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martedì 10 dicembre 2013

Pronuncio il tuo nome


a Quattro-sillabe-nel-vento



La notte è tornata. Mi è sempre appartenuta, ma quasi me ne ero dimenticato. Inizia a far freddo, il vento soffia forte, i rami sono lì spogli e immobili, le foglie danzano e in questa notte oscura continuo a pronunciare quel nome. Quattro sillabe, come quattro note suonate in notti oscure. Il vento riesce a sfruttarle a trascinarle nel suo turbine e non si sa se quelle quattro sillabe sono vanamente pronunciate.  Posso soltanto vedere una stella, solitaria e lontanissima, piccolo punto di luce. Sembra volermi comunicare qualcosa, ma io non riesco a capire la sua lingua, una solida grammatica basata su fotoni. Non riesco a comprendere altro che quelle quattro sillabe. Pronuncio il tuo nome. Oggi mi dovrebbe risultare lontano, incomprensibile, molto di più dei fotoni di quella stella, più lontano di tutte le stelle e invece il vento non fa altro che farlo scivolare dentro di me.
Piove. Mite pioggia che rinfresca l’aria, che assorbe tutto il lerciume che la mia specie è capace di produrre e ce lo restituisce attraverso il cibo che la Madre Terra ci regala. La breve sinfonia che ho provocato inizia a farmi male, mi contorce lo stomaco. Produco acidi che corrodono la carne, l’anima e la vita. I miei denti diventano avvelenati e più aguzzi. Mi chiedo perché non ci sia nessuno ad ascoltare quelle dolenti sillabe. Nessuno, neanche tu. Inizio a sentirmi vuoto di passione e di musica. Un musicista impazzito che con uno strumento accordato e lui stesso capace di dare un'ampia gamma di possibili variazioni, si limita a ripetere all’infinito quell’accordo di quattro note. Un musicista impazzito che rende quell’accordo ripetuto un successo planetario, che si fa amare dalle generazioni future, ma è quell’accordo ripetuto a renderlo così amato o la sua follia? Sono come un artista impasticcato, che non prova nulla nei confronti di una vita così fragile, così piena di superficialità, che seppure ha di fronte a sé un pubblico infinito che va oltre il lento e insopportabile presente, non prova nulla. Il pubblico piange per lui e per il suo accordo di quattro sillabe, lui invece gli volta le spalle. Io sono come lui, volto le spalle e continuo a pronunciare il tuo nome, unica ossessione, unica mia pasticca.

Un orologio. Folle, suona a quest’ora della notte e canta antiche ore defunte. E’ lo scoccare dell’ora, quando gli spiriti del passato ritornano a strangolarti e soffocarti e a dirti che non vai da nessuna parte, che devi soffocare lì, perché è giunta l’ora. Vuoi liberarti e poter urlare, poter andare avanti, ma non puoi perché è bello essere soffocati. Perché l’aria di morte a volte può essere più forte della vita. Anzi, perché in realtà lo è. Così come la superficialità fatta di gomma e di tanto bel moralismo risulta impenetrabile, e la profondità così trasparente come una lastra di vetro, così piena di verità, è fragile. Gli spiriti e le ore defunte sono usciti da quell’orribile orologio impolverato, prima lamentandosi e adesso se la ridono e fanno banchetti nella mia tana mentre  continuo a fissare attraverso la finestra, ad attraversare con lo sguardo un mondo che improvvisamente è immerso nella nebbia. Abbasso il mio sguardo sconfitto e divento sordo, non voglio più ascoltare gli spiriti del passato che banchettano e ridono di me. C’è qualcosa che riesco a fare, immagino il suono di quelle sillabe. Il tuo nome: continuo a pronunciarlo nella mia mente, così posso continuare a vivere anche con la nebbia dietro ad una lastra di vetro trasparente, ma se la nebbia si sciogliesse, quale nuova passione mi aspetterebbe?

La luna. Voglio sfogliarla con le dita, adesso. Andare oltre, vedere oltre, ascoltare oltre, pronunciare oltre il tuo nome. Ti amerò come allora, ne sarò capace? Dimenticherò cos’è davvero l’amore, perché avrò dimenticato cos’è la vita, perché le due cose coincidono, purtroppo, per noi esseri umani. Invece la morte è più facile. Tu lo sai questo, vero? Me l’hai insegnato tu. Ancora quelle quattro sillabe, le voglio urlare adesso, ma le ripeto solo perpetuamente nel mio cervello.

