Citazioni


domenica 26 gennaio 2014

Never have I ever

Bah. Rieccomi qui a sbavare riflessioni su una pagina di word. Su un blog. Nella mia testa. Mi piace paragonare le parole scritte alle diverse forme che il nostro corpo ha di espellere sostanze. Quando scrivevo Regalo d’addio la parole scorrevano come lacrime. Altre storie le ho sudate, alcune le ho sanguinate, qualcun’altra, piena di odio e risentimento, l’ho vomitata. Un getto caldo che parte dallo stomaco, risale e ti sconvolge, lasciandoti un sapore amaro in bocca e il corpo destabilizzato ma libero. Un paio di giorni fa ho provato a scrivere qualcosa che parlasse di me, ma l’ho cestinata dopo meno di una pagina. Quella storia l’avevo cacata. Questa invece la sto sbavando, avete presente quando siete piegati con un braccio contro il muro e la testa contro il braccio, guardando verso il basso, la tazza del cesso o il pavimento, e vomitate? Ecco, subito dopo il vomito c’è spesso quel po’ di bava che pende dalla bocca. Ma intanto ci siamo liberati del peso grosso, il rivoletto di bava è un dettaglio che può rimanere trascurato nell’angolo della bocca finché non siamo pronti a tornare in carreggiata. Respiriamo. Recuperiamo il controllo del nostro corpo. E quando davvero siamo sicuri che è finita, puliamo la bava e alziamo la testa. E siamo pronti ad affrontare il mondo, di nuovo.
Ho vomitato tanti racconti a proposito di una storia finita male che mi ha cambiato la vita, ora è il momento di asciugare quel filo di bava, un ricordo che è rimasto dimenticato e pendente per parecchio tempo. Un anno e mezzo circa, direi.

Era l’agosto 2012, ed ero in vacanza con Amanda, la leonessa a cui mesi dopo avrei dedicato “Regalo d’addio”. La nostra storia era già finita, schiacciata da tradimenti, mancanze di fiducia e sadismi. Avevamo commesso grandi errori e non eravamo riusciti a recuperare. Continuavamo ad andare avanti per inerzia, continuando a farci del male, come quando inciampi mentre corri e cerchi di recuperare l’equilibrio, finendo solo per cadere in maniera ancora più rovinosa. Ferirci era diventato il nostro nuovo modo di amarci. Alla fine, o forse dovrei dire finalmente, avevamo deciso di lasciarci, alla vigilia di un viaggio prenotato mesi prima. Quei biglietti ci guardavano dal tavolo, e alla fine prendemmo una decisione assurda.
Partiamo lo stesso. Dimentichiamo tutto quello che è successo, i litigi avvenuti tra queste quattro mura, la routine, il dolore. Facciamo finta di niente, viviamo questa vacanza liberamente, come se fosse il nostro primo giorno. Le scrissi una lettera.

“Per tornare ad essere i due ragazzi che si fanno le foto negli autobus mentre si baciano.
Per tornare ad assaporare ogni piccola cosa.
Per riscoprirci.
Ad ogni costo,
contro ogni rischio,
io ti chiedo,
amiamoci ancora.”

Ed eccoci lì, qualche settimana dopo, su una collina con altri ragazzi conosciuti lì, che ridiamo e scherziamo. Lo ricordo come se fosse ieri, anzi, come se stesse accadendo in questo momento. Per una settimana eravamo stati la coppia perfetta, gli altri ragazzi da tutto il mondo ci guardavano e si stupivano di quanto sembravamo in sintonia, ci chiedevano di farci foto e dicevano che eravamo carini. Chissà cosa direbbero, mi chiedevo, se sapessero che tra una settimana esatta le nostre strade si separeranno. Era notte, quella sera sulla collina, e noi eravamo lì e giocavamo tutti insieme a “Never have I ever”.

Non ho mai fatto paracadutismo.
Nessuno beve.
Non ho mai fatto sesso con due persone diverse in un giorno.
Qualcuno beve.
Non ho mai tradito.
Io e lei ci guardiamo negli occhi, davanti a tutti, e ci sorridiamo. Brindiamo e buttiamo giù l’alcol. Il nostro punteggio di coppia dell’anno sale per tutti. Sembriamo forti, pensavo, sembriamo inarrestabili, sembra che davvero abbiamo superato tutto.
Non ho mai questo, non ho mai quello.
Non ho mai scopato in spiaggia.
Ci guardiamo negli occhi e sorridiamo. Lei beve, io no, tutti capiscono che questa storia è legata al tradimento, negli occhi di tutti leggo ammirazione per la bella coppia che siamo, per il modo amichevole in cui andiamo d’accordo con queste cose.
Non ho mai visto l’aurora boreale.
Un tizio con gli occhiali beve.
Non ho mai pensato ad un’altra persona mentre facevo sesso.

Quella era una delle cose di cui non avevamo mai parlato. E i suoi occhi, fissi nei miei, dicevano “confessa”. Sorrisi, come dopo ogni altro “non ho mai”, e rivoltai il mio bicchiere in gola. Quando tornai con gli occhi nei suoi, erano diversi. Nessun altro lo aveva notato, ma l’avevo ferita. Tutte le finzioni, il ridere su ciò che era successo e bere insieme, non erano altro che questo, finzioni. Eravamo danneggiati, rovinati e senza possibilità di tornare indietro. In quel momento il senso di colpa mi stava dilaniando, e forse più del senso di colpa era la consapevolezza che bastava uno stupido gioco per creare una crepa dolorante tra noi due.

Mi alzai subito dopo e andai a pisciare, e quando tornai iniziai a parlare di altro, facendo dimenticare a tutti del gioco. Avevo realizzato che esistono errori che continuano a bruciarti dentro per anni, forse per una vita intera. E che non puoi fare finta di niente, devi solo rassegnarti ed ammettere la sconfitta. Spesso pensiamo che sarebbe bello poter tornare indietro e rimediare agli errori commessi, sembra che senza quella persona, chiunque essa sia, la vita non possa più andare avanti, e ciò di cui non ci accorgiamo è che siamo geneticamente programmati per sopravvivere. Ci possono togliere qualunque persona, in qualunque modo, ma alla fine andremo avanti comunque. Qualunque vuoto abbiamo dentro, verrà colmato. Qualunque peso portiamo con noi, prima o poi ce ne libereremo. Come quando bevi troppo: basta poggiarti contro un muro, vomitare, e aspettare che la testa smetta di girare. Respiri, ti pulisci la bava, ed esci dal bagno, pronto per un nuovo inizio.

“Le cose si rompono, ed è normale.
Anche cercare di ripararle è normale.
Spesso, mentre armeggiamo con i cocci e la colla, la cosa che vogliamo  riparare si frantuma nelle nostre mani, e questo fa davvero male.
Ci fa capire che una cosa rotta è rotta.
E quando una cosa è rotta, l'unica cosa da fare è accettarlo e proseguire senza.”

12 settembre ‘12

martedì 21 gennaio 2014

loss

Camminavo andando verso la fermata dell'autobus.
La giornata era forse un po' fredda per i miei gusti, ma niente di intollerabile; il cielo era coperto da qualche nuvola, di quelle leggere e soffici che si spostano con il vento.
In realtà mi sono sempre chiesta se siano esse a muoversi o noi, ma probabilmente la risposta risiede in qualche libro di scienze letto in seconda media.
Ho controllato quando sarebbe passato il prossimo bus per il centro, poi ho abbassato gli occhi fissandomi la punta delle scarpe, come faccio sempre per evitare di osservare troppo a lungo il volto dei passanti, immaginando le loro vite e dimenticandomi di quello che mi è attorno fino al momento in cui qualcuno non mi riserva un'occhiata severa.
Mancava ancora qualche minuto, per cui ho appoggiato le spalle alla parete vicino all'entrata del negozio che una volta ospitava un noleggio di dvd e adesso, invece, un negozio di cerniere.
Mi piaceva andare a quella fermata con la certezza che non mi sarei presa troppa pioggia o troppo vento o troppo sole perché potevo infilarmi dentro l'entrata del videonoleggio.
Adesso, invece, dei turchi, credo, hanno comprato quel locale, che ormai palesemente non andava più, e ci hanno aperto un negozio di pellame e cerniere.
Non avevo mai visto un negozio di cerniere in vita mia, mai.
Ma quel giorno, invece, c'era ancora l'insegna del videonoleggio, spenta.
Ho sollevato gli occhi sulla strada, guardando le macchine sfilare di fronte a me, fermarsi qualche istante di fronte al semaforo, osservando i guidatori impegnati nelle più disparate attività e cercando di carpire le emozioni sui loro volti.

