Citazioni


mercoledì 27 marzo 2013

LaPera'30

Non riesco a scrivere, in questo preciso anno storico, di questo preciso anno storico, della storia in generale e sinceramente non saprei cosa dire di me.
Sorseggio un tè, un me, un caffè, fumo i sigari del Che. Mi guardo allo specchio e saluto con la mano, mi risponde in rima un signorotto strano: cilindro il cappello, arricciati i baffi, sguardo furbo come fanno i gatti, mento rotondetto. Gli allungo un biglietto con la scritta “dove crescono le rose?”; si alza, mi guarda e sorride: senza pose e senza indugi va al bancone, poggia una mano sul legno e il padrone, in frack vestito, gli da il benservito: bourbon liscio, capelli tirati indietro dalla gelatina, aria meschina, straccio intorno al braccio, vorrei essere da un altra parte ma ehy, è il mio lavoro, e lo faccio.
Mi avvicino, scavalcando lo specchio, urto un poco Alice che mi guarda di sottecchi, aspetti, aspetti, non la volevo disturbare, l'uomo seduto al bancone sta a guardare, sorseggia il beverone, un sorriso un po marpione, si rigira e mi aspetta, maledetta fretta, metto in piedi Alice e, come si dice? -arrivederci, buonasera!- mangio la pera e vedo strano, il signore dallo sguardo profano mi chiede cosa bevo, dico che è meglio se mi levo, mi trattiene per il braccio, opto per un Martini con doppio ghiaccio.
-Le rose son fiorite nel giardino del re- sussurra appena, il signore buonasera. E' il segnale che tanto aspetto, prurito al doppio petto, mi ficco una sigaretta in bocca, guai a chi me la tocca, abbasso il volume della stanza, mi concentro sulla danza dell'uomo dal calice color ambra, sondo i suoi pensieri, mi sembra ieri che ho iniziato a fare questo lavoro, adesso mi pagano in oro.
Una damigella esce dalle quinte, l'accolgono con pinte di applausi, le lanciano fiori senza vasi, la mangiano con gli occhi, mi sembra che qualcuno persino si tocchi. Canta dell'amore sciocco e dell'amore vano, canta seduta su un divano di pelli, canta dei giorni belli che mi son scivolati tra le dita, mi guarda indispettita perchè non ho applaudito, son tentato di alzare il medio dito.
La fisso meglio, resta di stucco, quasi quasi andrà a cambiarsi il trucco, dopo, finito lo spettacolo, magari andrà anche da un oracolo a farsi predire il futuro: una bella casa con la villa, in Marmilla, alle Canarie, l'estate come la carie, le ferie come le evasioni da dove puoi scappare ma poi torni alle tue prigioni, week-end da caproni.
L'uomo dal calice biondo mi da un buffetto sulla spalla: “scialla”, dice, con l'accento romano in un bar degli anni trenta, quaranta e cinquanta, la gallina canta, sessanta che ore sono, settanta sono prono, ottanta sete, novanta la paura della manta dei mari, cento per cento arabica.
Inizio a delirare, sposto il signore delle rose con un amorevole “baffanculo”, mi infilo negli scalini che conducono all'uscita, non mi accorgo che la vita mi si accorcia un gradino dopo l'altro, le suole delle scarpe scivolano a contatto col legno bagnato, mi son chinato, la mano ha perso la presa della ringhiera, son volato oltre la rastrelliera.
Mi ritrovano, morto, il giorno sedici alle ore diciassette del diciotto Novembre mille-novecento-novantanove, ora piove, mi sveglio da un sogno di lutto, vomito tutto quello che ho sognato, prendo carta penna foglio ed inchiostro smaltato, trattengo tutto su un foglio digitalizzato, stiracchio muscoli cervello e cuore, vado in bagno a guardarmi allo specchio, dimentico che ormai sono vecchio, mi siedo sul cesso e cago, respiro l'odore vago della mia giornata, in una grande e spensierata vita pensionata, pulisco i cervelli dai rimasugli, preparo lo stomaco a nuovi intrugli, al bagno bussano: è Alice, dice che sono al cesso da due ore e mezza, metto una pezza sul buco nello sterno, fuori sembra sia ancora inverno, apro le imposte, le lettere comandate, le finestre con le aperture programmate, giornate toste, rumore di batoste, a colazione caldarroste.
Mi sposto, Alice entra mentre io scendo, vendo anche oggi dosi quotidiane di bontà, e poi si vedrà.


domenica 10 marzo 2013

Contro me stesso


a V.
dal più profondo.






