Citazioni


martedì 7 gennaio 2014

Guardo il passato. - Parte II

 Ispirato alla poesia "Angelo, guarda il passato", di Thomas Wolfe.

  



[…]
Non posso credere che lo sto facendo davvero.
“Lo sai, vero, che ogni cosa ha il suo prezzo?”
“Si, Smilzo, e so anche che i tuoi sono salati come l’acqua di mare.”
I dieci giorni successivi all’incontro sono stati un inferno. Poco appetito, apatia, persino il sonno mi era diventato movimentato, quando c’era. E fosse solo questo. Non penso sia mai bello svegliarsi pensando di stringerla e ritrovarsi tra le braccia un lenzuolo aggrovigliato, e la scena si è ripetuta fin troppo spesso. E fin troppo spesso ho sfiorato le lacrime. Ed erano solo dieci giorni.
Rischiavo di arrivare al prossimo incontro come uno scheletro, e per questo ho deciso di rivolgermi a lui. Devo trovare il modo di distrarmi, di uscire dalla mia testa, di vivere meglio l’attesa, e lo Smilzo in fatto di distrazioni è il miglior contrabbandiere del complesso. Ma naturalmente, in un mondo senza denaro, si ricorre al baratto. E trovare qualcosa che possa interessare allo Smilzo è come cercare un ago in un pagliaio.
“Su, vediamo cosa mi hai portato.”
Svuoto scocciato il contenuto del sacco che mi sono portato appresso, pensando tra me e me che deve ringraziare Dio o chi per lui che il contrabbando è tollerato dai piani alti perché da un’idea meno oppressiva del sistema se ora si trova li a fare il borghesotto da quattro soldi con la sua aria schizzinosa piuttosto che spalare merda nelle fognature.
Ma tu guardalo con che aria di sufficienza si mette a fissare la roba. Lo vedo ogni tanto soffermarsi su cornici, spille, collane e osservarle come se fossero ciarpame. Si ferma solo su un ciondolo dorato, che non ricordo nemmeno dove lo abbia trovato.
“Va, perché sei tu, questo può andare bene.”
Rimette le altre cose nella borsa, porgendomela. Non appena faccio per afferrare la borsa, mi sento afferrare per il bavero. La bocca di quel bastardo… me la sento alitare in faccia.
“Mettiamo le cose in chiaro prima di andare avanti. Tu non sei mai stato qui. Non mi conosci. Non sai dove hai preso quello che stai per prendere e sicuramente non in un posto qui vicino. Non provare a fregarmi, che giuro su Dio che ti ritrovi in  una fossa. Sono stato chiaro?”
Mi levo le mani di dosso in malo modo, guardandolo in cagnesco.
“Lo prendo per un si. Avanti, seguimi.”
Colpisce un paio di punti nella parete, che si apre su di un corridoio poco illuminato. Lo vedo prendere una torcia, e farmi ancora cenno di seguirmi.
“Non ho ben capito cos’è che stai cercando. Più avanti ci sono giochi, svaghi vari, mentre a sinistra ci sono i libri. Quelli si che sono difficili da reperire al giorno d’oggi…”
E ci credo, se ci fosse libertà di stampa si darebbe uno strumento troppo potente in mano agli “anti-conformisti”. Anche alla libertà fittizia c’è un limite.
“Mi serve qualcosa che mi prenda, che mi faccia distrarre, e che sia duraturo. Penso che non sia il caso dirottarsi per i giochi da tavola. Oltretutto, da solo non è che sia questo gran passatempo…”
“E allora, all’ala dei libri.”
Giriamo a sinistra, arrivando in una stanza particolarmente chiusa. L’odore di chiuso è palpabile, così come la polvere. Mi porge la torcia, invitandomi a cercare in mezzo a quegli scaffali disordinati. Non mi sembra particolarmente voglioso di accompagnarmi nell’impresa. Sospiro. Entro nella stanza, strappandogli la torcia di mano. Passo giusto una mano sul dorso di alcuni libri, e un alone di polvere si solleva nella stanza. Tossisco, bestemmiando tra me e me, mentre inizio a leggere i vari titoli. Si passa dal Ritratto di Dorian Gray, a Così Parlo Zarathustra, a Uno, Nessuno e Centomila. Tutti libri che non ho nemmeno lontanamente idea di cosa parlino. Tanto vale andare a caso, tanto per quel che ne posso sapere…