Poi, senza alcun motivo apparente, il mio cuore ha perso un battito.
Ed un altro.
Ed un altro ancora.
Mi sono istintivamente portata una mano sul petto, cercando di respirare con la bocca, strizzando le palpebre, ma senza dare troppo nell'occhio, credo che mi sarei sentita peggio se un passante si fosse fermato a chiedermi se stessi bene.
Il cuore ha ripreso a battere, ma a singhiozzi, su e giù, veloce, e poi spento, e poi ancora veloce, e poi niente, volevo solo riprendere fiato e sentivo gli occhi pungermi e la mente obnubilarsi del tutto.
Ho sentito la nausea crescere dal profondo del mio stomaco e spegnersi in gola, e poi ancora una volta, poi ho riaperto gli occhi e ho pensato che l'autobus sarebbe potuto arrivare da un momento all'altro e io volevo disperatamente prenderlo, non desideravo nient'altro di più: salire in mezzo alla folla, concentrarmi per estrarre la tesserina dal portafoglio, timbrarla, riporla e guardarmi intorno alla ricerca di un posto o del controllore o provare a mantenere l'equilibrio sulle buche.
Con questo pensiero il battito del mio cuore è andato regolarizzandosi e il bus è arrivato qualche istante dopo, facendomi salire, strappandomi da quel momento, ma lasciandomi per sempre una consapevolezza: che un giorno sarei morta.

Non è stata un'aritmia cardiaca a ricordarmi che sono fatta anch'io di carne destinata a marcire, perché già in passato molti dolori fisici avevano provato ad assolvere questo dovere, ma, direi, il contrario: in quel momento, per non so quale divina intenzione, io ho realizzato che sarei morta.
Che era certo.
Che ogni giorno scorreva, che tante vite scorrevano di fronte a me, che il mondo tutto scorreva, e io mi stavo avvicinando di secondo in secondo alla morte.
Non è accaduto molto tempo fa. Non ricordo più che giorno fosse, ma sono certa che fosse Novembre 2012.
Sì, io a Novembre 2012, all'età di 22 anni, ho realizzato che sarei morta.

Che cosa banale, non è vero?
No, non è vero.
Quanti si ricordano il momento esatto in cui hanno compreso, compreso davvero, che un giorno sarebbero morti?
Da piccolo non ci pensi.
Nei cartoni animati i personaggi muoiono in continuazione.
Poi muore il nonno e nessuno te lo dice: è partito, ti dicono, tornerà.
Tu lo capisci che c'è qualcosa che non va e anche se non sai di cosa si tratta, il tuo istinto ti dice che è qualcosa di grave e terribile e sei il primo a non volerne sapere di più.
Tu lo capisci che il nonno non tornerà e piangi, piangi, piangi, anche se non sai perché, perché comunque gli altri ti hanno detto che tornerà, e allora perché sto piangendo?

Poi cresci. Arriva l'adolescenza, la giovinezza, e tutto quello a cui vuoi pensare, o meglio, tutto quello a cui l'umano-medio pensa, è vivere, altro che morire.
Voglio fare nuove esperienze, imparare nuove cose, conoscere nuove persone.
Voglio avere degli amici, innamorarmi, essere felice.
Ancora non ne hai la consapevolezza, ma, sebbene ti ritrovi spesso a pensare alla morte, perché le persone attorno a te, vicine o lontane, conosciute o sconosciute, continuano a morire, non pensi REALMENTE che possa accadere anche a te.
Ho 15 anni, ho 16 anni, 17, ne ho 18, 19.
Non si può morire così giovani. Ho ancora troppo da vedere. La vita è ancora lunga davanti a me.

E allora quando?
Quando si comprende davvero che un giorno moriremo?
Che un giorno tutto ciò che siamo, che abbiamo fatto e che avremmo voluto essere o fare, svanirà nel nulla? Che tutto ciò che era solo nostro, che esisteva nelle nostri menti e nei nostri cuori, non esisterà più?
Semplicemente, cesserà di esistere: un momento prima c'è, l'istante dopo, puff, svanito, per sempre, mai più, non potrà tornare mai più.
Quando realmente è accaduto?
Perché ci si può fermare a riflettere, ma fin quando non accade veramente, tu non lo sai, non lo sai che morirai.

Quel giorno io l'ho capito.
E sì, forse potrebbe sembrare una data decisamente mesta da ricordare, ma non è così: non so in quanti ricordano veramente il momento in cui l'hanno compreso, in cui hanno compreso che tutto sarebbe finito.
E quello è un momento prezioso.
Perché da quel momento in poi tutto assume davvero valore, davvero significato.
Da quel momento in poi ogni cosa che fai, sai che andrà a finire in uno scatolone che, se non condiviso con qualcuno, verrà dato alle fiamme con te, in quell'ultimo giorno.

Non credo esista un modo per affrontare questa consapevolezza, o meglio io non l'ho trovato.
Da quel momento accade spesso che il mio cuore si fermi e io mi ricordi che finirò.
I medici potrebbero anche chiamarla ansia o attacchi di panico, bè, può essere.
Ma io lo so dove tutto è nato.

E' nato tutto quel giorno in cui Angelica Papasergi stava aspettando l'autobus per andare in centro.
E io terrò per sempre stretto a me quel ricordo.
Perché senza di esso, il mio tempo sarebbe nuovamente perduto.


domenica 12 gennaio 2014

L'accompagnatore



Gli anniversari non mi sono mai piaciuti. Fondamentalmente sono una sorta di Natale o Capodanno personalizzati, nel senso che riguardano te e una cerchia limitata di persone. E' un modo per celebrare in un qualunque modo la durata e la resistenza di qualcosa, di una situazione o la potenza di un evento che riguarda te e quel piccolo clan che può comprendere dai due ai sette miliardi di persone. Anche il compleanno è un anniversario se ci pensate, ma quello riguarda solo te, una piccola autocelebrazione alla tua vita. Gli anniversari non mi piacciono, non per una moda di controtendenza dalla massa, ma perché arriverà il momento in cui quegli anniversari non si celebreranno più, perché quella situazione o evento non avranno più valore.
So che apparentemente non c'entra nulla, ma di contro a ciò adoro i treni e le stazioni ferroviarie. In particolare la stazione di piazza Garibaldi, la stazione centrale della mia città.

La mia è la storia di un uomo, o meglio di un giovane, che potrebbe essere un mio amico, ma se meglio preferite posso essere anche io, colui che sta qui scrivendo per voi. Se preferite potete essere voi stessi, oppure un eroe.

Matteo.
Perché mi piace così.
Un giovane come tanti altri, studente universitario, di qualcosa che probabilmente non lo porterà da nessuna parte, ma che lo fa crescere, lo fa inserire, in qualche modo, in quella società malata di cui tutti si lamentano. E' inutile prenderci in giro, la scuola non serve a nulla, è l'università che ti forma come persona. Se pensi di formarti con la scuola soltanto, apparterrai per sempre ad una casta di persone inferiori mentalmente ... e no,  non penso di essere razzista.

Matteo non è razzista. Gli piace solo provocare.

La location è piazza Garibaldi. Perenni cantieri che cercheranno di renderla un luogo all'avanguardia, un luogo di stoffa europea per una città che non sarà mai europea, perché non avrebbe senso. E' nodo di scambio di diverse linee della metropolitana, di linee ferroviarie regionali e nazionali, stazionamento di bus cittadini, regionali e nazionali anch'essi. Taxi - anche tassisti abusivi. Gente di tutte le razze, colori della pelle, idiomi sconosciuti, ricchi e poveri, drogati e truffatori, negozianti e mafiosi. Puttane e travestiti.

Ah, il gioco delle tre carte, per piacere non ci cadete ancora.

Odori: smog, pizza, sfogliatella, pioggia - quando piove - e merda, quando i cani cacano, kebab - quanti cazzo di islamici, turchi o quello che sono.

I paccotti: cioè, ma davvero credete che un losco figuro - come direbbe un tipo assurdo che si fa chiamare Losco e che parla come se uscisse dal milleottocento o settecento - vi venda un I-Phone o un I-Pad a cinque volte di meno del prezzo di listino? E' ovvio che vi ritrovate un mattone nella scatola. Una volta conobbi un tizio, indigeno, nato qui eh! Cioè, 'st'idiota davvero pensava di fare un affare e comprare un notebook a poco e niente: si ritrovò un mattone nella scatola. E lo vieni a raccontare ad una cena con tanti indigeni anche loro, e magari ti aspetti anche che non ti prendano per il culo.

Non molto tempo fa vidi un tizio mulatto o forse indiano, non ricordo bene, sempre in quella piazza, che notò una bottiglina d'acqua a terra, mentre passeggiava diretto chissà dove, si abbassò e lestamente la prese con sé, continuando per la sua strada. Siamo arrivati a questo? Cioè vi rendete conto? Una bottiglina d'acqua, chiunque può avere dell'acqua in questo mondo. Eppure se ne trovi una a terra non la lasci lì. Siamo in guerra.

Torniamo a Matteo. Conosce molto bene la stazione ferroviaria e tutto quest'ambiente pieno di colori e odori provenienti da tutto il mondo. Si potrebbe paragonare questo luogo al suo anniversario, perché in qualche modo ha scandito gli anni della sua vita, le fasi della sua vita. I momenti cardine.

Prima fase. Infantile.