Come torno a casa? Con quale coraggio mi ripresento a casa? Lei è lì, sempre all’ oscuro di tutto, serena e tranquilla di una vita matrimoniale che va nel migliore dei modi. Siamo una giovane coppia felice, di privilegiati fondamentalmente. Almeno è l’impressione che diamo a chi ci conosce. Questo grazie allo studio d’avvocato penalista di mio padre. Io? Laureato con il massimo dei voti e l’esame di Stato, per seguire le orme di mio padre, superato al primo tentativo. Non mi è mancato mai niente grazie ai miei genitori; ho fatto una vita piuttosto rilassata. Se da piccolo volevo un gelato, non mi veniva mai negato, così come neanche i giocattoli più costosi e poi più tardi automobili e motociclette. Una Lamborghini Mallardo, voglio dire! La volevo e mi è stata fatta trovare, proprio con gli inserti al paraurti di rosso fuoco sfumato. La terrazza che affacciava sul golfo! Quando Eleonora la vide per la prima volta ebbe un fremito e i suoi occhi verdi divennero lucidi. Quegli occhi! Mi accarezzarono ricoprendomi di ammirazione. Le sue dita si intrecciarono alle mie e sentii un brivido anch’io. Insieme stavamo, già solo con il pensiero, costruendo quello che sarebbe stato il nostro futuro appartamento. Già immaginavamo le pareti di colori pastello che sarebbero risaltate da illuminazioni calde, soffuse con qualche faretto solo per le occasioni importanti; immaginavamo un grosso tappeto nel salotto e un impianto audio che avrebbe raggiunto ogni angolo della casa. Volevamo librerie piene zeppe di libri, che probabilmente non avremmo mai letto, ma per i nostri figli avremmo fatto questo ed altro. Sarebbero dovuti crescere nel migliore dei modi, non avremmo fatto mancare loro niente. Immaginavamo una famiglia perfetta, di quelle che trovi continuamente nelle pubblicità di biscotti e merendine. Apparentemente ci riuscimmo. Eravamo così all’occhio di tutti. Tutti mi invidiavano quella bella moglie, quei due fantastici ragazzini, Eva e Riccardo, sempre sorridenti, biondi come l’oro, quella fantastica casa con la terrazza sul golfo e quella macchina che ringhiava come un cane da guardia. La mia vita è il sogno di tutti. Un sogno che si è infranto. Dalila è lì stesa, che dorme come un angelo, con le sue curve messe in risalto dalla luce lunare. Quel suo profilo placido, linee di eyeliner sciolte, estese in basso lungo le gote e i suoi capelli scompigliati. Lei è tranquilla. Lei non ha tutto quello che ho io. Siamo in questa bettola del centro storico all’ultimo piano, è la sua camera. E’ la mia nuova segretaria. E’ giovane, è fresca, è così terribilmente imperfetta che non le ho resistito.

Lei cattura tutti i loro sguardi.

Chi, Dalila?

No, la tua vita, idiota! Guardati allo specchio! L’invidia di quella massa di  persone che tu consideri amici, fino ad ora era come combustibile per te, sbaglio?

No, in realtà non sbagli.

Ovvio che non sbaglio, nessuno meglio di me e quindi di te, lo può sapere. Svegliati! Ti rendi conto che tutto gira intorno a te? Tu e la tua ricchezza, la tua serenità familiare, siete il modello massimo da raggiungere per questa società. Tu, la tua bella casa panoramica con tutti i comfort, tua moglie soddisfatta dei suoi nuovi tappeti Giushegan e del colore delle tende o della cena che ha preparato a quei due ragazzini così allegri e viziati. Sì, perché li state viziando! Racchiusi in quella sfera di vetro così fragile eppure così ben conservata da voi due. Colpevoli. E’ quello che siete nei confronti di quei due piccoli esseri, che troppo tardi conosceranno il dolore e non sapranno come affrontarlo. Sì, proprio come te in questo momento. Guardati, sei stravolto! Manco avessi perso tuo padre di infarto. Ti sei solo lasciato andare alla passione, ti sei solo lasciato andare in un luogo a caso, con un letto che cigola e gli infissi che lasciano infiltrare qualche spiffero gelido. Guarda come è bella Dalila, non la invidi? Se ne frega di tutto, le basta lasciarsi andare quando è affamata di passione. Le basta affacciarsi e vedere quello che succede nella casa di fronte, che poi se allunghi un po’ lo sguardo anche da qui si vede il golfo, guarda lì! E’ solo un’altra prospettiva, è diversa da quella che stampano sulle cartoline per i turisti, ma non significa che sia meno bella. Cos’è bello? Tu sei bello? Tua moglie, giovane, sorridente e contenta per le tende che coprono il suo tanto amato panorama da cartolina del cazzo? I suoi occhi verdi? I tuoi figli biondi e perennemente allegri con il loro italiano perfetto senza inclinazioni dialettali? La tua Lamborghini con il paraurti rosso sfumato, il tuo orologio a pendolo ereditato da generazioni, che vale chissà quante centinaia di migliaia di euro? Il tuo conto in banca? E’ davvero tutto ciò, considerabile il canone di bellezza? Tu vuoi essere il modello di questa società? Ma cosa ti resta dentro? Su, rispondi!