 Chiudo gli occhi, e mi limito a passeggiare su e giù per la stanza, lasciando volteggiare la mano così, a casaccio. A un certo punto mi fermo, indicando un libro particolare. Tra l’altro, al tocco, avverto una sensazione strana. Non so se sia per il rilievo del titolo o non so cos’altro, ma decido di prenderlo.
Lo porgo allo Smilzo, che lo afferra e soffia via la polvere dalla copertina.
“Che tu sia per me il coltello, di David Grossman, eh. Parla di due tizi che si mandano lettere d’amore, o cose simili. Sei sicuro?”
Annuisco con forza, strappandoglielo di mano.
“Contento tu…”
[…]
Sto iniziando a perdere la pazienza.
Sono ormai ore che aspetto nell’oscurità, sentendo il cuore sobbalzare ogni volta che sento passi in vicinanza.
La prima volta erano tipi dei comizi che parlavano tra di loro, da cui mi sono dovuto nascondere per non perdermi in chiacchiere che sarebbero durate millenni. La seconda volta era la ronda, e nel terrore mi sono raggomitolato nell’ombra, in un angolo, pregando con tutte le mie forze che non mi scoprissero. E’ stato con un sospiro di sollievo che li ho visti passare avanti, senza rendersi conto di niente. La terza volta era solo un cazzo di ubriacone che poteva solamente attirare l’attenzione di chi non doveva.
Mi sono rotto il cazzo di cagarmi addosso per niente. Eppure doveva già essere qui. Sta andando avanti da un po’ sta storia, ormai dovrebbe essere routine. Ogni due giorni qui, all’angolo, dove le luci sono più fioche. E’ una pratica collaudata, dannazione, sarà almeno la quinta volta che la facciamo, da quando sono andato dallo Smilzo e ho parlato ad Adrienne di quell’idea.
Ricordo ancora il volto incredulo quando le ho detto di iniziare a scambiarci lettere, per diminuire l’angoscia dei venti giorni di lontananza ogni mese, per avere l’illusione di stare vicini nonostante questo clima di terrore di merda che ci circonda, un po’ come in “Che tu sia per me il coltello”.
Già, da lì avevo preso l’ispirazione… mi piaceva il modo in cui i personaggi si mettevano a nudo con delle semplici parole scritte… sembra quasi di conoscersi meglio in quei dieci minuti che ci vogliono a leggere una lettera che a stare mano nella mano per mesi…
Passi.
Mi nascondo veloce nell’angolo, appiattendomi sulla parente per quanto sia possibile. Cerco di distinguere una forma nell’ombra, di capire chi sta arrivando. Si muove furtivo, questo è certo.
Che sia l’uomo del colonnello?
Gli istanti sono scanditi dal basso suono dei passi. Uno. Dopo. L’altro.
Lentamente vedo qualcosa affiorare dall’ombra. Si vedono stralci di pantaloni, si intravede la stazza della persona. Un uomo magrolino, cauto, che si muove lento, guardandosi attorno.
Sento un sibilo uscire dalle sue labbra.
“Sei li?”
Sussurra piano, nell’ombra, con tono nervoso, mentre la sua figura ormai si riesce ormai a vedere del tutto,nonostante sia ancora un po’ ammantata d’ombra.
“Ce ne hai messo di tempo.”
Rispondo, avvicinandomi lentamente. Di tutta risposta mi prende per la casacca e mi spinge con lui nell’ombra.
“Sei impazzito? Come diavolo ragioni? Esci così, senza pensarci, senza neanche chiederti se sia un uomo del colonnello o uno venuto a stanarti. Porca puttana, devi essere cauto, qui stiamo infrangendo la legge!”
“Si, ho capito, hai ragione!”
Taglio corto io, staccandogli piano la mano dalla casacca.
“Non ci avevo pensato, sembrava che sapessi fin troppo bene che ci fosse qualcuno li ad aspettarti.”
“I tempi non sono più tranquilli, imbecille. Accortezza è la parola d’ordine. La prossima volta vedi di ricordartene.”
Sbuffo, annoiato dal sermone. Ma anche volendo non avevo modo di ribattere. Aveva ragione su tutti i fronti, purtroppo.
