Citazioni


giovedì 30 maggio 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo I


(link per il Capitolo II)
(link per il Capitolo III)
 (link per il Capitolo IV)

(link per il Capitolo V)


Silenzio. E’ raro riuscire ad ascoltare il silenzio. In realtà quello che sto dicendo è scorretto, perché il silenzio puro, l’assoluta mancanza di suono, non esiste nel nostro mondo, dal momento in cui anche il battito del nostro cuore, o il nostro respiro più leggero producono, seppur impercettibilmente, delle onde sonore. Eppure a me una volta è capitato di percepire un silenzio che si avvicinava all’assoluta mancanza di suono. Così iniziò tutto. Una notte che ero nel mio letto, stanchissimo, dopo una giornata infinita e dopo qualche birra presa al pub con gli amici, ero lì, che giacevo pancia all’aria e occhi pesanti nonostante il poco sonno. Era da qualche secondo che fissavo il soffitto, spensi la luce e ebbi dei flash della mia giornata. Giusto qualche flash. Ad un certo punto spensi il riproduttore di ricordi e provai a pensare al nulla. Fu in quel momento che realizzai di poter sentire soltanto il mio leggero respiro: il mio udito non era capace di sentire nient’altro, perché probabilmente i rumori più percettibili erano troppo lontani. E’ strano che in una città non ci sia neanche il rumore di un’auto alle tre di notte. Decisi di trattenere il respiro a intervalli, per percepire l’assenza di suoni, quella sorta di fischio sottile. Decisi di non pensare a nulla se non all’assenza di suono e di luce. Buio e silenzio. Durò circa per un minuto. Un minuto di tensione. Spensi il mio cuore, spensi la mia mente. Riuscii ad avvertire il silenzio e a postularlo, imprimerlo nella mia mente come il ricordo di qualcosa di sensibile. Era il silenzio della mia anima. Un auto-compattatore interruppe il momento magico. Ripartì il solito flusso di pensieri che ti rilassa prima di prendere sonno. Infine, mi addormentai.

Arrivò la mattina, ma mi fu impossibile accorgermene: la sveglia non suonò (cosa di cui neanche mi preoccupai più di tanto), non ci fu alcun rumore che sarebbe dovuto provenire dall’esterno, se non un leggero brusio di traffico lontano, né alcun raggio di sole poiché la notte prima avevo lasciato tutte le persiane chiuse. Mi rigirai nel letto per qualche minuto, cercando di stirare i miei muscoli. Sentivo ancora il sapore di sigaretta in bocca e l’anidride carbonica della birra della sera prima risalire su per l’esofago. Ben presto fui costretto ad alzarmi di botto per correre a pisciare: per evitare di esplodere dal profondo della mia vescica. Prima di arrivare alla tazza del cesso, schiacciai velocemente l’interruttore della luce, ma non feci più di tanto caso al fatto che non si accese. Liberatomi dall’impellenza cercai di scrutarmi allo specchio ma non ci riuscii, quindi mi accorsi dell’inefficienza della lampadina. Mi diressi in cucina per prendere il caffè dal frigorifero, ma nel momento in cui lo aprii mi ritrovai tutti i piedi zuppi d’acqua, quindi alzai lo sguardo e mi resi conto che il frigo era spento. Mi guardai attorno confuso e come se fossi illuminato da una grande scoperta mi diressi al contatore centrale, quindi tentai, senza successo, di dare energia alla mia casa. Niente da fare. Sospirai annoiato e passando davanti alla dispensa afferrai un pacco di biscotti, due o tre dei quali macinai avidamente con i miei denti. Quando ritrovai un po’ di lucidità, con gli zuccheri che finalmente arrivavano al cervello, mi avvicinai alla porta-finestra che dava sul balcone principale e alzai come ogni giorno la maniglia per poi tirare la porta verso di me. Ciò si dimostrò impossibile, e nonostante impiegassi tutte le mie forze, la finestra non diede segni di cedimento e rimase lì chiusa, come se fosse saldata dall’esterno. Lo stesso scoprii cercando di aprire le altre. Incredulo corsi alla porta d’ingresso blindata e dopo essermi assicurato di avervi tolto le sicure cercai anche qui di aprirmi un varco. Dico “cercai”, proprio perché anche qui rischiai di scompormi qualche osso nel tentativo, ma niente: la porta non cedette. Tutte le stanze erano chiuse ermeticamente dall’esterno. Sigillate. Saldate. Che qualcuno le avesse saldate? Nello stato in cui il sonno pesante mi aveva assalito la notte precedente, qualunque prospettiva sarebbe stata plausibile. Era ad ogni modo incredibile per me in quel momento, non riuscivo a spiegarmelo: mi assalì una sensazione di panico quindi decisi di chiamare qualcuno. Presi il cordless e pigiai il numero di telefono di Dalila. Sarebbe stato troppo semplice riuscire a telefonarle, perché ovviamente anche la linea telefonica era staccata. Buttai via il cordless, quindi cercai il mio cellulare. Non ricordavo minimamente dove fosse, quindi anche in questo caso l’azione si limitò ad un’inutile prova. Scoraggiato, con il capo basso e mille pensieri per la testa mi diressi lentamente in cucina dove, altrettanto flemmaticamente, presi un bicchiere di vetro dalla credenza. Mi avvicinai al rubinetto e lo aprii distrattamente, come facevo ogni mattina. Attendevo che del liquido inodore e incolore si posasse nel mio bicchiere altrettanto inodore e incolore, ma per chiudere il ciclo anche le tubature dell’acqua avevano deciso di scioperare. Persi completamente la calma e lanciai il bicchiere senza liquido contro il muro con una violenza incontrollabile. Una scheggia di vetro rimbalzò con altrettanta violenza dal muro dentro al mio orecchio destro. Dire quello che provai non potrebbe mai riprodurre l’orribile sensazione e il dolore che mi assalirono. La situazione diventò tragica.

Ero rannicchiato tra le ginocchia sul pavimento della mia cucina, con un timpano rotto e un orecchio sanguinante e non avevo modo di contattare l’esterno. La mia casa quel giorno diventò una prigione. Un luogo che fino a qualche ora prima era stato il rifugio, il posto per riposare, il mio grembo materno, da quel momento non divenne altro che una scatola chiusa che mi soffocava. Mi chiesi come avrei fatto. Come avrei fatto ad evitare una grave infezione? Come avrei fatto a sopravvivere al buio? Quando, qualcuno si sarebbe accorto di me?

