(link per il Capitolo I)
No. Mai. Non aprirò questa porta. Silenzio, attesa, il cuore
in gola e i muscoli in fiamme, mi alzo in piedi e cerco di parlare con voce
forte, decisa, non rotta dalla paura.
-Chi sei?
La mia voce mi sembra quella di un estraneo, non la sentivo
da quando ho scoperto di essere solo in casa, è quella di un estraneo che mi
parla solo nell’orecchio sinistro. È sempre stata così? Dalla porta non arriva
alcun suono. Mi arrampico sui mobili che ho usato per bloccarla e avvicino
l’orecchio sinistro alla porta, fino a sentire il legno freddo e liscio contro
la guancia. Sento chiaramente una voce che sussurra, ma non riesco a
distinguere nessuna parola. Un paio di volte mi sembra di sentire il mio nome,
ma probabilmente è solo un’illusione. Mi schiarisco la voce, cercando di
apparire sicuro:
-So che sei lì fuori! Cosa vuoi?
Nessuna risposta, solo silenzio e angoscia. Silenzio rotto
solo dal mio respiro incerto e dal battito del mio cuore, sempre più
insistente, più rumoroso, unica difesa contro il silenzio. Afferro un abat-jour
e decido di aprire la porta, se devo morire sbranato da mostri, così sia,
almeno li affronterò. Non intendo chiudermi in una prigione sempre più piccola.
Non intendo morire di paura, non intendo morire di silenzio. Sicuro di me,
inizio a disfare la mia rudimentale barricata. Sposto la prima sedia di pochi
centimetri, e bussano ancora. Tremo, e capisco che non ce la posso fare, la
paura è troppa, troppo densa, troppo pesante, e quel suono, quella bussata
lenta, quattro colpi e nulla di più, mi scuote nel profondo. Ancora: toc, toc, toc, toc, silenzio. Spingo di
nuovo la sedia, mi ci appoggio con tutto il mio peso, angosciato, spaventato,
frustrato, e mi allontano a grandi passi, gli occhi pieni di lacrime di
nervosismo. Cosa ha importanza ora? Dalila, che non posso più contattare? Le
porte, che non posso più aprire? L’oggetto in cui inciampo, che al buio non
posso più riconoscere? Il sapore del pavimento dove cado, quello è importante.
Lecco il pavimento, lo abbraccio, perché almeno lui è lì e mi accoglie sempre,
lui non è come le stanze che si allungano o come le porte che si bloccano o
come le chiavi che girano da sole. Lui è lì, ha il sapore di pavimento e del
mio sangue e di fallimento e di pazzia incombente. Mi rannicchio, non importa
in che punto della stanza io sia, e ascolto il mio cuore. Ogni tanto battono
ancora sulla porta, non importa più. Mi sto calmando, forse mi sto rassegnando
alla prigionia, alla pazzia, al buio e al silenzio, il mio cuore finalmente
inizia a rallentare. Bussano alla porta: toc,
toc, toc, toc. Bussano ancora novantasette battiti di cuore dopo. E
ottantacinque battiti dopo. E settantasette battiti dopo. E sessantaquattro
battiti dopo, e poi il mio cuore si stabilizza e loro bussano ogni sessanta
battiti. Il ritmo del mio cuore e della porta mi culla, non so se i miei occhi
sono aperti o chiusi, lentamente scivolo nel sonno.
Quando apro gli occhi vedo la luce e capisco che è stato
solo un sogno. Con le palpebre semichiuse, mi godo lo spiraglio di luce che
bagna la mia vista, apro la bocca per far sì che la luce mi disseti, mi
stropiccio gli occhi e li apro, e ciò che vedo è l’incontro tra il pavimento e
il balcone, la persiana lievemente sollevata, quanto basta per capire che è
mattina. Mi alzo e mi guardo intorno, sconvolto dall’incubo, che sembrava reale
quanto la vita vera. Come sono arrivato a terra? Il letto è al suo posto, il
materasso anche, riconosco nella penombra le sagome della sedia dei mobili
dell’abat-jour, tutti al loro posto. Cammino e tocco, sollevato, mi accorgo di
avere fame. Tantissima fame. Sorrido con me stesso, la porta è aperta e tutto è
al suo posto. Vrr, vrr, vrr. Una luce
nel buio. Il mio cellulare vibra tre volte prima dell’inizio della suoneria, e
il cellulare è in bella vista sulla cassettiera dove lo lascio ogni sera.
Appena lo afferro, smette di squillare. Era Dalila, ho diciotto chiamate perse.
Le telefono, ansioso di sentire la sua voce. Uno squillo, due squilli, il suono
di qualcuno che solleva la cornetta, il segnale della batteria scarica. Osservo
il cellulare, buio come la mia casa, muto come la notte. Bisogna metterlo in
carica. Ma prima, decido di alzare la persiana e ridere del mio incubo. Lo
sforzo che faccio per cercare invano di alzarla rende più acuto il dolore
all’orecchio sordo, al dente scheggiato, alla mano coperta di sangue.