Matteo pensa a quando era un ragazzino ed era eccitato quando il padre gli proponeva di accompagnarlo al mercato che ogni sabato, ma forse anche ogni giorno, apriva e apre tuttora lì. Quanti oggettini usati, rubati, mezzi-rotti. I primi videogiochi taroccati e i DVD. Gli occhiali che papà decideva di comprare lì, perché in fondo sono tutti uguali. C'è una tipa con cui usciva Matteo che gli disse che il suo ex lavorava da un ottico e che la differenza tra una lente ed un'altra è minima e che in tale modo possono spennare i poveri clienti miopi che non capiscono un cazzo di ottica.
Matteo ricorda di quando quello che vendeva i DVD taroccati dei film usciti da poco al cinema. Quell'uomo era pazzo, urlava come uno appena uscito da una clinica psichiatrica, in dialetto stretto con voce da tenore e grasso com'era sembrava un Pavarotti, che più raggiungeva note alte, più si faceva paonazzo. Rischiava l'infarto ogni sabato. Un giorno morì stecchito proprio lì davanti a Matteo.Era rigido come un tronco d'albero. E rosso come un inglese che ha preso il sole su una spiaggia di Sorrento. Forse anche più rosso. Aveva in mano una custodia di una copia taroccata de "Il Gladiatore" con Russel Crowe. Tanto che aveva sofferto, aveva rotto la plastica all'estremità bassa della custodia, quindi c'era la parte corrispondente della locandina, lì dove finivano le gambe di MassimoRussel il gladiatore in gonnellina, tutta sfrangiata.
I borseggiatori erano più frequenti di quanto lo sia la metropolitana adesso, nel duemilaquattordici. Matteo vedeva le loro mani che si infilavano nelle tasche di qualcuno, che cercava di fare un affare comprando un vecchio telefono a forma di Micky Mouse, ogni cinque minuti.
Il capitone che fugge dal banco del pesce infilandosi attraverso le grate del tombino.
Una graffa a cinquanta centesimi, bianca e candida come la neve, leggera come un piatto da novelle cousine, calda come il sangue dei latini. Il sapore lo sente ancora in bocca, il ricordo di quelle avventure con il padre in quei frequenti sabati riaffiora ancora adesso quando ne mangia una molto simile alle due e mezza di notte dopo litri di birra.
Flash di un ragazzetto che ha conosciuto il mondo in quella piazza.

Tic-tac, il tempo passa e Matteo ricorda. Sorbisce l'ultimo sorso di caffè amaro che gli fa fare una smorfia antipatica, esce dall'affollato cafè. Si accende una sigaretta e guarda il tabellone degli orari. Intercity 590. Frecciarossa. Regionale 24546. I treni gli sono sempre piaciuti, a partire da quelli della metropolitana che prende per tornare a casa. Lo rilassano, lo fanno sentire al sicuro e allo stesso tempo riescono a trasmettergli senso di libertà. Matteo ha spesso problemi del sonno, ma quando è in un treno si riesce a rilassare e come cullato da una madre si addormenta, riposa gli occhi. Il ritmico avanzare del treno sulle rotaie diventa una costante ipnotica, una certezza che gli permette di abbandonare le difese per quel tempo delimitato dai minuti o dalle ore di viaggio.

Seconda fase. Adolescenziale.

I primi tempi che si guida e si prende la macchina con gli amici. Tempi maledetti per l'incoscienza che ci domina. Tempi fantastici per la nostra adrenalina. Matteo ricorda ancora i brividi che provava allora, adesso sembrano fantascienza, adesso si invecchia prima, perché l'opinione pubblica vuole persone responsabili e addomesticate. Lucide. Allegre solo all'apparenza, non davvero, perché può essere pericoloso. L'importante è incarnare l'immagine della felicità: tu, piccolo modello in mano ad una grossa azienda che compra e vende soldi, manco fossero patate. Matteo e i suoi amici premevano l'acceleratore, superavano a destra, in curva, gareggiavano al semaforo con sconosciuti, pur sapendo di non potercela mai fare con i loro catorci. Era giusto l'emozione che può provocare soltanto la velocità. La benzina costava molto meno, macinavano chilometri di asfalto da periferia a periferia, tanto che una volta a Matteo venne la nausea mentre era lui stesso a guidare. Una cosa che non accade mai. Uno dei tanti e ricorrenti giri li portava sempre nella piazza che già aveva segnato la sua infanzia con il mercato. Piazza Garibaldi di notte è un ritrovo di puttane e travestiti, se volete i ragazzini rumeni che fanno le marchette stanno al centro direzionale, poco più avanti. In piazza, Matteo e i suoi amici, passando con la macchina, una sera si accorsero che vi era un folto gruppo di schiave dell'est, con le tette e il culo praticamente scoperti. Quel gruppo c'è sempre anche adesso. Magari sono altre donne, ma sono tutte uguali, l'occhio di uno arrapato non distingue una puttana da un'altra a meno che non sia uno che le voglia uccidere. Quelle dell'est, si sa, sono le più care: considerate soltanto che se andate ad Amsterdam risparmiate. Nei vicoletti a ridosso della piazza ci trovate le schiave africane e le asiatiche, che sono più economiche perché considerate più sporche e botteghe di malattie. Cosa probabile, visto che dai papponi sono usate come macchine per arricchirsi, senza alcuna manutenzione. Sfruttamento. Sono lì a succhiare cazzi senza neanche sapere cos'è l'AIDS. Matteo ricorda ancora quanto quella carne ben messa in esposizione, donne mai viste, alieni che pensava esistessero soltanto nei film porno, lo incuriosivano e c'era un parte di lui che voleva solo fermarsi e scopare nel modo più animalesco possibile, ma poi l'altra parte di lui lo frenava e faceva leva sull'infinito amor proprio pur di evitare una cosa simile. Non pagherò mai per fare sesso. Nessuna questione morale. La morale la butti nel cesso quando sei un animale. E l'istinto sessuale non ha morale. Matteo, che grand'uomo! Non pagherà mai per fare sesso, e ancora adesso non gli è mai successo. Si ritiene un grande dongiovanni, non pagherà mai per il sesso. Al diavolo se sono schiave sfruttate e sifilitiche. Non è quello che importa. Lui non paga. Piuttosto vorrebbe essere pagato per fare sesso. Matteo, quella sera fissò il suo sguardo su una sagoma slanciata e un po' più coperta sul petto rispetto alle altre. Una donna evidentemente dell'est, con un passo elegante e uno sguardo intelligente. Lei anche lo fissò e non gli fece alcun gesto. Lo guardava soltanto, fisso, negli occhi. Un'espressione unica, cristallina. Matteo ricambiava lo sguardo. Il semaforo si fece verde, la macchina ripartì e Matteo non la rivide mai più, ma ancora oggi la sogna la notte. Sogna di affogare nella profondità di quegli occhi.

Matteo è ancora e sempre qui a piazza Garibaldi, duemilaquattordici. Adesso è un posto quasi accogliente la stazione, anzi non si può dire che non lo sia. Bisogna trasformare una stazione in un centro commerciale per renderlo un luogo civile. Mettere le panchine con i braccioli ad ogni posto perché altrimenti i barboni si stendono per dormirci. Pensate che la stazione Garibaldi, prima della ristrutturazione non aveva neanche una panchina per evitare che diventassero dei letti di clochard. Assurdo, eh? Approved by EU. Matteo riflette che negli ultimi periodi della sua vita si ritrova sempre qui per una donna. Nel senso che ha sempre avuto delle donne che venivano dalla provincia o da luoghi un po' più lontani. Ragazze che dovevano prendere un treno o un bus per tornare dalla loro famiglia. Matteo aveva piacere a vivere il momento del saluto, lo trova qualcosa di molto romantico. Alle donne piacciono queste cose, ma anche a lui.
E’ per questo che Matteo divenne l’accompagnatore.

Terza fase. Giovinezza.

Amore. Intercity.
Sesso. Regionale.
Passione. Frecciarossa.

Quando Matteo si iscrisse all'università si innamorò di una ragazza che chiameremo Anna, perché loro erano come Anna Karenina e il conte Vronskij. Se non sapete che cosa vi stia dicendo digitatelo su google.com. Adesso si fa così, no?
Matteo Vronskij e Anna, ebbero una travolgente storia d'amore, che si consumò poi nell'atarassia e nella depressione del nostro giovane eroe - tipica espressione da Henry Fielding. Anna era la donna della sua vita. Erano come due rette parallele che si erano incontrate e non volevano smettere di intrecciarsi a costo di diventare sottili come un filo interdentale. Anna prendeva regolarmente ogni undici giorni un treno per tornare a casa della sua famiglia per poi ritornare nella città di Matteo dopo due giorni. Lui l'accompagnava fino alle porte del treno e non andava via finché questo non partiva. Due giorni dopo, lui era di nuovo lì a quel binario ad ascoltare a ripetizione sempre gli stessi tre spot pubblicitari che trasmettevano gli schermi sul binario, a fumare e ad ignorare reietti umani che pregavano per avere dieci centesimi da usare in dosi di eroina. Matteo Vronskij l'ha vista ristrutturare quella stazione, dalla posa della prima pietra. Quando Anna scendeva dal treno, ogni volta con una capigliatura diversa, era come se non la vedesse da millenni: le saltava addosso abbracciandola e baciandola come un ragazzino. Gli anni passavano e la stazione cresceva: Levi's, Feltrinelli, Hudson News, Foot Locker. E loro due erano sempre lì a salutarsi e risalutarsi, due rette intrecciate che costantemente si allontanavano per un intervallo brevissimo di tempo.
Matteo cadde nel baratro dell'atarassica depressione. Iniziò a sfuggirgli il senso della vita, anche di quella stazione in perenne rinnovamento, il senso di un treno che andava via e poi ritornava. Gli sfuggiva completamente. Anche il senso di Anna, dopo tanto tempo, iniziò a sfuggirgli. Anna lo capì e soffrì, anche se il dialogo non esisteva più fra di loro. Vi erano solo treni ad un determinato orario da prendere e altri che ad un diverso orario che arrivavano, sempre allo stesso binario. E l'intervallo di tempo era sempre lo stesso. Sentimenti automatizzati. A Matteo non piaceva il jazz allora, non capiva quell'indefinitezza compositiva che portava a virtuose improvvisazioni. Un giorno come un altro dei ripetuti e monotoni saluti alle porte del treno, Anna fece scendere una lacrima leggera e in silenzio. Matteo fece finta di non vederla: avrebbe dovuto pensare al suo baratro, al senso della sua vita che gli continuava a sfuggire. Le porte si chiusero e il treno partì.
Quel treno non arrivò mai a destinazione.
 Anna non ritornò mai più da Matteo.
 Qualche ora dopo Matteo sentì al notiziario che quel treno era deragliato e caduto in mare. I sopravvissuti erano pochi e Anna non era tra questi.