Improvvisamente sentii in lontananza la suoneria del mio cellulare, quindi speranzoso la seguii, fino a sentirla più vicina, sempre più vicina. Era lì, ne fui sicuro dal primo momento, nella stanza da letto, anche perché il volume in quella stanza era più alto, ma … niente. Del telefono non ci fu traccia, squillò almeno una decina di volte ma seppure smantellai l’intera camera, non lo trovai affatto. Mi lasciai andare disperato sul letto e mi accorsi, dal silenzio che era tornato e dall’assenza totale anche di sottili raggi di sole, che era notte. La stanchezza che ne seguì fu la conferma. In preda alla disperazione mi sentii completamente solo. Piansi e per calmarmi mi addormentai nel silenzio. Fu così che iniziò la mia prigionia, con il silenzio della mia anima.

sabato 25 maggio 2013

una morte come un'altra


Tu non cadesti esangue
per man d'eroe famoso,
e non tinse il tuo sangue
l'asta del valoroso.
Acuta freccia,
come da nuvola
morte ascosa volò.
(I canti di Ossian)



Odore di cavallo, di ferro e di cuoio.

Poi il risveglio.


- Buongiorno amico. Un altro mattino è tinto dalle pallide dita di cortese auror... -

- Oh, per Mogezio, falla finita e fammi passare, devo andare a pisciare! -

Qualche passo, la vallata, discesa, a centinaia sono i corpi, a migliaia i corvi.

"Un altro mattino è tinto dalle pallide dita di cortese morte... Di chi sarà stato questo elmo che ora mi funge da latrina?"


Colazione, decisioni.

- DA QUI NON SI MUOVE NESSUNO! Lo vedi quell'accampamento laggiù? Pensi che stiano facendo la festa di Beltane?! Dagli tempo fino a domani di rimettere in sesto qualche arto e vedrai come ti saranno sul collo mentre tu gli hai appena voltato il culo! -

- Non saranno così codardi, diamine! -

- Vuoi fuggire? E vattene, coniglio, vattene! Che io sia fulminato e dalle mie ceneri si generino vermi se dovessi mettere un piede in fuga! -

- GIUSTO! Ho affrontato le tempeste del mare e del cielo per venire a fuggire di fronte ad un guerriero? Foss'ei il peggiore degli spiriti maligni, io gli strapperò il cuore dal petto e ne berrò il suo sangue, quel lurido... -

- Vacci piano, non è un Drago. Non te ne fai niente del suo sangue. Pensa a salvare il tuo! -

- E tu, tu che ne pensi...? -


Silenzio.
Tutti mi fissano, improvvisamente placati. 
Li osservo: alcuni hanno ancora il volto paonazzo, le vene del collo pulsanti, i muscoli tesi.
Altri sono troppo vecchi per adirarsi, l'unica cosa ritta in quel loro corpo raggrinzito sono i peli della barba, ispidi e bianchi.

- Mmmm... Il nemico ci troverà pronti. -

E subito dopo uno scrosciare di voci, urli, strepiti, sì, no, evviva, armiamoci adesso.
Mi alzo ed esco fuori dalla tenda.

Vallata. Centinaia di corpi. Elmo in cui ho pisciato.

Qualche istante, poi la pioggia.
Rientro, vado ad affilare la spada.

Torpore, allenamenti, sidro, sonno.



Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
(Canto XIII - Leopardi) 
 



"Non voglio pensare, nè ricordare. Voglio solo combattere. Amare è difficile, vivere è difficile. Morire con onore è semplice, se posso brandire una spada."

Ancora un risveglio.

- Buongiorno, amico. La notte ci ha cullato con le sue mani di seta... -

- Pietra. Quelle che mi hanno tirato un cazzotto stanotte erano senz'altro di pietra. E ora fammi passare, devo andare a pisciare. -


Urla provenire dalla tenda del comandante. 
"Vorranno anche il mio parere, il parere del campione. Che si fottano."

Allenamenti in mezzo a corpi, in mezzo a corvi, in mezzo ad elmi pieni di piscio.

Un colpo secco, dritto.
"Nessuno mi ha mai chiesto se io volessi davvero farlo."
Poi uno di lato, un tondo.
"Armarmi, combattere, andare in guerra."
Un ascendente e dopo un affondo.
"Mi hanno dato una spada in mano e io ho saputo usarla bene, troppo bene."
Un calcio alla bocca dello stomaco, semplice da fare senza armatura.
"Come se fossi nato per quello. Come se fossi nato per morire."
Un colpo di pomolo, uno di elsa.
"Scomparirò non appena verrò trafitto da un nemico più valoroso di me, scomparirò io, scompariranno i miei ricordi, scomparirà lei dalla mia mente."
 Spada conficcata nel terreno, il colpo della misericordia.
"Era bella in quel vestito blu. Un sorriso da lontano e un bacio in una notte buia. Niente altro."
Vento freddo sulla pelle del volto sudata.
"Io su questi campi desolati, lei nella sua calda dimora. Io in una tenda sporca, lei nel suo letto di piume. Io morirò presto, lei vivrà a lungo."

- Ah, il muschio in questo punto è divenuto rosso per il sangue... -
"Ma non la invidio."

Respiro a fondo.

- SIAMO NATI PER MORIRE! -
I corvi volano via in ogni direzione, gracchiando furiosamente, il mio urlo rieccheggia nel vuoto della valle.

"Voglio solo pensare ai suoi occhi quando è buio... Quando sarà buio per sempre."
     

Tenda, ancora torpore, sonno.


E' notte.

- Alzatevi, è giunta l'ora! Gli Dei cantano il nostro trionfo! Di noi parleranno i figli dei figli, di noi tesseranno lodi le nostre madri e mogli, di noi... -

- Prendi una fottuta arma e taci! E aiutami a mettere l'armatura, che non ho neanche il tempo di pisciare. -  




Schierati, prima fila.

- Voi siete i migliori, i più valorosi! Di fronte a voi tremeranno le loro ginocchia, di fronte a voi i loro animi si incrineranno e i loro cuori vacilerrano! -

Boati.

- Se anche uno di noi sopravviverà, narrerà di questo giorno! Di come le nostre mani fossero salde e il nostro ferro forte! -

Vento, scendo da cavallo.

- Oh, tu... Sei sicuro? -

- Senti, facciamola finita. Manda qualcuno a chiamare il loro campione. Io sono pronto. -
"Se solo il sangue di uno potesse bastare a salvare quello di molti..."

- Va bene. -

Fa qualche passo in direzione degli altri.

- Chi altri vi aspettavate? Il nostro più coraggioso guerriero è pronto a mostrare il suo ardore! Vincerà e la vittoria sarà già nostra! -

Ancora boati.
Stringo l'elsa della spada.


