so che cosa ti passa
per…”
“NO, COLONNELLO, LEI NON SA.
Immagina, gliene do atto, ma non sa.”
Rimane in silenzio, con un’aria
preoccupata. Mi appoggio al muro, sentendo la frustrazione assalirmi.
“Non sono come tutti gli altri che
stanno qui, a perdere il tempo, no, non lo sono più. Lei può capirmi,
colonnello, lei non è figlio di questo mondo. Lei SA come dovrebbero essere le
cose, le ha vissute. Io… io sono diventato padre. Ho un figlio, colonnello, non
è una supposizione. Un maschio, di un paio di mesi. Lei sa cosa succede ai
bambini, colonnello, lo sa bene. Ho poco tempo. Poco tempo, per Dio. Quando
avrà raggiunto l’anno e mezzo di vita, quando potrà essere più gestibile,
quando non potrà più essere considerato un neonato… ce lo strapperanno via,
colonnello. Il piccolo Steve… e non so nemmeno come è fatto.”
Crollo sulle ginocchia, rimanendo
aderente al muro, il volto nelle mani, l’iperventilazione in arrivo.
“Mi deve aiutare, colonnello, lei sa
cosa significa. Non posso lasciare che la mia famiglia finisca nelle loro mani.
Non posso, Dio, non posso…”
“…Farò il possibile, figliolo…farò
il possibile…”
[…]
Vengo accecato dalla luce del sole
come un detenuto dopo mesi di isolamento.
Ed effettivamente, pensandoci, non
si è così lontani dalla realtà. L’aria fittizia, coi suoi aromi pseudo
naturali, riempie i miei polmoni, lasciandomi quella sensazione di freschezza.
Non so se è questa combinazione di sensazione, o quello che sto, stiamo per
fare, ma mi sento vivo.
Guardo intorno, cercando di
distinguere le varie facce che mi circondano, cercando quel paio di occhi.
Mi avvicino a piccoli passi, gli
occhi fissi su una figura seduta all’ombra di un albero.
Non cerco di nascondere il rumore,
non ne ho bisogno. Qualche secondo e lei mi guarda. Gli occhi si spalancano per
un istante, per poi distogliersi dai miei.
Mi appoggio all’albero, vicini quel
che basta per sentirci parlare.
“Ciao.”
“Si può sapere che fine avevi
fatto?!”
“Ho avuto un po’ da fare.”
“Sono due mesi che ti invio lettere
senza avere risposte. Di un po’, hai idea di che cosa mi è passato per la
testa? Sono due mesi, porca puttana. Pensavo ti avessero scoperto, o chissà che
altro-“
“Lo sai che se mi avessero scoperto
sarebbero arrivati anche a t-“
“-e poi, dal nulla, una lettera,
ieri, per dire di vederci qui, all’ombra di sto cazzo di albero, e non so
nemmeno per quanto. Secondo te è così facile per me muovermi ora che ho Steve?
Ho dovuto lasciarlo ad una delle mie vicine, così, all’improvviso. Tutto
perché…non lo so perché, e ora, ORA mi devi spiegazioni.”
“Non guardarmi così, lo so, non mi
sono fatto sentire per un po’, ma credimi, è l’ultima volta.”
“Ti aspetti che ti creda?”
“Devi farlo, perché è quasi finita.
Ce la stiamo facendo, Adrienne, manca poco, veramente poco-“
“Poco per cosa?”
“Perché io, te, il piccolo Steve
finalmente diventiamo una famiglia. Tra due giorni c’è la nostra occasione. Non
so i dettagli, il colonnello non mi riferisce molto. Per proteggermi, dice. Ma
il regime cadrà. E’ certo. Tra due giorni io e te ce ne andiamo, ci liberiamo.
Ti porto nel nostro complesso, lontano dai guai, lontano dai disordini, dove
tutto quello che dobbiamo fare è aspettare.”
“…Non ci credo…”
“Devi, piccola mia, finalmente sta
per finire l’agonia-”
DON. DON. DON. DON.
“…dobbiamo andare.”
“Dopodomani, all’incrocio che ti ho
scritto sulla lettera. Vieni li, dove i complessi confin-“
“Si, si, ho capito. Ehi…”
“Cosa?”
“Ti ho portato un regalo. Ora devo
andare.Dopodomani allora.”
“…si…dopodomani, senz’altro.”
Stringo in mano una busta, mentre la
vedo allontanarsi, perdendosi tra la folla.
[…]
Manca poco ormai.