Duemilaquattordici. Matteo dà un’occhiata al cellulare, precisamente all’orologio digitale del cellulare. Adesso è superfluo indossare orologi. A meno che non lo si faccia per stile. Che poi è diventato un movimento abituale e comune prendere il cellulare e controllare l’orario, o meglio il cellulare se lo si ritrova sempre in mano. Siamo nell’era della cellularodipendenza. Rispondi alla chat, controlla facebook, pubblica l’ultimo scatto, controlla l’orario, controlla quando passa il bus o la metro, controlla le news, controlla il meteo. Controlla. Mantieni il controllo di tutto. Controllo.
Comunque, Matteo è sempre lì adesso, che passeggia e si allontana dai binari uscendo appena fuori all’entrata secondaria della stazione ferroviaria. E’ lì che accompagnava se non tutti i giorni, molto spesso, una sua fiamma, che chiameremo Eveline. Tira l’ultimo po’  di tabacco compresso, butta il mozziocone. Lo stazionamento di bus regionali. La fermata dove l’accompagnò la prima volta, e tante altre di seguito. Il paletto.
No aspettate, dovrei  passare al corsivo, adesso che sto iniziando con i flashback.
Chiedo scusa.
Ecco, così va meglio.
Un paletto di quelli montati  ai bordi dei marciapiedi per impedire alle macchine di invadere lo spazio vitale dei pedoni. Matteo e Eveline.
Eveline perché ci piace così. Perché la sua storia è simile a quella del racconto di Joyce, e non ci credo che non l’avete mai letto neanche a scuola. Cioè, cazzo leggetelo, saranno al massimo sei pagine. Andate su google e trovatelo.
Due pedoni erano Matteo e Eveline quel giorno che lui l’accompagnò alla fermata e non si aspettava niente, anche se sapeva di avere un potere attrattivo nei suoi confronti. Lei l’aveva conquistato con i suoi occhi, poi con le storie del suo passato e con il suo spirito. La voleva fottere a sangue e glielo diceva tranquillamente, pur sapendo che lei non avrebbe dovuto perché ne aveva un altro. Ma lei si eccitava all’idea. Lei era rapita dal suo sguardo che penetrava alla ricerca di un significato recondito della vita, perso ormai con la morte di Anna. Davanti al paletto, dopo ore di storie e aneddoti raccontati, lei lo guardò confusa e terrorizzata, non ti devo baciare, gli disse. No non devo. Due bacetti sulla guancia come facciamo noi latini. Ferma. Primissimo piano. Occhi confusi e chiari, verdi. Lo baciò. Lo ribaciò giorni dopo. Improvvisavano come in una sonata jazz, note all’apparenza buttate lì, ma con un senso. Scopavano ovunque. Il senso della vita che Matteo aveva perso. Si sentiva una piuma. Finalmente sentiva il bruciore della vita. I morsi di un demone che dentro lo facevano diventare un sessuomane. Evelinomane. Ricorda tuttora il bacio, il sapore bagnato di quel bacio davanti al paletto, o di quello sotto la pioggia come in Match Point. Ti salto addosso e ti mangio. Lei sarebbe dovuta essere il suo frecciarossa. Non aveva mai preso un frecciarossa, troppo caro.
Il sapore della sfogliatella più buona della città, che lei gli fece provare, seppure non fosse di lì. Il misterioso ruolo della piazza iniziava ad avere un senso. Eveline era come un frecciarossa, quindi Matteo decise che avrebbe preso un frecciarossa a caso, deciso da un momento ad un altro, per andare con lei in un posto random. Improvvisazione jazz.
Andiamo, prendiamo un treno, non tornare a casa oggi.
Primo piano. Subito dopo DETTAGLIO delle labbra di lei: se le morde repentinamente e nervosamente.
Piccolo sbuffo dalle narici del naso di lei. Insipida risata nasale (espressione rubata a Don De Lillo in Cosmopolis, lo ammetto: mi piace troppo).
Piano americano: Matteo la cinge a se e la trascina verso il binario quindici. Andiamo.
Mezzo busto di lei [voce di sottofondo dell’annunciatore automatico: IL TRENO FRECCIAROSSA PER *** DELLE ORE 20:25 E’ IN PARTENZA DAL BINARIO QUINDICI]:  Ferma , sorride prima, mette la cosa sullo scherzo (non fate caso alla consecutio temporum mandata a puttane, immaginate a basta). Parole senza consistenza da parte sua, autoconvinzioni stupide.
Matteo dà consistenza alla proposta. Diede. Quello che è. Voleva prendere davvero quel treno. Lei abbassò lo sguardo e iniziò a piangere quindi scappò al paletto e si fermò lì. Torno a casa, gli fece. Matteo capì che era finita. E’ finita quindi, le chiese con profondità drammatica, stile Casablanca- scena finale
. Credo di sì, gli fece lei.
Dissolvenza.
Eveline non morì tragicamente, rimase ancorata al suo mondo stagnante costruito su discariche abusive e apparenze filo-cristiane.
Quel giorno Matteo prese un frecciarossa da solo, ma non saprebbe descrivere quel viaggio. Lo dimenticò totalmente.

Adesso. Ore 18:47, stazione Garibaldi. Matteo non attende nulla in realtà. In realtà ha da poco accompagnato una ragazza a prendere un treno. La ragazza che ritorna al suo paese felice immerso nel verde, dove l’aria è più leggera, dove si respira la primavera anche d’inverno con il freddo. Riflette sulla potenza di questa piazza. La stazione, i treni, le donne, il padre, il mercato, le puttane, i loschi figuri, i cibi esotici. E’ forse questo il significato della vita, un continuo ciclo. Un susseguirsi di anniversari, di situazioni e di eventi, con delle costanti. Anche l’imprevedibilità e il jazz si sono dimostrate costanti della vita di Matteo. Per questo motivo lui è ancora qui, alla stazione centrale. Fa ancora l’accompagnatore. Vive di treni e di animi umani tormentati. La stazione è un posto dove si parte e dove si ritorna, sempre. Una costante. Il treno si muove a differenti velocità, ma la stazione è sempre lì, ferma. Cambia, si evolve, ma il suo animo è sempre quello della stazione. Matteo saluta la piazza e decide di dirigersi alla metropolitana per tornare a casa.
Adesso Matteo si chiede se mai qualcuno lo accompagnerà alla stazione. Il suo ruolo di accompagnatore è una scelta oppure un dovere?
Matteo pensa di dover andare in aeroporto e volare via. Non vedere mai più la stazione Garibaldi? Non fare mai più l’accompagnatore? Una lacrima gli sfugge lentamente nell’imminente barba. Barba salata.
Le scale mobili si bloccano. Rombo di treno nei cunicoli della metropolitana.
Dissolvenza. Due puntini lontani. Ululati di treni, in buie gallerie.
Dissolvenza. Matteo e due lacrime.
Ultima dissolvenza, vera questa.
Fine.

martedì 7 gennaio 2014

Guardo il passato. - Parte II

 Ispirato alla poesia "Angelo, guarda il passato", di Thomas Wolfe.