Siamo io, lui e l'alba. Gli eserciti lontani, ma abbastanza vicini per sentire le urla di chi ci incita.
Non so neanche chi sia. Si muove, si sposta, mi gira attorno. E' veloce.

Un colpo secco, dritto.
"Non voglio pensare..."
Poi uno di lato, un tondo.
"Nè ricordare."
Un ascendente e dopo un affondo.
"Voglio solo combattere."
Un calcio alla bocca dello stomaco, impossibile da fare con l'armatura.
"... Vivere è difficile."
Un colpo di pomolo, uno di elsa.
"Morire con onore è semplice..."
Spada conficcata nella carne, il colpo della misericordia.
"...se posso brandire una spada."



Di nuovo boati.
Stringo più forte l'elsa della spada.
"Ho ucciso ancora un nemico di cui non conoscevo il volto."


- LA GUERRA E' FINITA! ABBIAMO VINTO! -


Voci intorno a me, urli acuti, tamburi. 
Profondi tamburi.
Come rombi di tuono.


- UNA CARICA DI ARMATI A CAVALLO! DA LASSU' COMANDANTE! - 

Voci intorno a me, urli acuti, rimbombo di zoccoli sulle pietre scoscese, sull'erba strappata, sul fango scoperto.

- RIFORMARE, VICINI! -

Urlo.
"Qualcuno mi sente?"

Il comandante è a cavallo seguito dai migliori. Mi guarda. Lo guardo. Annuisco.
- A PIEDI, CON ME! -
Una folla mi stringe, corriamo tra gli alberi.

- La cavalleria andrà incontro a morte certa, ma il nostro comandante ci porterà la testa del loro! -
E subito dopo uno scrosciare di voci, urli, strepiti, sì, no, evviva, andiamo adesso. 
"Basta così poco per instillare coraggio nei cuori? O anche loro mentono per timore della morte?"

Aggiriamo il nemico dal bosco.
- Spunteremo alle spalle in poche ore. Siamo molti e loro saranno già fiaccati dall'avanzata dei cavalli... Ci resteranno gli arcieri e le retrovie probabilmente. -
Tutti ascoltano, nel rispetto e nel terrore.


 
- Eccoli... -
Vedo distintamente le due retrovie, piccole masnade, e gli arcieri al centro. Stanno ancora bersagliando la cavalleria, sebbene delle due file ormai resti ben poco.
Qualche cavallo è al suolo, ancora scalciante morte.

Avanziamo uniti, compatti. Poi il bosco va diradandosi.
- CARICA, ADESSO! -
Diretti sulle retrovie e sugli arcieri. Ci separiamo per essere bersagli meno facili.

Respiro, il sole ci illumina.
Veloce, più veloce.

Un nemico, a terra.
Un altro.

Urlo.
Avanzo.

Morte.
Urlo.
Avanzo.

Avanzo.

Mi manca il fiato.
Cado.

Un compagno mi è vicino.

- La estraggo io! -

Poi un altro.

- Portiamolo lontano, torniamo indietro, vicino a quell'albero! -

"Avrebbero fatto lo stesso per un altro ferito?"

- Sdraialo, allentagli lo spallaccio! -

"Non credo. Hanno bisogno di me."

- Farà male, sii forte! -
 "Sii forte tu."

Urlo.
La freccia viene gettata lontana da me. 
"Il sangue sta imbrattando anche questo muschio..."

- La spada... La mia spada, qui... -

- E' qui! E' qui nella tua mano! -

"Il sole sta divenendo buio."

- Ricorderemo il tuo valore, lo ricorderanno per sempre tutti, lo ricorderanno i nostri figli, la tua amata ed ognuno di noi... -
Balbetta, si ripete, non sa quello che dice. Qualcuno mi stringe con più forza la mano intorno all'elsa.
"Io non ho figli e la mia amata starà ancora dormendo a quest'ora del mattino."

- Adesso vai, andate. Lasciatemi con la mia spada. -

Li sento allontanarsi, in silenzio, nel clangore della battaglia.
"E' buio e posso rivedere i suoi occhi." 


Non sento più.


"... Amare è difficile, vivere è difficile. Morire con onore è semplice, se posso brandire una spada."


"Sono morto senza brandirla, sono morto per una freccia nel cuore."


"Il nemico non ha visto il mio volto."


"Non voglio pensare, nè ricordare..."


"Chi ha scagliato quella freccia?"


"I suoi occhi..." 
     

lunedì 20 maggio 2013

...Inizia il film



“Ho sentito spesso dire che, in procinto di morire, ogni essere umano si ritrova a vedere gli avvenimenti che hanno composto la propria vita. Tutti, dal primo all’ultimo, come se fosse un ultimo film prima di trapassare.

Posso immaginare cos’è che vi starete chiedendo in questo momento. Mi sembra già di vedere le vostre facce dubbiose, perplesse, mentre vi domandate: Che modo è di iniziare una lettera?! D’addio poi…

Non so chi mi ritroverà e, se devo dire la verità, la cosa neanche mi sfiora.

So per certo che ormai ho settantasette  anni, e non so quanto le mie facoltà mentali potranno sostenermi negli anni a venire. Soprattutto dopo tutto quello che ho vissuto.

Già… la mia vita.

E’ probabile che chiunque ritrovi il mio corpo mi avrà già sentito parlare a riguardo, fosse anche l’ultima domestica della villa. Su questo argomento, in fondo, sono alquanto ripetitivo.
Ma, sinceramente, un salto nel passato, in ogni caso, me lo voglio permettere. Un assaggio, prima della portata principale. Come sapete, sono nato in uno di quei tanti paesini (dove vivo anche oggi, in effetti) che costellano le nostre campagne. Uno di quei tanti buchi sperduti, che si riduce a far spesso da culla, scuola, casa e persino tomba dei tanti compaesani che ne fa da popolazione.

…Ringrazio ancora la mia forza d’animo per avermi permesso di distinguermi da loro. Superai le scuole brillantemente e subito trovai posto come rappresentante della Cryotech Corporation, una grande compagnia, con sedi e centri in tutto il mondo. Indubbiamente un bel colpo di fortuna, bisogna dirlo.
E’ un incarico che ho ricoperto fino a poco più di una decina di anni fa, finchè le gambe ancora mi reggevano.

Un lavoro che mi ha formato.

Un lavoro che, va detto, mi ha dato un considerevole numero di possibilità.