Sto li da poco più di un quarto
d’ora, ma mi sembrano passate ore. O secondi. Scorro la mano sulla parete di
quell’apparente vicolo cieco, sentendo sotto le mie mani, ben nascoste, i segni
del lavoro degli uomini del colonnello. Fessure quasi microscopiche, che
delineano una grezza porta, dietro al quale sta per arrivare lei. E lui.
Pochi minuti, e non dovrò più
aspettare, pochi minuti e non ci sarà più nessuna stanza 203, nessun candidato
46219, niente di tutto questo. Solo un uomo e una donna. E il loro bambino.
Stringo nelle mani ancora quella busta, tirandone per
l’ennesima volta fuori il contenuto. Mi perdo a guardare ancora quelle foto,
quel viso così giovane, con pochi dentini, incorniciato da quei ciuffi biondi.
Un innocente lello che sorride, forse senza
rendersi nemmeno conto per davvero di cosa sta vivendo. E’ strano guardarlo e
sapere che tra poco lo potrò stringere tra le mie braccia, fuggendo da questo
inferno di lamiere.
Dei passi? Mi è sembrato di sentire
come un fruscio. Mi guardo attorno, cercando di notare anche il minimo
movimento. No, non c’è nessuno. Forse…
Spalanco la porta, spingendola
forte, e affacciandomi su un’immagine speculare dello stesso corridoio. Ma non
c’è nessuno. Nessuno… aspetta…
Vedo finalmente qualcuno girare
l’angolo. Una donna, bellissima, imbacuccata in teli scuri che fanno vedere
solo gli occhi del suo volto, e quelli mi bastano. La vedo portare in braccio
un piccolo fagotto, che immagino essere lui. Il volto mi si illumina di gioia,
e vedo anche il suo sguardo brillare.
Faccio per aprire bocca, chiamarli,
ma l’orrore si impadronisce di me, quando vedo un’ombra nera apparire dietro di
lei dall’oscurità. Poche scintille, e la vedo cadere a terra.
“No…No. NO. ADRIENNE! STEV-“
Poche scintille, e cado a terra
anche io.
[…]
“Ma…cosa…cosa diavolo sta
succedendo. EHI, RISPOND-“
“ORA le domande le facciamo noi.”
La voce mi zittisce con fermezza. Le
luci improvvisamente si accendono. Abbasso la testa, accecato, cercando di
abituarmi in fretta. Mi guardo, trovandomi legato ad una sedia. Legato bene,
aggiungerei, visto che non riesco a muovere nemmeno un muscolo. Alzo lo sguardo
lentamente, e vedo un uomo, con un vestito bianco elegante, dietro ad una scrivania, frapposta fra noi,
che mi fissa, lo sguardo coperto da un paio d’occhiali da vista. Ci metto
qualche secondo a riconoscerlo. Di tutta risposta sputo sulla scrivania.
“Non la passerai liscia, maledetto
bastardo. I tuoi giorni lassù stanno per finire e-“
Vengo fermato da un suo gesto, e
vedo con orrore una testa mozzata rotolare. Quasi mi sembra di poter sentire la
sua risata bonaria, mentre vedo il volto del colonnello deturpato dal terrore.
“Immagino che le tue speranze
fossero tutte chiuse dietro questo omuncolo qui. Il capo della ribellione, uno
degli intermediari tra noi e voi. Una buona pedina, senza dubbio, ma spero
vivamente che non credeste di avere veramente la situazione tutta sotto
controllo.”
Rimango allibito, mentre sento il
calore correre via dal mio volto. Tremo, e non so se sia per il terrore o per
altro. L’uomo si alza, avvicinandosi a me, a piccoli, piccolissimi passi.
“C’eravate andati vicini, ve ne do
atto. Ho visto che stavate preparando qualcosa di grosso. Se ce ne fossimo
accorti qualche giorno dopo, forse sareste veramente riusciti a metterci in
crisi. Ma ciò non è avvenuto.”
Si siede sulla scrivania, e sento il
suo alito su di me. Sorride, ma il volto non esprime nessuna emozione.
“In fondo forse dovrei ringraziarti.
Sai, non c’è più grande colpo al coraggio di un popolo del vedere una grande
speranza, che sembrava potesse diventare realtà, cadere miseramente su se
stessa in piccoli, insulsi pezzi. Sapevamo da tempo che prima o poi avreste
cercato di ribellarvi, era solo una questione di tempo. Ora, di tempo ce ne
sarà ancora di più…”
Si ferma per qualche secondo,
fissandomi senza un battito di ciglia. Quindi scoppia a ridere.