Era tutto reale.
Hanno aperto la porta.
Hanno rimesso tutto a posto.
Sono entrati.
E non mi hanno fatto niente.
Mi abbandono contro il muro e scivolo a terra, forse dovrei
smettere di oppormi, di fuggire, di tenerli lontani. Mi hanno dimostrato di
poter entrare dove e quando vogliono, ma non mi hanno fatto nulla di male. Sono
troppo dolorante per arrabbiarmi, troppo affamato per pensare lucidamente,
troppo stanco, troppo in gabbia, senza cellulare, senza elettricità, senza
nulla di ciò che componeva la mia vita. Magari, queste cose che vivono con me potrebbero essere la mia salvezza: mi hanno
privato della vita monotona e frustrante che tutti finiscono per odiare. Non
sono andato al lavoro: mi è forse dispiaciuto? Se non lavoro non potrò pagare
le bollette, ma è rilevante ora che non ho più acqua né elettricità? E i
rapporti interpersonali, mi dispiace non dovermene più curare? I vecchi amici
con le loro insopportabili insistenze e invasioni dei miei spazi, la nonna e il
suo Alzheimer che l’ha resa qualcos’altro che ormai è solo lo stesso involucro
di carne che conteneva mia nonna, anche Dalila, che nonostante io stesso abiti
qui da pochissimo già fa come fosse casa sua e vuole tenere le sue cose qui
quando neanche io ci tengo ancora tutte le mie. Mi dispiace davvero abbandonare
tutto?
Percorro lentamente lo spazio che mi separa dallo sgabuzzino,
avanzando a tentoni e aiutandomi dagli scarsi raggi di luce che penetrano dalle
finestre, forse sono fantasmi che vogliono portare anche me in una dimensione
in cui non ci sono preoccupazioni. Apro la porta, forse accogliendoli a braccia
aperte tutto questo finirà. Nello sgabuzzino è buio pesto e mentre cammino uno
due tre passi penso a quanto è facile devastare la mente di un essere umano:
bastano porte chiuse e rumori nella notte. Mentre cammino quattro cinque sei
passi rifletto sul fatto che nessuno mi ha fatto del male: io ho spaccato il bicchiere perdendo l’uso di un orecchio, io ho corso fino ad urtare la porta, io mi sono arrabbiato e ho preso a pugni
la parete. E loro, loro cosa sono? Loro sono solo rumori. Mentre cammino sette
otto nove passi ricordo che loro sono solo rumore di risate e passi e ringhi
alle mie spalle, rumore di colpi contro la porta e di chiavi che girano, rumore
di sussurri e di bussate: toc, toc, toc, toc.
La mia mano tocca la parete, allora mi volto e torno indietro. Chissà se sarei
ancora spaventato se prendessi un coltello dalla cucina, uno di quelli lunghi
sottili e affilati e mi bucassi anche l’altro timpano. Finito il rumore, finita
la paura: tornerò a sentire il silenzio della mia anima, il silenzio più
profondo che io abbia mai sentito, perché non ci saranno più nemmeno le
impercettibili onde sonore prodotte dal battito del mio cuore o dal respiro più
leggero. Hanno nove otto sette sei passi per venire da me, devono farlo ora e
se non lo faranno andrò in cucina e prenderò il coltello e renderò eterno il
silenzio che sento. Cinque quattro tre due uno zero passi e sono fuori dallo
sgabuzzino e non so se essere sollevato o meno. Un minuto dopo sono con la
faccia immersa nello specchio del corridoio, ma la luce è troppo fioca per
distinguere qualcosa che non siano il contorno e le sporgenze del mio volto, e
la cucina sullo sfondo, un quadrato di muro alla fine del corridoio vagamente
più chiaro del resto dello sfondo. Mi concentro sulla mia mano e sul coltello
che impugna e che si avvicina lento e inesorabile al mio timpano, unica difesa
contro il silenzio. Chiudo gli occhi per una frazione di secondo, e quando li
riapro il sangue mi si gela nelle vene. I peli mi si rizzano, la mano si blocca
e il coltello cade a terra.
I miei occhi immobili sono fissi sul riflesso del muro della
cucina, sulla sagoma immobile di una persona con due cani al guinzaglio.
3 commenti:
Come già mi ero reso conto dallo spoiler che mi hai fatto l'altra sera, è proprio figo questo capitolo. Hai saputo riprendere gli elementi introdotti da me e Ro La e incanalarli in una strada senza stravolgere, anzi mi è piaciuto il fatto che tu abbia rivalutato la parte più "riflessiva" sulla quale si direzionava il mio capitolo senza perdere quella più "horror" introdotta da Ro La. Brav'!
La situazione da ansiosa inizia a farsi interessante.
ANSIA E INTERESSE, ANSIA E INTERESSE!
A te l'arduo compito di mettere dei binari alla storia.
A te il compito di mettere tutto in un minimo ordine.
Risultato:10 e lode.
Begli spunti, ansia sempre ripresa, ma lo psicologico che ne è venuto è la chicca.
Posta un commento