E’ grazie ad esso che ho avuto la possibilità di uscire da quel buco

E’ grazie ad esso che ho ottenuto quella piccola fortuna che mi ha permesso di vivere una vita benestante anche ora.

E’ grazie ad esso che posso addirittura dire di aver conosciuto, visto il mondo. Le più grandi capitali… sono state spesso mete dei miei viaggi d’affari.

Per quanto abbia girato, però, alla fine il tesoro di una vita era più vicino di quel che immaginassi.

Ho girato il mondo, ho parlato con persone in così tante lingue da averne perso il conto, per trovare alla fine mia moglie in una compaesana.
Eh…il mondo è piccolo, davvero, ma non mi sarei mai aspettato che fosse COSI’ piccolo.

Ma bando agli indugi, grazie al mio lavoro ho ottenuto anche un altro privilegio.

Sono conosciuto, rispettato. E questo non solo in paese, dove sono in effetti tornato da poco per trascorrere serenamente gli anni della vecchiaia, ma anche in città. Ancora oggi, che ho ormai appeso tutto al chiodo, camminando per la strada la gente mi riconosce, mi riempie di convenevoli, mi apostrofa come “Cavaliere”. Chi offre un caffè qua, chi là…
Per quel che posso dire, in effetti, ritengo di aver vissuto una gran bella vita. Una vita piena, che mi ha permesso poche volte anche solo di respirare! Sono sempre stato, in ogni secondo della mia esistenza, ligio al dovere, e questo per me è motivo di vanto. E i vantaggi che ne ho tratto sono stati considerevoli.

Ovviamente ci sono state anche delle rinunce. Magari non sono stato un padre molto presente, preso com’ero dal dovere. Ma in fondo il dovere più importante per un padre l’ho adempiuto in modo esemplare.

Credo sia difficile trovare un esempio migliore del sottoscritto, e in fondo è questo che deve fare un genitore, dare il buon esempio. Oltretutto i frutti che ne ho tratto vi permettono (se siete voi a leggere) di vivere la vita godendovi ogni cosa, senza dover ricorrere a rinunce. Per cui penso che la cosa mi si possa più che perdonare, in fondo.

Questa vita… così soddisfacente.
Già, tornando all’incipit della lettera che state leggendo, ritengo che sarebbe un film veramente godibile. Un film che, sinceramente, mi merito tutto.

Ma è dal giorno in cui ho visto la mamma spirare che ci penso. Quanto sarà passato, qualche mese? Tumori, metastasi, tutti quei paroloni di cui i medici ci hanno riempito, tutti quei concetti incomprensibili che si traducono nell’orrenda agonia che mia moglie ha dovuto subire. Una fine orrenda, che in molti magari alla fin fine possono provare a sopportare. Magari anche accettare!

Io no.

Il sottoscritto NON accetta una fine del genere.

Il sottoscritto ha avuto a che fare con i peggiori truffatori che il genere umano ha mai avuto modo di creare.

Il sottoscritto non è mai stato gabbato, nè sottomesso da nessuno.

E il sottoscritto NON si farà sottomettere dalla morte. Dalla sua incertezza, dall’infinita ansia che mi prende a pensare che mi potrebbe cogliere da un momento all’altro, che non possa fare niente per controllarla.

No. Sarò io a dominare la morte. Sarò io a decidere come, quando e PERCHE’ convocarla. Non sarò uno di quei vecchi che accetta quel grottesco conto alla rovescia sulla propria testa.

Ho raggiunto ormai un’età che posso ritenere ragguardevole. Posso ritenere di non avere più niente da perdere.

E se veramente ci si ritrova a rivedere questo film, con una vita come la mia, ho intenzione di vederlo QUANDO DECIDO IO.

Quando ritengo di essere veramente pronto per godermelo in pieno.

Sceglierò io il giorno della prima.

E quel giorno…è oggi.

Papà”