  



[…]
Non posso credere che lo sto facendo davvero.
“Lo sai, vero, che ogni cosa ha il suo prezzo?”
“Si, Smilzo, e so anche che i tuoi sono salati come l’acqua di mare.”
I dieci giorni successivi all’incontro sono stati un inferno. Poco appetito, apatia, persino il sonno mi era diventato movimentato, quando c’era. E fosse solo questo. Non penso sia mai bello svegliarsi pensando di stringerla e ritrovarsi tra le braccia un lenzuolo aggrovigliato, e la scena si è ripetuta fin troppo spesso. E fin troppo spesso ho sfiorato le lacrime. Ed erano solo dieci giorni.
Rischiavo di arrivare al prossimo incontro come uno scheletro, e per questo ho deciso di rivolgermi a lui. Devo trovare il modo di distrarmi, di uscire dalla mia testa, di vivere meglio l’attesa, e lo Smilzo in fatto di distrazioni è il miglior contrabbandiere del complesso. Ma naturalmente, in un mondo senza denaro, si ricorre al baratto. E trovare qualcosa che possa interessare allo Smilzo è come cercare un ago in un pagliaio.
“Su, vediamo cosa mi hai portato.”
Svuoto scocciato il contenuto del sacco che mi sono portato appresso, pensando tra me e me che deve ringraziare Dio o chi per lui che il contrabbando è tollerato dai piani alti perché da un’idea meno oppressiva del sistema se ora si trova li a fare il borghesotto da quattro soldi con la sua aria schizzinosa piuttosto che spalare merda nelle fognature.
Ma tu guardalo con che aria di sufficienza si mette a fissare la roba. Lo vedo ogni tanto soffermarsi su cornici, spille, collane e osservarle come se fossero ciarpame. Si ferma solo su un ciondolo dorato, che non ricordo nemmeno dove lo abbia trovato.
“Va, perché sei tu, questo può andare bene.”
Rimette le altre cose nella borsa, porgendomela. Non appena faccio per afferrare la borsa, mi sento afferrare per il bavero. La bocca di quel bastardo… me la sento alitare in faccia.
“Mettiamo le cose in chiaro prima di andare avanti. Tu non sei mai stato qui. Non mi conosci. Non sai dove hai preso quello che stai per prendere e sicuramente non in un posto qui vicino. Non provare a fregarmi, che giuro su Dio che ti ritrovi in  una fossa. Sono stato chiaro?”
Mi levo le mani di dosso in malo modo, guardandolo in cagnesco.
“Lo prendo per un si. Avanti, seguimi.”
Colpisce un paio di punti nella parete, che si apre su di un corridoio poco illuminato. Lo vedo prendere una torcia, e farmi ancora cenno di seguirmi.
“Non ho ben capito cos’è che stai cercando. Più avanti ci sono giochi, svaghi vari, mentre a sinistra ci sono i libri. Quelli si che sono difficili da reperire al giorno d’oggi…”
E ci credo, se ci fosse libertà di stampa si darebbe uno strumento troppo potente in mano agli “anti-conformisti”. Anche alla libertà fittizia c’è un limite.
“Mi serve qualcosa che mi prenda, che mi faccia distrarre, e che sia duraturo. Penso che non sia il caso dirottarsi per i giochi da tavola. Oltretutto, da solo non è che sia questo gran passatempo…”
“E allora, all’ala dei libri.”
Giriamo a sinistra, arrivando in una stanza particolarmente chiusa. L’odore di chiuso è palpabile, così come la polvere. Mi porge la torcia, invitandomi a cercare in mezzo a quegli scaffali disordinati. Non mi sembra particolarmente voglioso di accompagnarmi nell’impresa. Sospiro. Entro nella stanza, strappandogli la torcia di mano. Passo giusto una mano sul dorso di alcuni libri, e un alone di polvere si solleva nella stanza. Tossisco, bestemmiando tra me e me, mentre inizio a leggere i vari titoli. Si passa dal Ritratto di Dorian Gray, a Così Parlo Zarathustra, a Uno, Nessuno e Centomila. Tutti libri che non ho nemmeno lontanamente idea di cosa parlino. Tanto vale andare a caso, tanto per quel che ne posso sapere…
 Chiudo gli occhi, e mi limito a passeggiare su e giù per la stanza, lasciando volteggiare la mano così, a casaccio. A un certo punto mi fermo, indicando un libro particolare. Tra l’altro, al tocco, avverto una sensazione strana. Non so se sia per il rilievo del titolo o non so cos’altro, ma decido di prenderlo.
Lo porgo allo Smilzo, che lo afferra e soffia via la polvere dalla copertina.
“Che tu sia per me il coltello, di David Grossman, eh. Parla di due tizi che si mandano lettere d’amore, o cose simili. Sei sicuro?”
Annuisco con forza, strappandoglielo di mano.
“Contento tu…”
[…]
Sto iniziando a perdere la pazienza.
Sono ormai ore che aspetto nell’oscurità, sentendo il cuore sobbalzare ogni volta che sento passi in vicinanza.
La prima volta erano tipi dei comizi che parlavano tra di loro, da cui mi sono dovuto nascondere per non perdermi in chiacchiere che sarebbero durate millenni. La seconda volta era la ronda, e nel terrore mi sono raggomitolato nell’ombra, in un angolo, pregando con tutte le mie forze che non mi scoprissero. E’ stato con un sospiro di sollievo che li ho visti passare avanti, senza rendersi conto di niente. La terza volta era solo un cazzo di ubriacone che poteva solamente attirare l’attenzione di chi non doveva.
Mi sono rotto il cazzo di cagarmi addosso per niente. Eppure doveva già essere qui. Sta andando avanti da un po’ sta storia, ormai dovrebbe essere routine. Ogni due giorni qui, all’angolo, dove le luci sono più fioche. E’ una pratica collaudata, dannazione, sarà almeno la quinta volta che la facciamo, da quando sono andato dallo Smilzo e ho parlato ad Adrienne di quell’idea.
Ricordo ancora il volto incredulo quando le ho detto di iniziare a scambiarci lettere, per diminuire l’angoscia dei venti giorni di lontananza ogni mese, per avere l’illusione di stare vicini nonostante questo clima di terrore di merda che ci circonda, un po’ come in “Che tu sia per me il coltello”.
Già, da lì avevo preso l’ispirazione… mi piaceva il modo in cui i personaggi si mettevano a nudo con delle semplici parole scritte… sembra quasi di conoscersi meglio in quei dieci minuti che ci vogliono a leggere una lettera che a stare mano nella mano per mesi…
Passi.
Mi nascondo veloce nell’angolo, appiattendomi sulla parente per quanto sia possibile. Cerco di distinguere una forma nell’ombra, di capire chi sta arrivando. Si muove furtivo, questo è certo.
Che sia l’uomo del colonnello?
Gli istanti sono scanditi dal basso suono dei passi. Uno. Dopo. L’altro.
Lentamente vedo qualcosa affiorare dall’ombra. Si vedono stralci di pantaloni, si intravede la stazza della persona. Un uomo magrolino, cauto, che si muove lento, guardandosi attorno.
Sento un sibilo uscire dalle sue labbra.
“Sei li?”
Sussurra piano, nell’ombra, con tono nervoso, mentre la sua figura ormai si riesce ormai a vedere del tutto,nonostante sia ancora un po’ ammantata d’ombra.
“Ce ne hai messo di tempo.”
Rispondo, avvicinandomi lentamente. Di tutta risposta mi prende per la casacca e mi spinge con lui nell’ombra.
“Sei impazzito? Come diavolo ragioni? Esci così, senza pensarci, senza neanche chiederti se sia un uomo del colonnello o uno venuto a stanarti. Porca puttana, devi essere cauto, qui stiamo infrangendo la legge!”
“Si, ho capito, hai ragione!”
Taglio corto io, staccandogli piano la mano dalla casacca.
“Non ci avevo pensato, sembrava che sapessi fin troppo bene che ci fosse qualcuno li ad aspettarti.”
“I tempi non sono più tranquilli, imbecille. Accortezza è la parola d’ordine. La prossima volta vedi di ricordartene.”
Sbuffo, annoiato dal sermone. Ma anche volendo non avevo modo di ribattere. Aveva ragione su tutti i fronti, purtroppo.
“Tagliamo corto. Hai cosa mi dovevi portare?”
“Si, è qui. Ho trovato enorme difficoltà ad aggirare le ronde stavolta… si vede che non c’è un comizio oggi.”
Mi porge un piccolo tubo metallico, che gli strappo velocemente di mano.
“Domani alla solita ora?”
Gli dico semplicemente.
Mi fa cenno di sì, e mi saluta, sparendo di nuovo nell’ombra.
Lo imito, dirigendomi verso la mia cella, cercando di sentire ancora qualsiasi passo nelle vicinanze.
Stringo ancora forte il tubo in mano...mi ritrovo impaziente come tutte le volte.
Non resisto, mi fermo in un angolo poco battuto nelle ronde e lo apro, tirandone fuori un foglio di carta.
Sento il cuore battere, mentre scorro veloce le mani sulle lettere.
Arrivo alla fine, e i battiti non li sento più.
[…]
“…”
“…”
“Quindi… ne sei certa, non è così?”
“Diciamo che i dubbi sono veramente pochi, mettiamola così.”
“E… quando lo avresti scoperto?”
“Beh, non ho ciclo, ho nausee e cazzate varie, uno fa due più due.”
“Quindi non sei andata da un medico per chiedere…”
“Non ho voluto rischiare. Non serve che ti spieghi, no? Quello che arriva ai medici arriva a loro.”
“Già…”
“…”
“E adesso?”
“E adesso… adesso tiriamo avanti. In fondo il Sistema voleva che facessimo proprio questo, no? Procreare, e ci siamo riusciti. Se lo vengono a sapere…”
“Quanto tempo pensi che ci voglia?”
“Mah, tre, quattro mesi circa immagino. Il tempo che la cosa diventi lampante e che non possa più giustificarlo con un leggero sovrappeso.”
“E poi…”