Ma cosa … ? Io, ho bisogno di alzarmi, di prendere aria, di bere qualcosa!

Ecco, bravo! Fatti un bicchierino di vodka e affacciati a quella finestra per disprezzare la prospettiva.

Cosa vuoi da me?

Cosa potrei volere da te? Visto che io sono te, voglio solo il meglio per me, quindi anche per te. Voglio farti ragionare, voglio farti capire. Voglio dare un senso a tutto ciò. Rifletti: pensi che ci sia un senso profondo alla tua vita? Voglio dire, se avevi tutto perché l’hai infranto con questa ragazza qui, una poveraccia in confronto a te. Lei sicuramente non ha librerie piene come le tue, ma almeno li ha letti i libri, li conosce nel dettaglio. Lei si emoziona quando legge un passo interessante. Dalila dà un senso anche a quella bottiglia di vodka, all’allegria che le procura.
Ti ricordi di quei tipi che facevano quei balli popolari in una piazza qualche mese fa? Tu non ti saresti lanciato mai lì in mezzo a ballare a ritmo di tamburelli e nacchere; poi parliamo delle bottiglie di vino, che si passavano così generosamente tutti quanti ridendo e scherzando. Dalila è il tipo che non si sarebbe fatta problemi, ne avrebbe goduto. Perché lei sa che quella può essere allegria. Non costa niente la vera allegria. Invece, per rendere allegro te e la tua famiglia c’è bisogno di un vino costoso piemontese, ben invecchiato … che poi diciamocelo, che cazzo ne capisci tu di vini? Oppure quella tua macchina sportiva, fatta con tanta cura e attenzione, solo per te, e i suoi cavalli che non sfrutterai mai in una città come questa. Ma giusto! A te eccita l’idea che quando passi ti guardino tutti e nel caso in cui non lo facciano, basterà premere leggermente l’acceleratore che il rombo del motore ridesterà subito i loro sguardi ammiratori. Sei vuoto. Sei vuoto come quei libri che riempiono le tue librerie, perché potrebbero anche esserlo, vuoti, tanto non te ne accorgeresti.
Un leggero strusciare tra le lenzuola, tu sei alla finestra: è lei che si sveglia. Fa qualche verso strano e un sospiro di soddisfazione. Ti chiede, Che fai?, con quella voce che fa fatica ad uscire subito dopo il risveglio. Senza coprirsi si alza, nuda e in punta di piedi, come se questa cosa le impedisse di prendere freddo alla pianta e quindi al resto del corpo, si dirige verso la bottiglia di vodka, ne fa un sorso per poi guardarti in attesa della risposta. E rispondile, Guardo il panorama, è quello che stai facendo. Ti sorride, prende il pacchetto di tabacco, una cartina e un piccolo filtro cilindrico, inizia ad arrotolare quel po’ di foglioline secche, lecca, chiude e accende. Vado in bagno, ti dice.

Non riesco a capire, come fate ad essere così tranquilli, tu e lei intendo.

Ma forse non ti è chiaro che io e te siamo la stessa cosa, è solo che tu non mi rispetti, pensi che esista solo la tua prospettiva, pensi che si possa vivere solo come ti è stato insegnato. Ma dimmi tu, che senso gli dai? E’ una vita ideale che si fonda su fondamenta false. Devi smetterla di credere che abbia un senso quello che hai costruito fino a questo momento. Smettila.

Tu mi vuoi far impazzire! Cosa ho fatto per meritarmi questo? Tutta questa confusione. La vita come la vedi tu non ha proprio fondamenta. Quel tipo di vita avrebbe un senso? E poi non capisco, sono io che decido! Tu, tu mi costringeresti ad andare in un posto in cui io possa avere un senso? Un posto in cui la vita che mi proponi tu abbia un senso? In questa società, ha senso la vita che ho io. La famiglia, la casa, il posto di lavoro, un buono stipendio. Devi provarci almeno, a realizzarti in questo modo, non dico che tutti hanno le possibilità di riuscirci, ma almeno bisogna tentare … Io, io non ammetto che non possa funzionare. Io nego il fallimento. Tant’è che ci sono riuscito.