E con questo, anche l’ultimo conto era stato chiuso.
In verità non sentiva nel profondo dell’animo che se lo meritassero. Gli amici, i parenti, ma soprattutto i figli… Ai suoi occhi si erano sempre comportati come degeneri sanguisughe, che si facevano vive solo per batter cassa. Ruffiani, ingrati, nulla di più. Ma, nonostante tutto, erano pur sempre sangue del suo sangue, una parte della sua vita che, per quanto quasi cancerosa, non poteva disconoscere. E la notizia che il padre aveva posto fine alla propria vita poteva solo essere male interpretata dalla gente del posto, dando loro chissà quanti problemi. Gli pareva già di sentirle le malelingue…chissà cosa avrebbero tirato fuori
“Il Cavaliere ha perso la testa!; è stato ricattato dalla mafia!; era sommerso dai debiti!; era da tempo che sembrava depresso…; Bla; Bla; Bla”.
Tutte quelle voci senza fondamento, inventate col puro scopo di poter avere qualcosa di cui parlare, e che facevano terra bruciata intorno a qualsiasi cosa circondasse l’oggetto dell’interesse. Probabilmente quella lettera non sarebbe stata sufficiente a placarle, a far capire quanto quella scelta non fosse dettata da un impulso autolesionista del momento, ma fosse una scelta ponderata.
Ma un tentativo, in fondo, che male poteva fare. In ogni caso ancora poco tempo e quello che la gente pensava di lui…le voci sul suo conto… non sarebbero più state un suo problema.
Uno dei vantaggi di essere morto, pensò sorridendo.
Ma era tempo di agire.
Si alzò lentamente dallo scrittoio che aveva nella sua stanza. Ebbe l’accortezza di lasciare una luce puntata sulla lettera che vi troneggiava, così che fosse notata, e fece qualche passo. Sentiva gli ingranaggi della sua testa girare, facendogli finalmente prendere coscienza di ciò che stava per fare.
Eccitazione? Paura? Curiosità? Non riusciva a capire che emozione lo pervadesse al momento. Sapeva solo che l’orologio stava compiendo ormai i suoi ultimi giri. E il momento dell’ultimo rintocco…non sarebbe stato più un mistero.
A questi pensieri, si senti colto dall’euforia, mentre varcava la soglia del bagno.
Tutto era già allestito. Aprì lentamente il rubinetto dell’acqua calda, lasciando che ne fosse colmata.
Iniziò ad accendere le candele che si trovavano sparse per la stanza. Lavanda, Muschio, Mora Selvatica, tutti aromi a cui si sentiva, per qualche strano motivo, profondamente legato, e che avrebbe voluto gustare l’ultima volta, prima di fare l’ultimo passo…
Fortuna che il monossido di carbonio è inodore, pensò, chiudendo la porta del bagno. Diede uno sguardo all’aeratore, che in circa dieci minuti dalla sua accensione avrebbe iniziato a saturarne l’aria.
Girò la chiave. Nessun disturbo dall’esterno.
Ora c’era solo lui, il suo momento di intimità, prima dello show finale.
Chiuse l’acqua mentre una nebbiolina di vapore che usciva dalla vasca sembrava rendere il tutto più…etereo.
Spense le luci, lasciando come unico lume le candele.
La siringa!, pensò improvvisamente.
Si sentì affondare nell’ansia, mentre scavava nella sua testa alla ricerca dei ricordi sugli ultimi movimenti che poteva aver fatto.
Dove poteva essere, nella stanza? Magari l’aveva lasciata nello scrittoio, o sul comodino, o chissà dove. Malediceva l’età che lo faceva sentire così rincoglionito…
Tirò un sospiro di sollievo tastando il taschino della giacca. Era lì, il pezzo più importante.
La sfilò dal taschino, fermandosi qualche istante ad osservarla. In verità non aveva la benchè minima idea di cosa vi fosse contenuto. Sapeva di potersi fidare di chi gliela aveva procurata. Aveva sentito bofonchiare qualcosa su morfina e altre strane sostanze con nomi impronunciabili che non sapeva neanche lontanamente come funzionassero. Ma a cosa servissero, che in fondo era quello che veramente contava sapere, quello lo sapeva bene.
A garantirgli una morte serena, eliminando gli “spiacevoli” effetti del monossido di carbonio, lasciando al tempo stesso la sua coscienza attiva, integra. Fino al momento finale. Avrebbe assaporato l’ultimo viaggio, l’ultimo film, e tanto bastava.
Lasciò la siringa sul bordo della vasca, e cominciò a spogliarsi.
A stento sentiva gli abiti che sfilavano dal suo corpo, preso com’era da quello che stava per fare.
Chiuse gli occhi, pochi respiri, per rilassarsi…
L’aria calda riempì i suoi polmoni.
Si mise a mollo nella vasca, sentendo il tepore avvolgerlo, prenderlo, mentre il peso del mondo sembrava scivolargli di dosso, per una volta.
La stanza era ormai pervasa dal profumo che esalava dalle candele, che sembrava quasi accarezzare le sue narici.
L’ultimo tocco, mancava l’ultimo tocco al benessere. L’ultimo pezzo prima dell’atto finale.
Inforcò il telecomando che teneva poggiato alla sua sinistra, premendo il pulsante di accensione.
Il suono degli ottoni iniziò a uscire dallo stereo.
Liszt, Rapsodia Ungherese Numero Due, Versione Orchestra. Il loro preferito.
Il tocco finale era stato dato.
Accese l’areatore, tenendo nella destra la siringa, mentre col corpo scivolava sulla vasca, abbandonandosi ancora di più alle sensazioni…preparandosi a convocare la morte.
Chiuse gli occhi, lasciandosi incantare…
I passaggi della sinfonia inebriavano l’aria, dandogli una sensazione di serenità che poche volte aveva sentito.


E il clarinetto!
E il clarinetto!