“Poi sarò automaticamente esclusa dalle camere di replicazione fino al tempo necessario per partorire e per svezzare il bambino… almeno sei mesi, immagino.”
“Sei mesi…”
“Si, sei mesi almeno, se siamo fortunati.”
“…”
“…”
“Sto per diventare padre…”
“Per quel che vale, lo sai come funziona qui. Non vedrai mai tuo figlio… tecnicamente non dovresti nemmeno sapere di averne uno.”
“Lo so, ma la nostra situazione è diversa, no?”
“Non illuderti, tutto è diverso, ma nulla cambia qui. Non mettere false speranze, quel modello di famiglia è morta tanti anni fa. Non puoi nemmeno starmi vicino in questi momenti, a stento ci vediamo 4 volte al mese per qualche ora.”
“Lo so… però è strano. Conosco il volto della madre di mio figlio… conosco la sua voce, il suo sorriso. E’ strano… sembra di sentire la stessa tensione che ha sentito mio padre o il padre di mio padre. Mi sembra che si sia tornati alla normalità… per quel che può essere considerato normale…”
“…”
“E così, altri quattro mesi. Poi non ci vedremo più per un po’.”
“Ma sono ancora quattro mesi, no? Godiamoceli almeno. E poi abbiamo le lettere, no?”
“…Non so se resisterò.”
“Lo capisco, ma non abbiamo alternative purtroppo. Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima…”
[…]
Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima.
Sono passati quattro mesi da quando Adrienne mi ha detto quelle stesse parole. E questo è il primo mese in cui non ci vedremo.
Pensavo che non avrei avuto molta voglia di uscire, che sarei stato un po’ scostante, un po’ chiuso in me stesso, in definitiva triste, ora che l’unico modo che avevamo per parlarci erano delle parole su di un pezzo di carta.
Mi sbagliavo. Va molto peggio.
Ogni secondo che non passo a spaccarmi le mani per un tozzo di pane lo passo li, chiuso nella cella, con la sola compagnia di quel libro e delle innumerevoli lettere che quasi sommergono quel posto. Le avrò lette ognuna una dozzina di volte. E ogni giorno ne arrivano di nuove. Ed ogni giorno ne scrivo una, due, dieci, chiuso in un flusso di parole dal quale non voglio uscire per avere l’illusione di vivere un rapporto vero, di poter sentire la sua voce mentre dice le parole che mi scrive ogni giorno. Un’illusione di un rapporto vicino, che in realtà è separato da mura di ferro.
Mi manda ogni giorno notizie, ha fatto persino la prima ecografia. Ecografia di cui non ho chiesto il risultato. E’ vero, tecnicamente l’idea del sesso del bambino non dovrebbe cambiare nulla.
Già, non dovrebbe. Ma anche la sola idea di non sapere se è un maschio o una femmina rende il pensiero ancora informe, immateriale, distante da me. Riesco ad evitare di renderlo realtà. Se sapessi che è maschio, cosa mi fermerebbe dal vedere nella mia testa l’uomo che ne uscirà, così simile a me, ma con gli stessi occhi ipnotici della madre? Cosa eviterebbe di immaginarmi una Adrienne più giovane, con i miei stessi capelli che le incorniciano il viso, se sapessi che è femmina? Cosa eviterebbe di immaginarli piombati in questo inferno anche loro, innocenti, schiavi di un regime che li allontana dalla madre e da loro stessi?
Risuonano ancora le sue parole nella mia testa.
Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima.
Vorrei urlare, alzarmi, unirmi a loro, trovare la forza di combattere, di liberarmi, di liberarci.
Ma la forza è l’unica cosa che mi permette di andare avanti ora. A tempo debito, quando quel calvario sarà finito, tornerò a partecipare alla rivolta, a cercare consensi, a cercare aiuto.
Ora… ora devo aiutare me stesso.
[…]
“IL-CANDIDATO-46219-E’-PREGATO-DI-RECARSI.. “
“Si si si, alla stanza 203, la so la solfa.”
Interrompo la voce robotica e mi fiondo come una furia all’interno del corridoio, col cuore che batte all’impazzata. Ho aspettato tanto questo momento, sei mesi lunghissimi che sono sembrati quasi anni, a vivere come un topo di biblioteca con le lettere come compagne di vita e il libro come cuscino. Le immagini della persona che mi aspetta diventano più vivide ad ogni passo, e questo non fa altro che rendermi più impaziente.
Senza che me ne renda conto, non sto più camminando. Corro, nell’oscurità, inciampando un paio di volte in quel cazzo di terreno a cui non fanno MAI la manutenzione. Mi sembra quasi di vedermi, la prima volta che camminavo nella penombra, cercando la camera 203. Eccola li, un paio di stanze ancora, sulla destra. Eccola, Eccola, ECCOLA.
Sbatto i pugni sulla porta, come per metterle fretta, e finalmente si spalanca. Faccio qualche passo dentro, vedendo una figura muoversi nell’ombra. Sento l’elettricità nell’aria, palpabile.
Un  istante e le luci si accendono. Un istante e gli occhi si abituano. Un istante e la vedo li, come la prima volta, appoggiata al muro. I capelli le sono cresciuti, arrivando quasi alla spalla, ma gli occhi, gli occhi sono quelli.
“Adrienne…”
“Ehi-“
Mi muovo veloce, poggiandole le dita sulla bocca.
“Parliamo dopo.”
La bacio, la tocco, la rendo ancora mia.
[…]
“…”
“…”
“Beh…”
“Si?”
“E’ che…non so cosa dire. Cioè, so cosa dire, Dio santo è passato così tanto tempo, per forza so cosa dire. Ma non riesco ad iniziare. Sono successe così tante cose…”
“Come sta?”
“Chi?”
“Lei. O lui, questo non lo so ancora.”
“Benissimo, dovresti vedere, è adorabile.”
“Come si chiama?”
“L’ho chiamato Steve, anche se non so se gli rimarrà quel nome. Sai come funz..”
“Steve… un maschio…”
“Si. Ti assomiglia molto, sai? Ha i lineamenti spiccicati ai tuoi. E gli stessi occhi, se è per questo.”
“Beh, non so quanto gli convenga…”
“Ma smettila, cretin… ehi, smettila di farmi il solletico.”
“Ma quale solletico, ti sto solo sfiorando.”
“Si ma mi fai il solletico.”
“Mo te lo do io il solletico.”
“Cosa? No, ti prego, AIUTO.”
“Ma sentila come urla. Stavi dicendo?”
“Oh, niente, dicevo…ah ecco, lì va meglio…dicevo che è bellissimo. Non sai quanto vorrei che lo vedessi…”
“A questo ci pensiamo dopo.”
“Che vuoi dire?”
“Lo hai detto tu, no? Lì va meglio.”
“Ma non sai pensare ad altro?”
“Se vuoi farti prendere sul serio, almeno non sorridere.”
“Touché.”
“E ora silenzio, fammi lavorare.”
“…ai suoi…ordini.”
[…]
“Come stiamo messi?”
“Lo vedrai quando arriviamo, fidati di me.”
Cammino fianco a fianco col colonnello, percorrendo il corridoio ad ampie falcate, nella penombra. L’intero complesso sembra particolarmente animato, stanotte. C’è nell’aria un’elettricità che non ricordo di aver mai sentito prima, e mi sembra di percepire come un brusio di sottofondo, come tanti passi in lontananza, tutti diretti nella stessa direzione.  La stessa in cui andiamo noi.
Camminando faccio per superare una porta, continuando per il corridoio, ma la mano del colonnello mi inchioda sul posto. Il volto barbuto si apre in un sorriso.
“Siamo arrivati, giovane.”
Lo guardo stranito. All’apertura delle porte, invece, divento incredulo.
In passato avevo partecipato ad alcuni comizi, e da poco mi ci stavo riavvicinando. Ma in genere si tenevano in un piccolo spiazzale, magari una vecchia medicheria, a volte addirittura la dispensa. Posti piccoli insomma. La mensa, invece, è enorme, strutturata per ospitare tutti gli ospiti del complesso. Ed è quasi piena.
Riconosco qualche volto, gente con cui lavoro di solito, perfino lo Smilzo era presente.
“Diciamo che mentre stavi appresso ai problemi di cuore noi ci siamo estesi.”
Ride, il colonnello, e io rido con lui. Mai avrei pensato che le operazioni fossero arrivate fino a questo punto.
I consensi erano aumentati per davvero, o per lo meno lo erano gli interessati. Per la prima volta nella mia vita l’idea di poter fuggire da quel posto, di poterci riappropriare delle nostre vite, non mi sembrava più un’utopia.
"Non correre, però. C’è ancora molto lavoro da fare.”
La frase mi colpisce come un pugno allo stomaco, mentre mi giro a guardarlo interrogativo. Il volto del vecchio si fa triste, affaticato.
“E’ vero, le quotazioni sono aumentate, se possiamo dire così. La gente inizia a sentir parlare seriamente di noi, non siamo più sconosciuti, ma comunque la maggior parte delle persone presenti sono semplici curiosi o poco più. E tra i volontari, in ogni caso, le persone pronte all’azione sono insufficienti per avere dei risultati. Stiamo aumentando il ‘giro’, e le persone che si sono unite ultimamente stanno imparando in fretta,  ma ci vorrà ancora del tempo.”
Faccio qualche passo, stranito. Il colonnello rimane a fissarmi.
“Mi dispiace, ragazzo, so che…”
“QUANTO tempo, precisamente?”
Il vecchio rimane interdetto, preso dall’improvvisa domanda. Lo vedo riflettere un po’, come a fare dei conti.
“Un paio d’anni, qualche mese in meno se ci diamo da fare.”
“Troppo. Dobbiamo essere più veloci, dobbiamo cercare di dimezzare almeno il tempo.”
“…ragazzo, lo so che cosa ti passa per…”
“NO, COLONNELLO, LEI NON SA. Immagina, gliene do atto, ma non sa.”
Rimane in silenzio, con un’aria preoccupata. Mi appoggio al muro, sentendo la frustrazione assalirmi.