Chiudi quella bocca! Ci sei riuscito, eh? Ma guardati, con il tuo completo Armani da duemilacinquecento euro, la cravatta artigianale e il Rolex al polso! Te li sei guadagnati? No, sei uno schifoso privilegiato. Tu sei nato così. Quando tua madre ti ha partorito urlava dal dolore come un maiale sgozzato, perché tu già avevi al polso quel Rolex. Immagina che dolore ti deve fare un orologio come quello che ti dilania tutte le pareti dell’utero.

Basta! Così mi fai scoppiare il cervello! Parla ad alta voce! Non ti sopporto più così, sei totalmente senza senso.

Vergognati! In realtà lo stai già facendo, non ti va più bene tutto questo. Non Ci va più bene! Quando le situazioni non vanno più bene, devono essere cambiate.

Ma, ma … non puoi decidere tu, sono io …

Questo non sono io, questo sono io!

Questo non sono io, questo sono io!

Questo non sono io, questo sono io!

Questo non sono io, questo sono io!

Dalila, eccola tornata, mi guarda in modo strano. Sei impazzito o cosa?, mi dice, Hai bruciato la tua cravatta. Sì, l’ho fatto, le dico. Perché l’hai fatto?, Perché le cravatte non sono importanti nella vita. Le scappa un accenno di risata, con un leggero sbuffo dal naso, le spunta una fossetta oltre la curva del sorriso, bellissima, una piccola imperfezione nella guancia destra, mentre gli zigomi alti le allargano il viso in maniera armonica, così da far socchiudere gli occhi sporchi di trucco sfatto. Non c’è bisogno di bruciarla comunque, mi dice, Sono stanco, le dico io, Vuoi dormire?, mi fa lei di nuovo, Non ne ho idea … sono troppo pensieroso, faccio io. Sospira e mi si avvicina, nuda, splendente di luce lunare, mi accarezza il mento e mi dice, Be’ io mi rimetto a letto, se vuoi io sono lì ad attenderti in tutti i sensi, se mi addormento svegliami, qualunque cosa tu voglia fare, se vuoi parlare, se vuoi bere qualcosa, se vuoi farlo, se vuoi andare via. Va bene, le dico. Mi alzo, solo in boxer, La Perla, artigianato bolognese, costano tantissimo. Hanno fatto il loro tempo. Li levo e li butto via. Il completo Armani devo per forza indossarlo, così come la camicia fatta su misura, ma dureranno ancora poco. Eccolo, l’orologio, quello che ha fatto sanguinare la mamma quando sono nato. Ho un posto adatto a te, vado in bagno e lo butto nella tazza. Il rumore è quello di quando da bambini si buttano dei grossi massi in acqua per sentirne le particolari vibrazioni sonore, basse. Non andrà mai giù per il tubo, a meno che … Prendo lo scopino da bagno e inizio a colpire con forza il Rolex, riducendolo in centinaia di pezzettini, quindi pigio lo scarico. Che liberazione. Ritorno da Dalila, non la sveglio, l’accarezzo soltanto e la ringrazio. Prendo le chiavi ed esco di casa. Mentre scendo le rampe di scale sento la libertà dei miei genitali, sospiro sereno, perché mai mi sono sentito in questo modo: Libero. Esco in strada, cammino euforico per vicoletti silenziosi eppure così vivi. Le mie scarpe Santoni risonano sui sanpietrini, circa seicento euro di scarpe su piscio di cane, polvere, mozziconi e vomito di vino. Cosa cambia tra un paio di scarpe Santoni e un paio di infradito di gomma in questo momento? Nulla. Ecco il garage, premo il bottone dell’ascensore, si apre subito, nessuno l’attende a quest’ora, ma che ora è? Non posso saperlo più ormai, ma in fondo, che importa? Scendo al menodue, si aprono le porte ed eccola lì: lucida, brillante, nera con il paraurti rosso fuoco. L’ho lavata appena stamattina. Nei suoi vetri fumé puoi specchiarti! Disattivo l’allarme, entro, l’accendo e si parte. C’è la barriera automatica che pretende che io abbia pagato, premo l’acceleratore e neanche un secondo dopo la vedo schizzare via. Rallento, prendo il portafogli, lo svuoto delle varie AmericanExpress, Visa, Mastercard  e le butto nei pressi dei resti della barriera. Riparto, veloce, veloce, veloce fino ad arrivare alla stazione di servizio, la prima che incontro. Scendo dall’auto, non c’è nessuno. Inserisco una banconota da cinquanta. Ma sì, non mi importa. Riempio una tanica con parte della benzina che mi spetta, poi continuo a tirarne altra fuori con la quale cospargo la mia bellissima auto. Restano ancora dieci euro, cospargo i distributori. Finita. Prendo la tanica e creo una scia di benzina che passa dal distributore alla macchina e dalla macchina fino all’uscita della stazione di servizio. E’ arrivato il momento: mi accendo una sigaretta e faccio i due tiri più profondi della mia vita, tanto da farmi lacrimare. Addio vita di un tempo! Al diavolo tu e quel privilegiato che mi avevi fatto diventare.