Che colpa ha commesso il mio cuore? Dimmelo, perché quelle quattro sillabe non mi danno più pace. Cercavo solo di vivere, di amare e di guardare attraverso una finestra di vetro, di essere la tua finestra di vetro. Tu eri la mia stella calda che mi passava attraverso, ad ogni ora del giorno. Insieme permettevamo alla vita di continuare, a far sorridere, a dare una speranza. Voglio urlare il tuo nome, voglio cacciarlo via, ma so che ritornerà sempre qui, da solo o con l’aiuto del vento. Potrei lasciarmi andare ad un pianto e far colare via dal mio corpo tante belle convinzioni, adesso che c’è la nebbia posso. Posso affondare i miei denti avvelenati nella mia carne e punirmi, perché gli spiriti non si fanno toccare, sono più potenti di me. Ma non saranno ancora a lungo in questa dimensione, loro appartengono ad un altro mondo, il loro mondo. Non appartengono affatto a questo. Appartengono al mondo della stagnazione. Potrei anche diventare un vuoto impasticcato delle sillabe che compongono il tuo nome, ma continuerò ad urlarle perché quelle hanno vita, perché quelle sono vita. Urlo. Urlo forte il tuo nome, perché forse un giorno non torneranno indietro solo quelle quattro note, ma forse tornerai tu in carne ed ossa. E la nebbia sparirà, forse, un giorno. Il mio corpo sarà dilaniato, la mia anima esisterà ancora? Ne ho mai avuta una? Nessuno lo sa meglio di te. Quindi io continuo a pronunciare il tuo nome, fino al mio delirio. Pronuncio il tuo nome finché non torni a ridare la vita a questo mondo superficiale, perché non voglio credere che tu sia un terribile spirito schierato dalla parte della morte. Non posso credere che tu abbia indossato una maschera con me, che tu serva dell’oscura morte mi abbia colpito nella mia convinzione più grande. La vita. Io lo so, lo so che non è così ed è per questo che continuo a pronunciare il tuo nome e far sanguinare le mie orecchie, a vomitare rosso vivo, e a piangere gocce dell’inchiostro più prezioso del mio corpo. Pronuncio il tuo meraviglioso nome.



*Questo scritto è liberamente ispirato alla poesia "Io pronuncio il tuo nome" ( nell'edizione originale in spagnolo intitolata "Si mis manos pudieran deshojar").*


Io pronuncio il tuo nome
nelle notti oscure,
quando giungono gli astri
a bere nella luna,
e dormono i rami
delle fronde occulte.
Ed io mi sento vuoto
di passione e di musica.
Folle orologio che canta
antiche ore defunte

Io pronuncio il tuo nome
in questa notte oscura,
e il tuo nome mi suona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della mite pioggia.

Ti amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha commesso il mio cuore?
Se la nebbia si scioglie
quale nuova passione mi aspetta?
Sarà tranquilla e pura?
Se potessi sfogliare
con le dita la luna!

3 commenti:

Bob ha detto...

"Produco acidi che corrodono la carne, l’anima e la vita. I miei denti diventano avvelenati e più aguzzi." su questa parte ho rabbrividito. Ed è bello sapere che sotto sotto anche tu sei un romanticone.

Arhal ha detto...

Bellissimo, veramente.
Sono parole che ho sentito profondamente mie: sarà per il pessimismo, sarà per il simbolismo, sarà per il romanticismo.

So che è imbibito di qualcosa che tu adesso stai vivendo e mi dispiace molto per le sensazioni negative che provi, ma qualcosa in questi anni ho imparato: anche le cose più negative servono a qualcosa.

Se non altro, a te sono servite per scrivere tutto questo.

Coraggio!

Il Losco ha detto...

Che dire, doc, mi è piaciuto.
E' diverso da quello che scrivi di solito, molto più flusso di pensieri puro e crudo, e penso che la cosa sia dovuta a quello che stai passando in sto momento
Pollice su, e da in faccia.