“Non sono come tutti gli altri che stanno qui, a perdere il tempo, no, non lo sono più. Lei può capirmi, colonnello, lei non è figlio di questo mondo. Lei SA come dovrebbero essere le cose, le ha vissute. Io… io sono diventato padre. Ho un figlio, colonnello, non è una supposizione. Un maschio, di un paio di mesi. Lei sa cosa succede ai bambini, colonnello, lo sa bene. Ho poco tempo. Poco tempo, per Dio. Quando avrà raggiunto l’anno e mezzo di vita, quando potrà essere più gestibile, quando non potrà più essere considerato un neonato… ce lo strapperanno via, colonnello. Il piccolo Steve… e non so nemmeno come è fatto.”
Crollo sulle ginocchia, rimanendo aderente al muro, il volto nelle mani, l’iperventilazione in arrivo.
“Mi deve aiutare, colonnello, lei sa cosa significa. Non posso lasciare che la mia famiglia finisca nelle loro mani. Non posso, Dio, non posso…”
“…Farò il possibile, figliolo…farò il possibile…”
[…]
Vengo accecato dalla luce del sole come un detenuto dopo mesi di isolamento.
Ed effettivamente, pensandoci, non si è così lontani dalla realtà. L’aria fittizia, coi suoi aromi pseudo naturali, riempie i miei polmoni, lasciandomi quella sensazione di freschezza. Non so se è questa combinazione di sensazione, o quello che sto, stiamo per fare, ma mi sento vivo.
Guardo intorno, cercando di distinguere le varie facce che mi circondano, cercando quel paio di occhi.
Mi avvicino a piccoli passi, gli occhi fissi su una figura seduta all’ombra di un albero.
Non cerco di nascondere il rumore, non ne ho bisogno. Qualche secondo e lei mi guarda. Gli occhi si spalancano per un istante, per poi distogliersi dai miei.
Mi appoggio all’albero, vicini quel che basta per sentirci parlare.
“Ciao.”
“Si può sapere che fine avevi fatto?!”
“Ho avuto un po’ da fare.”
“Sono due mesi che ti invio lettere senza avere risposte. Di un po’, hai idea di che cosa mi è passato per la testa? Sono due mesi, porca puttana. Pensavo ti avessero scoperto, o chissà che altro-“
“Lo sai che se mi avessero scoperto sarebbero arrivati anche a t-“
“-e poi, dal nulla, una lettera, ieri, per dire di vederci qui, all’ombra di sto cazzo di albero, e non so nemmeno per quanto. Secondo te è così facile per me muovermi ora che ho Steve? Ho dovuto lasciarlo ad una delle mie vicine, così, all’improvviso. Tutto perché…non lo so perché, e ora, ORA mi devi spiegazioni.”
“Non guardarmi così, lo so, non mi sono fatto sentire per un po’, ma credimi, è l’ultima volta.”
“Ti aspetti che ti creda?”
“Devi farlo, perché è quasi finita. Ce la stiamo facendo, Adrienne, manca poco, veramente poco-“
“Poco per cosa?”
“Perché io, te, il piccolo Steve finalmente diventiamo una famiglia. Tra due giorni c’è la nostra occasione. Non so i dettagli, il colonnello non mi riferisce molto. Per proteggermi, dice. Ma il regime cadrà. E’ certo. Tra due giorni io e te ce ne andiamo, ci liberiamo. Ti porto nel nostro complesso, lontano dai guai, lontano dai disordini, dove tutto quello che dobbiamo fare è aspettare.”
“…Non ci credo…”
“Devi, piccola mia, finalmente sta per finire l’agonia-”
DON. DON. DON. DON.
“…dobbiamo andare.”
“Dopodomani, all’incrocio che ti ho scritto sulla lettera. Vieni li, dove i complessi confin-“
“Si, si, ho capito. Ehi…”
“Cosa?”
“Ti ho portato un regalo. Ora devo andare.Dopodomani allora.”
“…si…dopodomani, senz’altro.”
Stringo in mano una busta, mentre la vedo allontanarsi, perdendosi tra la folla.
[…]
Manca poco ormai.
Sto li da poco più di un quarto d’ora, ma mi sembrano passate ore. O secondi. Scorro la mano sulla parete di quell’apparente vicolo cieco, sentendo sotto le mie mani, ben nascoste, i segni del lavoro degli uomini del colonnello. Fessure quasi microscopiche, che delineano una grezza porta, dietro al quale sta per arrivare lei. E lui.
Pochi minuti, e non dovrò più aspettare, pochi minuti e non ci sarà più nessuna stanza 203, nessun candidato 46219, niente di tutto questo. Solo un uomo e una donna. E il loro bambino.
Stringo nelle  mani ancora quella busta, tirandone per l’ennesima volta fuori il contenuto. Mi perdo a guardare ancora quelle foto, quel viso così giovane, con pochi dentini, incorniciato da quei ciuffi biondi. Un innocente lello che sorride, forse senza rendersi nemmeno conto per davvero di cosa sta vivendo. E’ strano guardarlo e sapere che tra poco lo potrò stringere tra le mie braccia, fuggendo da questo inferno di lamiere.
Dei passi? Mi è sembrato di sentire come un fruscio. Mi guardo attorno, cercando di notare anche il minimo movimento. No, non c’è nessuno. Forse…
Spalanco la porta, spingendola forte, e affacciandomi su un’immagine speculare dello stesso corridoio. Ma non c’è nessuno. Nessuno… aspetta…
Vedo finalmente qualcuno girare l’angolo. Una donna, bellissima, imbacuccata in teli scuri che fanno vedere solo gli occhi del suo volto, e quelli mi bastano. La vedo portare in braccio un piccolo fagotto, che immagino essere lui. Il volto mi si illumina di gioia, e vedo anche il suo sguardo brillare.
Faccio per aprire bocca, chiamarli, ma l’orrore si impadronisce di me, quando vedo un’ombra nera apparire dietro di lei dall’oscurità. Poche scintille, e la vedo cadere a terra.
“No…No. NO. ADRIENNE! STEV-“
Poche scintille, e cado a terra anche io.
[…]
“Ma…cosa…cosa diavolo sta succedendo. EHI, RISPOND-“
“ORA le domande le facciamo noi.”
La voce mi zittisce con fermezza. Le luci improvvisamente si accendono. Abbasso la testa, accecato, cercando di abituarmi in fretta. Mi guardo, trovandomi legato ad una sedia. Legato bene, aggiungerei, visto che non riesco a muovere nemmeno un muscolo. Alzo lo sguardo lentamente, e vedo un uomo, con un vestito bianco elegante,  dietro ad una scrivania, frapposta fra noi, che mi fissa, lo sguardo coperto da un paio d’occhiali da vista. Ci metto qualche secondo a riconoscerlo. Di tutta risposta sputo sulla scrivania.
“Non la passerai liscia, maledetto bastardo. I tuoi giorni lassù stanno per finire e-“
Vengo fermato da un suo gesto, e vedo con orrore una testa mozzata rotolare. Quasi mi sembra di poter sentire la sua risata bonaria, mentre vedo il volto del colonnello deturpato dal terrore.
“Immagino che le tue speranze fossero tutte chiuse dietro questo omuncolo qui. Il capo della ribellione, uno degli intermediari tra noi e voi. Una buona pedina, senza dubbio, ma spero vivamente che non credeste di avere veramente la situazione tutta sotto controllo.”
Rimango allibito, mentre sento il calore correre via dal mio volto. Tremo, e non so se sia per il terrore o per altro. L’uomo si alza, avvicinandosi a me, a piccoli, piccolissimi passi.
“C’eravate andati vicini, ve ne do atto. Ho visto che stavate preparando qualcosa di grosso. Se ce ne fossimo accorti qualche giorno dopo, forse sareste veramente riusciti a metterci in crisi. Ma ciò non è avvenuto.”
Si siede sulla scrivania, e sento il suo alito su di me. Sorride, ma il volto non esprime nessuna emozione.
“In fondo forse dovrei ringraziarti. Sai, non c’è più grande colpo al coraggio di un popolo del vedere una grande speranza, che sembrava potesse diventare realtà, cadere miseramente su se stessa in piccoli, insulsi pezzi. Sapevamo da tempo che prima o poi avreste cercato di ribellarvi, era solo una questione di tempo. Ora, di tempo ce ne sarà ancora di più…”
Si ferma per qualche secondo, fissandomi senza un battito di ciglia. Quindi scoppia a ridere.
“Stai tranquillo, ragazzo caro, non ti ucciderò. Non offrirò al popolo un martire. No, tu e il tuo insulso tentativo di rovesciare tutto, tu e la tua ribellione, tu e il tuo tentativo di provare persino amore, tu e il tuo fallimento rimarrete d’esempio. Sei l’uomo attorno al quale è girato tutto questo disordine, tutta questa speranza fittizia. E tornerai come un rudere a strisciare, sotto il mio regime. In fondo sei giovane, un ottimo lavoratore, nonché un ottimo modello genetico, a giudicare da tuo figlio. Mi sarai più utile da distrutto che da morto.”
Non so a quel punto come reagire. Sento come un caos di emozioni, tra lo sconforto di quello che era come un padre per me, al sollievo nel sapere che sono salvo, alla vergogna per il fatto stesso di sentirmi sollevato, quando in molti sono morti per il mio egoismo. Per me e per…un attimo.
“Aspetta un secondo. E Adrienne?”
“Adrienne? Ah, forse intendi quella lavoratrice che abbiamo catturato insieme a te. Oh, lei non ha avuto lo stesso privilegio. Non c’era nessuna utilità nel mantenerla in vita. Aveva superato i trentacinque anni, anche se avessi voluto utilizzarla ancora nelle camere di replicazione avremmo rischiato dei bambini deformati, o chissà che altro. Oltretutto sapeva troppo, ed è meglio lasciare il compartimento femminile nell’ignoranza, d’altronde è quello che meno ci sta dando problemi. L’ho fatta giustiziare sul posto, non ci serviva più.”
Silenzio. Disperazione. Battiti che si fermano. Poi il buio…