Sei completamente falsa.

Lascio cadere la sigaretta. Corro via, per almeno cinquanta metri. Un boato, terrificante, un vento improvviso di circa tre secondi, rumori di vetri infranti, allarmi di tutti i tipi: abitazioni, automobili, motociclette. Mi volto ed è solo fuoco e fumo corposo. Scoppia un altro distributore. Non sono mai stato in guerra, ma credo che debba essere qualcosa del genere. Per un attimo un brivido di eccitazione percorre la mia schiena. Mi sento libero.

Cosa hai fatto? Hai perso la testa? Perché tutto questo?

Fai silenzio tu, non la senti questa sensazione? E’ come una scarica elettrica dentro di te, puoi fare quello che vuoi. Non devi più preoccuparti di come apparire ad una riunione di lavoro con un cliente, che abito devi indossare, che orologio mettere e che profumo scegliere. Non devi più preoccuparti di avere come moglie una donna che sarà sicuramente ben giudicata dagli altri, seppure fondamentalmente non abbia qualità. Almeno non le qualità vere, quelle che stai, quelle che stiamo, sperimentando stasera. Hai portato avanti quei valori malati, che incarnano una società corrotta, che son belli solo all’apparenza, ma dietro quella bella facciata tu non nascondi il Male, tu non sai neanche dove sta di casa il Male! Se così fosse ne godresti, godresti del Male. Saresti un tipo strano, certo, ma almeno sincero con te stesso. Tu hai mentito persino a te stesso. Cioè a me. Hai mentito a me! E io sono stanco … Rifletti: Potrebbe essere un fardello pesante restare fedeli alle proprie parole? I propri valori, le proprie convinzioni, i propri ideali così coscientemente portati avanti da tradizioni malate nella storia e infine inculcati a te? Hanno fatto il loro tempo. Ora decido io. Mi levo questa giacca e la regalo a quel barbone senza interessarmi minimamente del suo valore, non sono più affari nostri. Abbiamo una missione da terminare. Che bello passeggiare lungo il mare. Mi mette pace. Lui è la natura, lui è la vita. Non mi inquieta più, come quando ero bambino. Ricordi quel gioco che facevo spesso quando ero in nave e ci passavo la notte? Scorrazzavo per il ponte, mi aggrappavo alla ringhiera e mi affacciavo. Cercavo di guardare prima in basso la schiuma che formava l’infrangersi dello scafo contro le onde, poi l'allungavo all’orizzonte. Un orizzonte che non c’era, perché era tutto nero, mare e cielo cuciti. In quel momento immaginavo, immaginavamo, te lo ricordi? Immaginavamo di essere lì, in mezzo al mare e questo pensiero ci inquietava. Immersi nell’oscurità più totale, non potevamo sapere cosa ci fosse sotto di noi, dietro di noi e di fronte a noi. Ora non mi fa più paura. Adesso il mare lo sento come un fratello. Siamo quasi arrivati, eccola lì la tua tanto amata terrazza. E’ tutto spento, ovvio, non potrebbe essere altrimenti a quest’ora per una buona famiglia come la tua. Sali, sali, sali veloce le scale. Sali. Sali. Sali. Ancora sali. Alla fine eccoti, infili la chiave e ti ritrovi nel buio silenzioso del salotto con la luce lunare che punta qualche scaffale. La libreria.

No aspetta, cosa vuoi fare?

Tu non dai più ordini.

Guarda che io ci sono ancora qui, non te lo permetterò, non ti permetterò di fare una follia come questa.

Perché sarebbe una follia? Tu non sai neanche di cosa trattano! Smettila di fare il buffone.

Li bruciamo? Vuoi distruggere questa libreria, questa casa, queste persone? Non farmi mettere contro di te, se lottassi per una vita intera che ne sarebbe del mio corpo? Del tuo corpo. Del nostro corpo. Questa è una lotta troppo grande, contro un intero mondo, contro la società dominante. Cosa ne sarà di noi. Cosa ne sarà della nostra vita? Un guscio vuoto. Il pasto di quale demone?