“Stai tranquillo, ragazzo caro, non
ti ucciderò. Non offrirò al popolo un martire. No, tu e il tuo insulso
tentativo di rovesciare tutto, tu e la tua ribellione, tu e il tuo tentativo di
provare persino amore, tu e il tuo fallimento rimarrete d’esempio. Sei l’uomo
attorno al quale è girato tutto questo disordine, tutta questa speranza
fittizia. E tornerai come un rudere a strisciare, sotto il mio regime. In fondo
sei giovane, un ottimo lavoratore, nonché un ottimo modello genetico, a
giudicare da tuo figlio. Mi sarai più utile da distrutto che da morto.”
Non so a quel punto come reagire.
Sento come un caos di emozioni, tra lo sconforto di quello che era come un
padre per me, al sollievo nel sapere che sono salvo, alla vergogna per il fatto
stesso di sentirmi sollevato, quando in molti sono morti per il mio egoismo.
Per me e per…un attimo.
“Aspetta un secondo. E Adrienne?”
“Adrienne? Ah, forse intendi quella
lavoratrice che abbiamo catturato insieme a te. Oh, lei non ha avuto lo stesso
privilegio. Non c’era nessuna utilità nel mantenerla in vita. Aveva superato i
trentacinque anni, anche se avessi voluto utilizzarla ancora nelle camere di
replicazione avremmo rischiato dei bambini deformati, o chissà che altro.
Oltretutto sapeva troppo, ed è meglio lasciare il compartimento femminile
nell’ignoranza, d’altronde è quello che meno ci sta dando problemi. L’ho fatta
giustiziare sul posto, non ci serviva più.”
Silenzio. Disperazione. Battiti che
si fermano. Poi il buio…
“Fratello?”
Una voce mi fa
sussultare dallo stato di trance in cui ero entrato. Mi guardo attorno, vedendo
gli sguardi fissi su di me. Rimango stranito, chiedendomi cosa ci sia da
guardare, perché diavolo mi osservino.
“Fratello… tu non sei
più lo stesso da troppo ormai.”
Vedo il capo del
comizio scendere dal tavolo, avvicinandosi a me.
“Lo sappiamo tutti che
la morte del colonnello ha colpito più te di chiunque altro. Era un grande
uomo, e un caro amico, e tu eri come un figlio per lui. Quella notte… si, non
serve che ti racconti gli orrori che ho visto quella notte, quando ci fu
l’imboscata che ci ha tagliato le gambe. Ma guardati attorno, le forze sono
tornate, siamo di nuovo qui. Lui… lui vorrebbe certamente che tu andassi
avanti. Fratello-“
“Fratello? FRATELLO?!”
Esplodo, di un’ira che
non sentivo animarmi da troppo.
“Come osi chiamarmi
così? Chi sei mai stato tu per me, eh? Non so nemmeno come ti chiami, per Dio.
E mi chiami fratello, pretendi di capire che cosa ho passato, che cosa ancora
passo, cosa mi ferma magari, eh? TU NON SAI NIENTE.”
Mi alzo di scatto,
muovendomi ad ampi gesti, fuori di me.
“Guardati attorno,
guardati veramente attorno. Credi veramente di essere anche solo lontanamente
vicino a raggiungere VERAMENTE le forze necessarie per rovesciare questo
governo del cazzo? Sei un illuso. Ecco i tuoi cari fratelli. Spaventati.
Curiosi. Nullafacenti. Gente che si trova qui quasi per caso. Gente che non sa
cosa aspettarsi, che non è unita, che non ha nessun collante. Vuoi sapere cosa
succederà? Succederà che alla prima testa mozzata tutti quanti fuggiranno nelle
loro celle, nascondendosi alla vista, e pregando vivamente che non sia anche il
loro turno. E’ questo l’esercito che tieni per mano. Un esercito di egoisti,
ignoranti e impreparati omuncoli che non tarderà a voltarti le spalle quando le
cose si faranno serie.”
“Adesso stai
esagerando, frat-“
“Ancora FRATELLO?
Ideali come la fratellanza, la famiglia, la fiducia nel prossimo sono finiti,
caro mio, FINITI. Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Ci sono attorno a me almeno dieci coetanei, bastardi
senza natali che potrebbero tranquillamente venire dalla stessa madre o
addirittura dallo stesso padre senza che nessuno di loro abbia qualsiasi mezzo
per poterne avere la certezza. Come pretendi di fare una rivoluzione, quando
non c’è unità, non c’è discendenza, non c’è NIENTE. Chi di noi ha guardato nel
cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre tarpato dalla prigione?
Chi di noi non è per sempre uno sconosciuto e un solitario?”
Tutti tacciono, impietriti. La verità li colpisce
al volto come pietra, ed eccolo li, il popolino, che si guarda attorno con
dubbio e diffidenza, cercando risposte a domande che non sanno a chi porre.