“Fratello?”
Una voce mi fa sussultare dallo stato di trance in cui ero entrato. Mi guardo attorno, vedendo gli sguardi fissi su di me. Rimango stranito, chiedendomi cosa ci sia da guardare, perché diavolo mi osservino.
“Fratello… tu non sei più lo stesso da troppo ormai.”
Vedo il capo del comizio scendere dal tavolo, avvicinandosi a me.
“Lo sappiamo tutti che la morte del colonnello ha colpito più te di chiunque altro. Era un grande uomo, e un caro amico, e tu eri come un figlio per lui. Quella notte… si, non serve che ti racconti gli orrori che ho visto quella notte, quando ci fu l’imboscata che ci ha tagliato le gambe. Ma guardati attorno, le forze sono tornate, siamo di nuovo qui. Lui… lui vorrebbe certamente che tu andassi avanti. Fratello-“
“Fratello? FRATELLO?!”
Esplodo, di un’ira che non sentivo animarmi da troppo.
“Come osi chiamarmi così? Chi sei mai stato tu per me, eh? Non so nemmeno come ti chiami, per Dio. E mi chiami fratello, pretendi di capire che cosa ho passato, che cosa ancora passo, cosa mi ferma magari, eh? TU NON SAI NIENTE.”
Mi alzo di scatto, muovendomi ad ampi gesti, fuori di me.
“Guardati attorno, guardati veramente attorno. Credi veramente di essere anche solo lontanamente vicino a raggiungere VERAMENTE le forze necessarie per rovesciare questo governo del cazzo? Sei un illuso. Ecco i tuoi cari fratelli. Spaventati. Curiosi. Nullafacenti. Gente che si trova qui quasi per caso. Gente che non sa cosa aspettarsi, che non è unita, che non ha nessun collante. Vuoi sapere cosa succederà? Succederà che alla prima testa mozzata tutti quanti fuggiranno nelle loro celle, nascondendosi alla vista, e pregando vivamente che non sia anche il loro turno. E’ questo l’esercito che tieni per mano. Un esercito di egoisti, ignoranti e impreparati omuncoli che non tarderà a voltarti le spalle quando le cose si faranno serie.”
“Adesso stai esagerando, frat-“
“Ancora FRATELLO? Ideali come la fratellanza, la famiglia, la fiducia nel prossimo sono finiti, caro mio, FINITI. Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Ci sono attorno a me almeno dieci coetanei, bastardi senza natali che potrebbero tranquillamente venire dalla stessa madre o addirittura dallo stesso padre senza che nessuno di loro abbia qualsiasi mezzo per poterne avere la certezza. Come pretendi di fare una rivoluzione, quando non c’è unità, non c’è discendenza, non c’è NIENTE. Chi di noi ha guardato nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre uno sconosciuto e un solitario?”
Tutti tacciono, impietriti. La verità li colpisce al volto come pietra, ed eccolo li, il popolino, che si guarda attorno con dubbio e diffidenza, cercando risposte a domande che non sanno a chi porre.
Sospiro, calmandomi. So bene che non serve a niente, so bene che sto solo perdendo tempo.
“Cosa vorresti da me? Che ti dia una mano? Che guidi con te questa gente? Mi dispiace, non posso farlo. Non a queste condizioni, non con questi rischi. E’ una strada che ho già percorso, una strada di cui ho visto la fine, e mi ha reso quello che sono. Un fantasma. No… non contare su di me, ‘fratello’.”
Esco velocemente dalla mensa, contornato da silenzio e sguardi spenti. Mi sembra di risentire nella mia testa tutte le parole che si sono abbattute come macigni su quei poveri idioti che hanno fatto l’unico errore di cercare una speranza in un mondo che non farà altro che distruggerli. Come hanno distrutto me.
Corro, corro senza rendermene conto. La mente vaga, facendomi rivedere tutto. Rivedo i sorrisi. Rivedo i pianti. Le nocche fratturate su un muro di lamiera. La carta bruciata. Il coraggio che viene a mancare ad un passo dal farla finita. Rivedo tutto, tutto quello che mi ha reso quello che sono ora. E i piedi corrono, corrono, come se fossero animati per conto loro, e mi ritrovo di nuovo li, di fronte all’Area Verde di quel giorno di più di venti anni fa, più morto che vivo, sotto il peso di ricordi che rendono ancora più invivibile il presente.
E alla fine decido.
Stringo forte i pugni, sentendo lacrime di ira scendere sulle guance. Ogni passo è pesante, come se ai piedi avessi pilastri di cemento. Ogni respiro è affannoso, come se non ci fosse abbastanza aria intorno. E comunque, con estrema, quasi paradossale facilità, la porta cede sotto i miei calci.
Mi appoggio di nuovo con la schiena sotto quell’albero, e sento ancora la busta con le foto di Steve nella mia mano, e la rivedo allontanarsi, per l’ultima volta.
Sorrido amaro, facendomi forza. Per quanti anni siano passati, il mio tempo è finito lì, e ormai non mi rimane che aspettare
Già, il mio tempo è finito, ma loro, quegli stolti che stanno li a farsi riempire la testa di slogan alla ricerca di un sogno, loro, nella loro ignoranza, sono ancora vivi. E darò loro qualcosa di vero, qualcosa che li unisca davvero. Il mio regalo d’addio, a loro… e a tutto il resto.
E’ col sorriso sulle labbra che accolgo i pesanti passi della milizia. In un istante, tutte le luci sono puntate sul mio volto, mentre mezza dozzina di uomini armati puntano verso di me.
“Alza le mani, bastardo! Lo sai che non si può entrare qui, specialmente durante il coprifuoco. La nostra pazienza è finita!”
Urla , quello che sembra il capo della combriccola. Mi riconosce, ma io non riconosco lui. E sinceramente, poco importa. Ho ottenuto quello che volevo. Sento altre migliaia di passi e qualche volto che si affaccia, curioso, per capire quello che sta succedendo. Tutti volti che pochi minuti prima stavano rintanati nella mensa.
“ALZA LE MANI HO DETTO!”
Fingo di fare quel che mi viene detto, per poi infilare una mano di scatto nella casacca. Un movimento brusco, e una tempesta di scintille si libera dai fucili, lasciandomi a terra, sanguinante, agonizzante.
Sento urla, grida, i miliziani parlare animatamente tra di loro.
“NON HO DATO ORDINE DI SPARARE, CRETINI!”
“Ma signore, si era mosso di scatto, temevamo…”
Non sento più nulla, ma alla fine poco importa. Per quel che vale, alla fine ho vinto io. Perché la voce girerà. Girerà, dicendo dell’uomo che è morto solamente per aver tirato fuori dalla propria casacca un semplice libro. Girerà, e si ricorderanno improvvisamente di tutto quello che stanno subendo da troppo tempo. Girerà, e sarà la scintilla, la goccia che farà finalmente traboccare il vaso, perché tutti i grandi cambiamenti richiedono dei martiri. Un innocente, un poveraccio, un perduto, e dal vento compianto, fantasma.



ANGELO, GUARDA  IL PASSATO
...un sasso, una foglia, una porta introvata; di una foglia,
un sasso, una porta. E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli siamo venuti all'esilio. Nel buio del suo ventre,
non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione
della sua carne siamo venuti nell'indescrivibile
e incomunicabile prigione di questa terra.
Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato
nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre
tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre
uno sconosciuto e un solitario?

O perduto, e del vento compianto, fantasma, torna.