Io sono il demone. Tu sei il demone. La tradizione è il demone. Smettila di dire cazzate. Non brucerei mai i libri, solo un ignorante insensibile come te potrebbe pensare una cosa del genere. Nazista. Voglio prenderli questi libri e leggerli tutti! Guarda, così si fa.

Stai facendo troppo rumore. Così li farai svegliare.

Al diavolo.

Ecco Eleonora.

Ma cosa vuole, non sono affari suoi. Le hai dato tutto quello che vuole e le permetti di intromettersi?
Cosa fai, mi fa, Sfoglio dei libri, le rispondo calmo, A quest’ora?, mi fa di nuovo lei, Ne avevo voglia adesso, perché che ora è? Sono le quattro passate … ma che ti è successo?, mi dice sconvolta, Cosa deve essermi successo?


Inizia ad infastidirmi, vedi di farla stare zitta.

Ma, ma … non hai la cravatta, la giacca, sei tutto sudato sembra quasi che tu abbia bevuto!, mi dice sbadigliando, Infatti ho bevuto, la cravatta l’ho bruciata e la giacca l’ho regalata ad un barbone, le dico tranquillamente. Sei fuori di testa?, ride, No, se proprio vuoi saperlo mi sono scopato la nuova segretaria e ho fatto scoppiare la Lamborghini in un distributore di benzina, alzo lo sguardo e le sorrido. Corruga la fronte e mi guarda perplessa, Non è divertente, posa quei libri e vieni a dormire, mi fa lei, Non sarà divertente per te, per me lo è eccome, non scopavo così da anni e sapessi l’adrenalina dello scoppio!, le faccio io. Spero che ti stia prendendo le responsabilità di quello che stai dicendo, mi fa seria.
Se lo dico ci sarà un motivo.
Qual è il problema? Vuoi il divorzio? Ho fatto qualcosa che non va?, mi dice disperata iniziando a piangere, Sei proprio fuori strada tesoro, ho semplicemente capito che questa non è la mia strada, le dico continuando a sfogliare un libro. Tu sei impazzito … sei uno psicopatico, inizia lei ad urlare, Vattene e torna quando credi di aver ritrovato il senno, continua lei ad urlare. Eleonora, smettila di urlare, che sveglierai i bambini, le dico io serio. Si sente un “Mamma” da un’altra stanza. Viene ripetuto più volte. Eleonora si lancia su di me e mi prende per il colletto, Non permetterti di fare la parte del padre premuroso in questo stato, mi fa lei, Stai alla larga, continua lei. La prendo per i polsi e glieli stringo tirando le braccia verso il basso, Tu devi smetterla di urlare come una gallina, le faccio. Lei mi guarda terrorizzata e inizia a piangere. Ora vieni con me, le faccio, Voglio guardare il panorama con te, come facemmo la prima volta che venimmo in questa casa.
Guardiamo il panorama, ma le nostre mani non sono intrecciate, sono io a stringerla, siamo sul terrazzo e aria fresca entra nel salotto. Lo sento di nuovo, Mamma, mamma, mamma! E’ Eva, nel salotto in questo momento. Ciao tesoro, le faccio, Ciao papà, mi fa lei, Che fate tu e la mamma?, continua lei. Eleonora si intromette, Eva, amore mio, torna a letto. Io le mollo un ceffone, mi dà proprio i nervi tua moglie.

E’ anche tua moglie.

L’hai scelta tu.

Stai esagerando.

Perché fate così, piange Eva, non litigate, io vi amo sempre tantissimo. Oh, no tesoro, ma anche noi ti amiamo, le dico io, E’ solo che tua madre deve farsi gli affari suoi. Eleonora piange, le stringo i polsi sempre più forte, la spingo verso il parapetto.

Cosa diavolo fai?

Papà che stai facendo?, mi fa Eva.

Smettetela! Da stasera decido io! Eva tesoro, sono stato un cattivo padre, stasera ti insegnerò che tutto quello che ti abbiamo inculcato fino ad ora non è altro che finzione!, inizio ad urlare io. Mi viene da piangere e il cuore è come un tamburo. Sarò un bravo padre per la prima volta nella mia vita, i miei figli impareranno qualcosa! La tengo sempre più in bilico.

Perché lo stai facendo? Non c’era bisogno di arrivare a tutto questo, non farlo. Perché? Perché?

Papà ma perché? Perché fai così? Lasciala stare!

Eleonora urla, No! No! No! Smettila, lasciami andare! Perché fai così? Non ti ho fatto niente, perché?

Io piango.

Perché? Smettila! Perché?

Papà, perché? Non lo fare, ti prego! Perché?

Tesoro,no! No! No! Noooo!

La spingo giù.

La spingiamo giù.

Perché? Perché? Perché?