Sospiro, calmandomi. So bene che non serve a
niente, so bene che sto solo perdendo tempo.
“Cosa vorresti da me? Che ti dia una mano? Che guidi
con te questa gente? Mi dispiace, non posso farlo. Non a queste condizioni, non
con questi rischi. E’ una strada che ho già percorso, una strada di cui ho
visto la fine, e mi ha reso quello che sono. Un fantasma. No… non contare su di
me, ‘fratello’.”
Esco velocemente dalla mensa, contornato da
silenzio e sguardi spenti. Mi sembra di risentire nella mia testa tutte le parole
che si sono abbattute come macigni su quei poveri idioti che hanno fatto
l’unico errore di cercare una speranza in un mondo che non farà altro che
distruggerli. Come hanno distrutto me.
Corro, corro senza rendermene conto. La mente vaga,
facendomi rivedere tutto. Rivedo i sorrisi. Rivedo i pianti. Le nocche
fratturate su un muro di lamiera. La carta bruciata. Il coraggio che viene a
mancare ad un passo dal farla finita. Rivedo tutto, tutto quello che mi ha reso
quello che sono ora. E i piedi corrono, corrono, come se fossero animati per
conto loro, e mi ritrovo di nuovo li, di fronte all’Area Verde di quel giorno
di più di venti anni fa, più morto che vivo, sotto il peso di ricordi che
rendono ancora più invivibile il presente.
E alla fine decido.
Stringo forte i pugni, sentendo lacrime di ira
scendere sulle guance. Ogni passo è pesante, come se ai piedi avessi pilastri
di cemento. Ogni respiro è affannoso, come se non ci fosse abbastanza aria
intorno. E comunque, con estrema, quasi paradossale facilità, la porta cede
sotto i miei calci.
Mi appoggio di nuovo con la schiena sotto quell’albero,
e sento ancora la busta con le foto di Steve nella mia mano, e la rivedo
allontanarsi, per l’ultima volta.
Sorrido amaro, facendomi forza. Per quanti anni
siano passati, il mio tempo è finito lì, e ormai non mi rimane che aspettare
Già, il mio tempo è finito, ma loro, quegli stolti
che stanno li a farsi riempire la testa di slogan alla ricerca di un sogno,
loro, nella loro ignoranza, sono ancora vivi. E darò loro qualcosa di vero,
qualcosa che li unisca davvero. Il mio regalo d’addio, a loro… e a tutto il
resto.
E’ col sorriso sulle labbra che accolgo i pesanti
passi della milizia. In un istante, tutte le luci sono puntate sul mio volto,
mentre mezza dozzina di uomini armati puntano verso di me.
“Alza le mani, bastardo! Lo sai che non si può
entrare qui, specialmente durante il coprifuoco. La nostra pazienza è finita!”
Urla , quello che sembra il capo della combriccola.
Mi riconosce, ma io non riconosco lui. E sinceramente, poco importa. Ho
ottenuto quello che volevo. Sento altre migliaia di passi e qualche volto che
si affaccia, curioso, per capire quello che sta succedendo. Tutti volti che
pochi minuti prima stavano rintanati nella mensa.
“ALZA LE MANI HO DETTO!”
Fingo di fare quel che mi viene detto, per poi
infilare una mano di scatto nella casacca. Un movimento brusco, e una tempesta
di scintille si libera dai fucili, lasciandomi a terra, sanguinante,
agonizzante.
Sento urla, grida, i miliziani parlare animatamente
tra di loro.
“NON HO DATO ORDINE DI SPARARE, CRETINI!”
“Ma signore, si era mosso di scatto, temevamo…”
Non sento più nulla, ma alla fine poco importa. Per
quel che vale, alla fine ho vinto io. Perché la voce girerà. Girerà, dicendo
dell’uomo che è morto solamente per aver tirato fuori dalla propria casacca un
semplice libro. Girerà, e si ricorderanno improvvisamente di tutto quello che
stanno subendo da troppo tempo. Girerà, e sarà la scintilla, la goccia che farà
finalmente traboccare il vaso, perché tutti i grandi cambiamenti richiedono dei
martiri. Un innocente, un poveraccio, un
perduto, e dal vento compianto, fantasma.
ANGELO, GUARDA IL PASSATO
...un sasso, una foglia, una porta introvata; di una foglia,
un sasso, una porta. E di tutti i volti dimenticati.
Nudi e soli siamo venuti all'esilio. Nel buio del suo ventre,
non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione
della sua carne siamo venuti nell'indescrivibile
e incomunicabile prigione di questa terra.
Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato
nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre
tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre
uno sconosciuto e un solitario?
O perduto, e del vento compianto, fantasma, torna.