Sentilo, il clarinetto!
Quel tocco di brio che da quel senso di serenità al pezzo…
Dio, mi vengono i brividi solo a pensarci. Quanto tempo sarà passato da quando l’ho sentito per la prima volta? Una cinquantina d’anni? Sembra ieri…
Il giorno in cui la conobbi. Così, in un teatro di città, due persone dello stesso paese che si ritrovano.
E dire che mi trovavo lì quasi per caso.
Peccato che se ne sia andata così…
Pensandoci, mi viene da sorridere. Nemmeno mi sono lontanamente avvicinato alla morte, e già la prima memoria riaffiora.
Ma senti ora, come si intrecciano i fiati e i violini.
Mi sento in pace con me stesso. Questa parte del pezzo dà quell’aria così…festosa.
Manca poco, ma non voglio pensarci.
Arriveranno le ultime note, ma fino ad allora godiamoci questa serenità. Gli odori, il calore, i suoni!
Stampiamoli nella memoria, le ultime belle sensazioni prima del grande viaggio. Prima della portata grande.
Ancora poco, dai…
Eccolo, il crescendo. Magnifico. Superlativo. Gli ultimi secondi, che quasi scandisco nella mia testa come un direttore d’orchestra. Il momento è praticamente giunto.
Il conto alla rovescia è concluso ormai.
L’ultima sviolinata, ed è ora di accogliere la morte.
Chiudo gli occhi. Premo lo stantuffo. Il dolore della puntura è affogato in un attimo, mentre un torpore prende lentamente il mio corpo.
Sento le sensazioni man mano svanire… nella stanza c’è ormai abbastanza monossido di carbonio da avvicinarmi alla fine sempre di più con ogni boccata d’aria…eppure oltre a un senso di torpore, nulla.
Leggevo, a riguardo, che avrei rischiato mal di testa, stordimento, persino convulsioni.
Quel che ottengo è solo l’incapacità anche solo di aprire per davvero gli occhi.
Ma in fondo, a che pro farlo. Le luci iniziano a girare. Il film è qui, nella mia testa, e so già che sarà il capolavoro, la degna coronazione di un’esistenza come la mia.
Le immagini mi appaiono sfocate…rivedo già alcuni episodi di importanza minore.
Qua è quando mi ritrovavo sui banchi di scuola a prendere appunti della lezione di italiano…
Guarda là, gli zotici che popolavano quella classe. Si vedeva già che ero di un altro mondo. Scimmie, e tali sono rimaste. Mi sembra di vedere il fruttivendolo che esercita in fondo alla strada, che giochicchia con una matita, mordicchiandola con aria demente.
Bah, andiamo avanti.
Ecco. Ecco qualcosa di interessante.
Il mio viaggio a Berlino! Il mio primo viaggio all’estero, il mio primo affare internazionale!
Ecco che scendo dall’aereo. Guarda qua che città. Ecco, se scendo in fondo alla strada lì dovrei arrivare…
Dovrei arrivare…
Diavolo, non ricordo nulla a riguardo. Va be, vedo il muro di Berlino, sicuramente ci sarò andato a fare una visita. Guarda, ci sto passando ora avanti con il taxi, sicuramente avrò chiesto di…
Niente, non mi sono fermato. Sarà l’emozione, ero così preso da quell’affare, immagino che mi riprenderò dopo. Intanto ecco il colloquio. Non ricordavo però che il capo dell’impresa fosse un giapponese.
Curioso, sono andato in Germania e la prima persona con cui parlo per davvero è un giapponese. In giapponese. Ma che importa, tanto ricordo perfettamente che l’affare fu un successo, e poi sicuramente sarò andato a festeggiare. Ecco, chiamo un taxi per andare a… l’aeroporto di nuovo?
Ma… veramente sono andato in un paese per limitarmi a parlare con un altro straniero senza neanche fermarmi una notte?!
Mi affiorano immagini nella mente.
Sidney. Los Angeles. Londra. Tokyo. New York. Parigi.
Le cose più tipiche che ho visto sono le cartoline.
Non ricordavo di aver approfittato così poco dei miei viaggi…pensavo veramente di esser stato quasi un cittadino di mond…
Oh, ecco un bell’episodio.
La festa delle nozze d’argento con mia moglie. 25 anni di matrimonio, e chi se li scorda. Ricordo perfettamente, si è svegliata con i suoi fiori preferiti per la stanza, colazione insieme nel nostro bar preferito, poi subito un giro per i parchi approfittando della bella giornata. Torniamo a casa per pranzo e la sera usciamo e la porto al ristorante francese più rinomato della città. Adorava quel ristorante mia moglie.
Già, un anniversario da favola.
Ecco, qui le do gli auguri. Buon ventiquattr…
Era il ventiquattresimo anniversario?
Oddio, questo invece è il ventiseiesimo. Ecco qui, stessa sveglia con i fiori preferiti per la stanza, colazione insieme nello stesso bar, stesso giro per i parchi, stessa uscita serale nello stesso ristorante francese.
E il ventisettesimo? Solita sveglia coi fiori, solita colazione nel bar, solito giro per i parchi, solito ristorante francese…
Meccanico. Ripetuto. Schematico.
Dov’è la passione che mi animava? Pensavo almeno con mia moglie di essere stato un uomo vario, di aver vissuto il rapporto in tutte le sfaccettature possibili. Di non aver permesso al lavoro di cancellare la volontà di fare qualcosa insieme. Ed ecco che mi ritrovo repliche di anniversari con lo stesso pathos di una puntata del Grande Fratello.
Mi sento girare la testa…
Oddio, mi gira la testa. Che pure il medicinale non stia facendo effetto?
Calmati, dannazione, calmati. Solo incidenti di percorso, non vale la pena rovinarsi la visione solo per delle piccolezze. Ecco, ecco una memoria felice. La mia primogenita che fa i primi passi. Guardala, la principessina, che cerca di stare in equilibrio. Vieni, amore di papà, vieni qui. Guarda come mi fissa! Guarda…
Ma è il monitor di un computer. Eccomi, sto lì, seduto su di una scrivania, mentre in webcam vedo i primi passi di mia figlia… e sono pure distratto dalle scartoffie.
Mi sento mancare. Ecco il diciottesimo compleanno del mio unico figlio maschio. Ci sono solo io che guardo le foto sorridendo all’omaccione che la mamma aveva tirato su.
Nemmeno in queste memorie sono partecipe.
Eccomi, spettatore di quella che era una vita piena di grandi occasioni. Mi chiedo seriamente che differenza ci sia tra il mio vecchio, morente corpo che ora le sta scavando nelle sue memorie e il tizio che stava li, a guardarle in prima persona. Che sia sempre stato uno spettatore?
Ligio al dovere, rispettoso del prossimo, creato da solo. E quando si trattava di vivere veramente, stavo a compilare scartoffie o parlare lingue che in quel paese nemmeno conoscevano. E i miei figli crescevano senza quasi sapere chi fossi.
E mia moglie… ho davvero sofferto vedendola spirare? Sono davvero stato incantato da lei, o era solo lo stridio del violino che mi faceva sentire così preso? Quante persone non ho voluto approcciare sui tanti mezzi pubblici che ho utilizzato in tutta la mia carriera? Quali sguardi ho perso preso com’ero nel pensare come presentare il prodotto della ditta? E il lavoro? Me lo sono goduto davvero? Ho veramente fatto ciò che volevo veramente? Quante rinunce ho fatto senza nemmeno rendermene conto? Quante passioni scartate?
Magari ho soffocato la voglia di imparare, che so, a suonare uno strumento per non distrarmi dal lavoro. Quel cazzo di lavoro che ha preso tutto il mio tempo e mi ha fatto ottenere quella vita “incantevole” che ti riempie lo stomaco come quelle insipide tartine da novelle cousine di quel maledettissimo ristorante francese che LEI adorava.
Ecco. Non ho capito nulla.
Guardami, tronfio, che mi dirigo ancora una volta a casa e mi butto sul divano, aspettando la cena, prima di dormire e partire il giorno dopo in quel maledettissimo ufficio a buttare le mie giornate. Sorrido, guardo i miei compaesani e rido della loro ignoranza. E magari mi sono perso l’eccitazione del correre nei boschi e rimanere a contatto con la natura.
Il più grande contatto con la natura che ho avuto invece sono quelle cazzo di candele che ho acceso per rendere gloria al mio trapasso.
E, a settantasette anni, faccio la considerazione che tante persone fanno nella propria vita, ma per l’ennesima volta troppo tardi. Ho sbagliato tutto.
Che posso fare…anche se volessi fermare il processo…non avrò mai il tempo per rimediare alla mia arroganza, alla mia superbia, alla mia cecità.
Vorrei sospirare, ma ormai non ho più controllo nemmeno del mio corpo.
Sento la morte che inizia ad aleggiarmi intorno, come per abbracciarmi, quasi a salvarmi da quel tormento.
Cala il sipario, e il film non lascia altro che amarezza.
Mi arrendo. Mi lascio abbracciare. Accolgo la morte, pregandole di prendermi subito.
Ed è proprio li che mi chiedo veramente…
Quand’è che sono morto? E quand’è che ho vissuto veramente?

martedì 7 maggio 2013

L'Ultimo Viaggio


Alla vita certamente non manca l’ironia.