Perché? Perché? Perché?

Perché niente dura per sempre.

Perché

Niente

Dura

Per

Sempre.


martedì 5 marzo 2013

Parole, Parole


Quella sera Anna era sola in casa, sola con il suo presentimento. L’orologio indicava l’una e qualche minuto di notte, e Lupo era ancora fuori. Aveva provato a prendere sonno, ma i suoi sensi erano più acuti del normale. Riusciva a percepire troppo chiaramente il bagliore della luna piena che penetrava dalle fessure delle persiane e il frinire dei grilli nel bosco intorno alla casa. Era seduta in salotto, illuminata solo da un piccolo abat-jour, e suonava distrattamente il violino. Un pezzo elementare, che potesse suonare senza farci caso, e pensare a Lupo, padre adottivo, amante, fratello maggiore, carnefice. In quel momento sentì una brusca frenata e pochi secondi dopo lui era all’interno della stanza, l’aria trafelata. Si parò davanti a lei e le intimò di ascoltarlo, calcando le mani nelle tasche.
Lupo aveva tante cose da dirle e poco tempo per farlo. E in quel momento, guardandola, diventava tutto più difficile. La guardava ed era come la prima volta, in lei vedeva una bambina spaventata che aveva perso tutto, ma che aveva tutto da guadagnare. Cercò di raccontarle la storia dall’inizio ma le parole si attorcigliavano prima di uscirgli dalla bocca, e in quel momento non poteva neanche esprimersi come faceva di solito, gesticolando in modo molto ampio e teatrale. Anna capì che c’era qualcosa di strano e lo forzò a tirare fuori dalle tasche le mani, coperte di sangue e con le nocche spellate.
“Lupo… cosa hai fatto? Perché l’hai fatto? Come fai a non provare rimorso? Guardami, voglio capire cosa sei diventato, ora chi sei… anzi, che cosa sei.”
“Questo non è importante. Non lo sarà più, a breve…”
“Dici sempre così.”
“Stavolta è diverso.”
“Dici sempre anche questo.”
“Lo è davvero. Ho deciso di provarci, per te. Sei l’unica cosa bella della mia vita, l’unica che valga la pena proteggere e preservare, e le cose cambieranno. Ci sono riuscito. E l’ho fatto per te, perché vali più della vita che facevo. Sei cominciata ma non sei finita, a differenza di quella vita. Sono cambiato.”
“Non è vero. Non cambi mai.”
“Stavolta sì. E l’ho fatto solo per te, sei stata il mio ieri, sei il mio oggi, e sarai il mio sempre, anche se non potrai essere il mio domani.”
“Ti rendi conto che sono le solite promesse di ogni volta? Basta caramelle, Lupo. Non le voglio più.”