A quattordici anni, come tutti i miei coetanei, ho provato poco seriamente a suicidarmi, ma tutto sommato mi sarebbe potuto scappare di mano e ci sarei potuto restare secco. Ho fatto snowboard, bungee jumping, ho preso droghe da amici di amici che avrebbero potuto tagliarle con il DDT, ho guidato ubriaco, ho guidato arrabbiato, ho seguito una dieta sbilanciata e ricca di fast food, ho fatto sesso non protetto, ho fumato e bevuto, sono finito in qualche rissa, ho viaggiato in paesi di cui non conoscevo la lingua e le usanze, ho avuto un cellulare sempre con me, non ho eseguito controlli medici regolari approfonditi e costanti, ho mangiato cibi cotti al microonde, e non ho mai pregato. Non ho chiesto di avere una vita così piena e lunga, ho sempre vissuto nell’ottica che ogni giorno potesse essere l’ultimo, ma che molto probabilmente non lo sarebbe stato. Non credo che la mia vita sarebbe stata la stessa se mi avessero detto che sarei morto a centosettantanove anni.
Sono quasi due secoli, lo so. Ho sempre detto che non mi sentivo vecchio, infatti ho lavorato fino a centosettantacinque anni fittando barche su una spiaggia dove i turisti vengono ad ammirare il paesaggio più bello del mondo. Ho assistito ai funerali di due mogli e numerose compagne, di quasi tutti gli amici e di mio figlio. Ho assistito al funerale di tutti i miei nipoti e anche a quelli dei loro figli. Sono di centoquattro anni più vecchio del mio discendente più vicino, e fino a ieri erano tutti sicuri che lui sarebbe morto prima di me. Domani il mio discendente più giovane compie diciotto anni, e non credo che sarò presente alla sua festa. È particolare che mi chiami nonno, dato che sono il nonno del nonno di suo nonno.

Una cosa che ho sempre amato è il cibo, e ora Nancy è qui al mio capezzale che mi offre uno dei suoi pasticcini e io sono costretto a rifiutare, dopo un solo morso mi sento sazio. Li cucina lei, quei pasticcini, e sono davvero deliziosi. Fidatevi, se lo dice uno che ha avuto occasione di assaggiare molti cibi diversi. Nancy è la mia undicesima compagna, tredicesima se considero anche le mie due mogli. Mi sono sempre piaciute le donne più giovani, anche perché a un certo punto è diventato difficile trovarle della mia età. Nancy è più di cento anni più giovane di me, e cucina i pasticcini più buoni del mondo. Credo di averlo già detto, ma concedetemi un po’ di demenza senile, per piacere. Lei è triste perché rifiuto i suoi dolci, ma ho visto tante di quelle persone in punto di morte che ormai so bene di cosa si tratta: il mio corpo si sta preparando a chiudere bottega e non ha più bisogno di cibo. Rifiuta tutti i solidi e quasi tutti i liquidi, le dico, non c’è da preoccuparsi. In questo momento mangiare mi fa più male che digiunare, l’apparato digerente sta facendo il bilancio di fine anno. E io l’ho fatto? Sì, ogni anno, da quando ne avevo ottantasei, ho aggiornato il mio testamento, principalmente perché i miei eredi designati morivano. Lei sembra tranquillizzarsi, resta lì e mi tiene la mano, senza parlare. Sa che ormai il mio rapporto con i vivi si è ridotto al tirare le somme, sa di essere stata presente in meno del dieci percento della mia vita, e sa di essere probabilmente l’ultimo dei miei pensieri.
La sento piangere, mi tocca la mano, avvicina l’orecchio alla mia bocca e in questo momento realizzo che mi stava chiamando. È normale anche che io non riesca a muovermi o rispondere, è un altro normale processo fisiologico, mi sto preparando a staccarmi da tutto. E ho tanto da cui staccarmi. Mi concentro sulla mano, cerco di stringerla.

Quando mi sveglio lei è addormentata sulla sedia, sento il vento che mi solletica la pelle anche se porte e finestre sono chiuse. All’improvviso lei è lì, sveglia, mi sta parlando, sei freddo, e mi stringe ancora la mano. Mi poggia un lenzuolo addosso e mi sorride, gli occhi velati di lacrime. Mi guardo le mani, fredde e con le unghie tendenti al blu, e sorrido. La circolazione sta rallentando, il sangue si concentra negli organi di maggiore importanza e le estremità si raffreddano, è tutto normale. Ma forse a lei fa piacere sentirsi utile, allora lascio che mi copra e che mi sorrida ancora. sorrido anche io, ma sto guardando Scarlett, in piedi dietro di lei.
Questo non è possibile, le tendo una mano anche se Scarlett è morta anni fa. Scarlett, le mormoro, sei un’allucinazione, è l’afflusso di sangue al cervello che diminuisce, sei un’illusione, come il vento che soffiava, ma mentre le dico queste parole i miei occhi iniziano a lacrimare. È giorno o notte? E dov’è finita Nancy? Scarlett, la mia seconda moglie, si siede al mio fianco. È uguale a quando l’ho conosciuta, avevamo poco più di sessant’anni, volevamo amarci, volevamo riprovarci, eravamo spaventati dalla morte e ancora di più eravamo spaventati dalla vecchiaia, dall’idea di invecchiare da soli. Abbiamo vissuto insieme poco più di vent’anni, e quando lei è morta ero convinto che di lì a poco sarebbe capitato anche a me, che dopo aver organizzato il suo funerale e aver distribuito i suoi averi, l’avrei raggiunta. Scrissi un testamento, sicuro che avrei dovuto disporre solo dei miei averi. Inutile precisare che se mi avessero detto che quel testamento sarebbe stato aggiornato altre novantatré volte perché avrei dovuto disporre anche dei beni ricevuti da amici, figli e nipoti non ci avrei creduto.
Perché proprio Scarlett? Perché di tutte le persone che ho conosciuto, di tutte le donne che ho avuto, proprio lei? Osservo la mia mano sinistra che stira il lenzuolo con un movimento lento, ripetuto all’infinito, sempre uguale, e chiedo a Scarlett di avvicinarsi a me per ascoltare le ultime parole che ho da dire al suo fantasma. Chiudo gli occhi mentre lei avvicina, o almeno io lo immagino, l’orecchio alle mie labbra e sussurro che ero spaventato all’idea di morire solo. Apro gli occhi, voglio dirle che ho provato davvero ad amarla, al punto di essere sicuro che sarei morto, come quei vecchi che muoiono di crepacuore l’uno dopo l’altro, ma lei non c’è più. È di nuovo Nancy che mi sorride con le lacrime agli occhi e mi dice che non sono solo.
Ecco, questo è un equivoco difficile da spiegare, quindi abbasso lo sguardo verso la mano sinistra che continua a stirare il lenzuolo. Come faccio a dirle che parlavo con il fantasma di una donna morta ben prima che lei nascesse? Come faccio a risolvere tutti i conti in sospeso, a ricordare tutti gli oggetti accumulati, tutte le persone conosciute, tutti i torti inflitti e subiti, come faccio a… a risolvere tutto? Sono così stanco all’improvviso, sono, tutto è così, così difficile, tutto, io non… io non sono abituato a morire,
COME SI FA A MORIRE???
Cerco di sferrare un pugno sul letto, ma il mio corpo è così debole, da un giorno all’altro sono diventato vecchio.
Nancy, ti prego, toglimi queste lenzuola, sono diventate pesanti come il cemento.
Grazie, Nancy, non ti preoccupare, sono solo stanco, non sto morendo.  Anzi, sto morendo, ma non ora, non in questo esatto momento. La stanchezza è dovuta ai cambi nel metabolismo, ma non ne posso più di morire, sto morendo da troppo tempo, voglio che questa cosa finisca al più presto, sono troppo abituato ad essere vivo per avere una morte così lenta. Voglio andarmene prima che il mio corpo decreti i tagli a tutti quegli organi che espellono gli scarti, prima che i reni chiudano per bancarotta e cedano il campo alla pelle come industria leader dell’escrezione, prima dei sudori e dei pruriti, prima che i muscoli dell’intestino si rilassino, prima che di cacarmi addosso come un bambino.