Quattordici anni prima, quando si erano conosciuti, Lupo aveva convinto Anna a venire allo scoperto promettendole caramelle che non aveva. Era una notte d’estate serena come quella, e lui stava svolgendo il suo lavoro. Aveva scassinato la porta di una villa e si era introdotto fino al piano superiore. Conosceva le planimetrie della casa, le aveva studiate così come le abitudini dei suoi abitanti: un uomo, una donna, un bambino. Lupo non chiedeva mai il sesso dei bambini, quando si trattava di lavoro. Ciò che gli interessava era poter sapere quanta resistenza avrebbero potuto opporre le sue vittime, e che minaccia potessero rappresentare qualora avessero deciso di farlo. Nel caso dei bambini il sesso non era importante, e lui preferiva saperne il meno possibile. Era uno dei pochi sulla piazza che non si faceva scrupoli a farlo, ma questo non significava che non lo mettesse a disagio. In silenzio entrò nella stanza da letto e puntò la sua pistola con silenziatore ai due corpi che dormivano lì, coperti da un leggero lenzuolo. In un attimo, sulle lenzuola candide iniziarono ad apparire piccole macchie scure, Lupo chiuse la porta alle sue spalle ed entrò nella stanza del bambino. Sparò alla sagoma che intravedeva sotto le lenzuola, ma non ci fu nessuna macchia. Il solito trucco usato dai bambini e dai carcerati dei film, un cuscino sotto le lenzuola. Una finestra che da quella stanza dava sul tetto era socchiusa, Lupo si avvicinò tendendo le orecchie. La voce di una bambina che canticchiava una filastrocca proveniva da fuori. Se le avesse sparato il cadavere sarebbe rimasto sul tetto o caduto giù, e questo avrebbe creato troppi inconvenienti. Controllò il suo blocco note cercando i dati che aveva deliberatamente ignorato, come il nome della bambina. La chiamò dolcemente, promettendole delle caramelle. Anna entrò gli chiese chi fosse. Lui si presentò come un amico e la convinse a seguirlo. Lei non si fece problemi a seguirlo e abbandonare i propri genitori, probabilmente perché le persone che finiscono sulla lista di un killer spesso non sono cittadini esemplari. Arrivati a casa di Lupo, Anna lo guardò e gli chiese dove fossero le caramelle, le lacrime agli occhi. Per non farla piangere, lui le promise un peluche il giorno successivo. Quando glielo portò, lei sorrise, rispondendo che il peluche era un pagamento per l’attesa, e le doveva le caramelle in ogni caso. Quattordici anni dopo, Anna non aveva mai ricevuto quelle caramelle. Lui non gliele aveva mai portate, per tenerla vicino a sé, per avere una ragione di farsi perdonare, per avere una scusa per farle regali. Spesso erano rose, per i suoi diciotto anni le aveva regalato un violino, che lei aveva imparato a suonare con grande maestria. Lei era cresciuta, aveva scoperto da sola che Lupo era l’assassino dei suoi genitori, che era un assassino di professione e che i suoi genitori erano “persone cattive”, aveva iniziato a sedurlo quando il suo corpo e suoi ormoni avevano deciso che era il momento, ed era rimasta sconvolta dalla dolcezza con qui quell’assassino spietato sapesse fare l’amore. All’inizio lui si era rifiutato, ma lei gli aveva ricordato che le doveva ancora delle caramelle. E ora, in quel momento, in quella stanza, lei aveva sciolto il debito che li legava. Ma quella volta non sapeva che lui aveva davvero soddisfatto la sua richiesta.
“Lupo” gli aveva chiesto qualche tempo prima “Smettila con questa vita. I soldi li abbiamo, io voglio solo fare una vita normale.”
Lui aveva pensato tante volte a chiudere con quella vita, ma si era reso conto che non avrebbe saputo adattarsi ad un altro lavoro, ad un altro modo di fare le cose, anche perché sapeva che smettendo si sarebbe trovato faccia a faccia con la sua coscienza. Ma Anna, lei meritava una vita migliore, e c’era un solo modo per darle la possibilità che meritava. L’unica possibilità che l’avrebbe salvata dall’essere considerata complice.

“Anna, ascoltami, ti prego. Ascolta le mie parole.”
“Parole, parole, sei solo questo. Parole, soltanto parole.
“Mi sa che era scritto nel mio destino. Parlarti come la prima volta, parlare come ad una bambina alla quale non puoi dire le cose come stanno.”
“Non darmi della bambina!”
“Per me un po’ lo sarai sempre, Anna. Ho quarantacinque anni e tu ventuno, potresti essere mia figlia. Ti ho vista crescere, è normale che io mi preoccupi per il tuo futuro. Ti prometto che si metterà tutto a posto.”
“Mi hai detto la stessa cosa quando mi portasti via da casa mia, quando ti chiesi se avrei continuato ad andare a scuola, se avrei mai avuto una vita normale. E non è successo.”
“Non ancora. Ma stasera cambierà tutto.” Lupo tese le orecchie e la abbracciò. “Non dire nulla, c’è la notte che parla.”
E in quel momento Anna sentì i rumori delle sirene, dei freni delle automobili, della polizia che intimava di uscire allo scoperto.
“Sapevo che mi avrebbero preso, prima o poi. Non dire che mi conosci, non dire che mi ami, dì loro che ti ho rapita e tenuta in ostaggio per tutti questi anni. È la vita normale che meriti.”
E la colpì violentemente con un pugno in faccia, facendole sanguinare uno zigomo. La raccolse di forza e la pose tra sé e la porta, con un coltello alla gola, mentre la polizia buttava la porta a terra, mentre le infilava un piccolo oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni con l’altra mano.

“Abbiamo prove schiaccianti contro di te, non peggiorare la situazione. Lasciala andare.”
Lo so bene, pensò Lupo, le ho lasciate di proposito.
E sussurrò all’orecchio di Anna che le cose si sarebbero messe a posto.
“Non ti credo” rispose lei tra le lacrime. “non posso stare bene senza di te, anche queste sono solo parole.”
Ma lui la lasciò andare e gettò il coltello, consegnandosi nelle mani della polizia. Un agente si avvicinò ad Anna, esortandola a seguirli per dichiarazioni, testimonianze e cose del genere alle quali non prestò attenzione.

Mentre entrava nell’automobile, estrasse dalla tasca dei pantaloni un foglio di carta ripiegato su se stesso con un oggetto all’interno. Sul foglio di carta c’era il nome di una banca e un numero di conto, e all’interno c’era una caramella.