Il nipote del nipote di mio nipote entra ora dalla porta. Domani entrerà nella maggiore età, e nonostante io sia triste all’idea di non essere alla sua festa sono felice all’idea che non sarò presente neanche al suo funerale. È un ragazzo molto intelligente, e so che ora mi toccherà dargli un consiglio di quelli che tutti i vecchi in punto di morte danno ai loro nipoti.
In punto di morte, gli dico, fai i conti con tutto e con tutti. Una sola questione sospesa ti può tormentare, soprattutto se non hai più modo di risolverla. Evitalo, gli dico, sii sempre sincero, anche se questo ferisce le persone. Perché la vita è così, anche se vuoi bene a qualcuno vi farete per forza del male, anche se credi che una persona sia tutto per te. Le persone vanno e vengono dalla nostra vita, ed è normale. Se perdi una donna, o un amico, semplicemente non erano le persone giuste per stare al tuo fianco. Hai il mio stesso nome, ma non ti auguro la mia stessa sorte. Ti auguro una vita piena e lunga, lunga come una vita normale.
E mentre lui, molto maturo per la sua età, mi sorride con amarezza, chiudo gli occhi. Sento la porta chiudersi dietro i suoi passi e la voce flebile di Nancy che chiama il mio nome.
Non rispondo.
Il momento è sempre più vicino.
Ascolto il mio respiro raschiato e so che ormai sono più morto che vivo. Il sangue circola più lentamente, anche cuore e polmoni lavorano a regime ridotto, i muscoli della mia gola sono rilassati e non puliscono i muchi dalla trachea. Vorrei spiegare a Nancy che non sto soffocando, ma per fortuna un dottore è qui e lo sta facendo per me. Le sta parlando del respiro di Cheyne-Stokes, di cui sto dando una magistrale dimostrazione in questo momento: passo da una respirazione profonda ad uno stato di iperventilazione, alternando tutto questo a fasi di apnea. L’apnea causa un aumento dei livelli di CO2 nel sangue, che a sua volta stimola l’iperventilazione per riportare i livelli alla normalità. A quel punto, però, la concentrazione di CO2 è più bassa del normale e non ho più bisogno di respirare, quindi si ritorna all’apnea. È un circolo vizioso che si spezzerà solo con la morte. Una morte angosciante, ovviamente. Sai che il tuo momento si avvicina, ma non sai esattamente quanto manca. Non puoi opporti, non vedi, non puoi lottare in alcun modo, non puoi nemmeno muoverti. E siccome non sai quanto ti resta, questa morte all’apparenza serena è più angosciante che essere bendati, legati su una sedia da ufficio bloccata con dei pesi sul fondo di una piscina che si riempie inesorabilmente.
La mia morte è più angosciante di quella che è toccata ad Andrey Kapustin.
La mia morte è più angosciante di quella che ho inflitto ad Andrey Kapustin.

Andrey Kapustin è morto nella sua piscina quando io avevo sessant’anni. È morto nella piscina dove violentava i bambini che rapiva, nella piscina dove ha violentato e ucciso il mio primo nipotino. Neanche mio figlio ha mai saputo che sono stato io ad ucciderlo, a stare lì e guardarlo annegare. Ricordo la paura nei suoi occhi imploranti, e l’assenza di pentimento che mi riempiva durante quegli attimi. Ho assistito al funerale di mio figlio, e vederlo in una cassa di legno non è stato triste come vederlo piangere in silenzio davanti alla minuscola bara del suo primogenito. Ho fatto ciò che andava fatto, ho avuto centoventinove anni per pentirmene, ho cambiato punto di vista sulla vita numerosissime volte, ma su quell’uomo non ho mai cambiato idea. Non l’ho mai confessato a nessuno, e ormai non posso più farlo. E non ho neanche intenzione di pentirmi di averlo ucciso. Se la polizia avesse condotto delle indagini approfondite sarebbe arrivata a me senza grandi difficoltà, se non l’hanno fatto forse è perché in fondo la morte di quell’uomo era una cosa giusta. In quel momento decisi di non dirlo a mio figlio perché non volevo contaminare la sua macabra gioia e la sua sadica consolazione con la tristezza di avere un padre assassino, con la paura che sarei potuto finire in carcere per qualcosa che lui avrebbe ritenuto compito suo, colpa sua, per qualcosa che l’avrebbe fatto dannare per anni.
Solo ora inizio a pensare che forse avrei dovuto dirglielo. Siamo abituati a credere di poter decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato per le altre persone solo perché siamo più grandi, e io sono molto abituato ad essere più grande degli altri. Ognuno dovrebbe essere libero di decidere per sé, eppure con quanta facilità ci arroghiamo il diritto di scegliere per gli altri, decidere cosa vogliamo che sappiano, decidere cosa è bene per loro…
Forse, se lo avesse saputo, mi avrebbe ringraziato.
Alla fine dei conti, credo che le bugie e le omissioni causate dalla mia superbia siano l’unica cosa di cui mi pento. E avere un solo pentimento, alla mia età, è probabilmente indice di una vita vissuta nel modo migliore.

Il sogno di tutti è andarsene senza rimpianti.
Ma anche uno solo, in fondo, va bene.
Sono sereno.

Al momento della morte, l’udito è l’ultimo senso ad abbandonarci. Volto la testa verso Nancy, senza vederla, e mormoro parole. Lei mi chiede di ripetere, ma la lingua non si muove più. Mi concentro, mi sforzo, ripeto:
Sono sereno.

E mentre i colori nei miei occhi diventano invisibili e le mani di Nancy nelle mie diventano impalpabili, mentre tutto svanisce, la sua voce mi arriva limpida e mi accompagna:
“Buon viaggio.”