“Tagliamo corto. Hai cosa mi dovevi portare?”
“Si, è qui. Ho trovato enorme difficoltà ad aggirare le ronde stavolta… si vede che non c’è un comizio oggi.”
Mi porge un piccolo tubo metallico, che gli strappo velocemente di mano.
“Domani alla solita ora?”
Gli dico semplicemente.
Mi fa cenno di sì, e mi saluta, sparendo di nuovo nell’ombra.
Lo imito, dirigendomi verso la mia cella, cercando di sentire ancora qualsiasi passo nelle vicinanze.
Stringo ancora forte il tubo in mano...mi ritrovo impaziente come tutte le volte.
Non resisto, mi fermo in un angolo poco battuto nelle ronde e lo apro, tirandone fuori un foglio di carta.
Sento il cuore battere, mentre scorro veloce le mani sulle lettere.
Arrivo alla fine, e i battiti non li sento più.
[…]
“…”
“…”
“Quindi… ne sei certa, non è così?”
“Diciamo che i dubbi sono veramente pochi, mettiamola così.”
“E… quando lo avresti scoperto?”
“Beh, non ho ciclo, ho nausee e cazzate varie, uno fa due più due.”
“Quindi non sei andata da un medico per chiedere…”
“Non ho voluto rischiare. Non serve che ti spieghi, no? Quello che arriva ai medici arriva a loro.”
“Già…”
“…”
“E adesso?”
“E adesso… adesso tiriamo avanti. In fondo il Sistema voleva che facessimo proprio questo, no? Procreare, e ci siamo riusciti. Se lo vengono a sapere…”
“Quanto tempo pensi che ci voglia?”
“Mah, tre, quattro mesi circa immagino. Il tempo che la cosa diventi lampante e che non possa più giustificarlo con un leggero sovrappeso.”
“E poi…”
“Poi sarò automaticamente esclusa dalle camere di replicazione fino al tempo necessario per partorire e per svezzare il bambino… almeno sei mesi, immagino.”
“Sei mesi…”
“Si, sei mesi almeno, se siamo fortunati.”
“…”
“…”
“Sto per diventare padre…”
“Per quel che vale, lo sai come funziona qui. Non vedrai mai tuo figlio… tecnicamente non dovresti nemmeno sapere di averne uno.”
“Lo so, ma la nostra situazione è diversa, no?”
“Non illuderti, tutto è diverso, ma nulla cambia qui. Non mettere false speranze, quel modello di famiglia è morta tanti anni fa. Non puoi nemmeno starmi vicino in questi momenti, a stento ci vediamo 4 volte al mese per qualche ora.”
“Lo so… però è strano. Conosco il volto della madre di mio figlio… conosco la sua voce, il suo sorriso. E’ strano… sembra di sentire la stessa tensione che ha sentito mio padre o il padre di mio padre. Mi sembra che si sia tornati alla normalità… per quel che può essere considerato normale…”
“…”
“E così, altri quattro mesi. Poi non ci vedremo più per un po’.”
“Ma sono ancora quattro mesi, no? Godiamoceli almeno. E poi abbiamo le lettere, no?”
“…Non so se resisterò.”
“Lo capisco, ma non abbiamo alternative purtroppo. Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima…”
[…]
Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima.
Sono passati quattro mesi da quando Adrienne mi ha detto quelle stesse parole. E questo è il primo mese in cui non ci vedremo.
Pensavo che non avrei avuto molta voglia di uscire, che sarei stato un po’ scostante, un po’ chiuso in me stesso, in definitiva triste, ora che l’unico modo che avevamo per parlarci erano delle parole su di un pezzo di carta.
Mi sbagliavo. Va molto peggio.
Ogni secondo che non passo a spaccarmi le mani per un tozzo di pane lo passo li, chiuso nella cella, con la sola compagnia di quel libro e delle innumerevoli lettere che quasi sommergono quel posto. Le avrò lette ognuna una dozzina di volte. E ogni giorno ne arrivano di nuove. Ed ogni giorno ne scrivo una, due, dieci, chiuso in un flusso di parole dal quale non voglio uscire per avere l’illusione di vivere un rapporto vero, di poter sentire la sua voce mentre dice le parole che mi scrive ogni giorno. Un’illusione di un rapporto vicino, che in realtà è separato da mura di ferro.
Mi manda ogni giorno notizie, ha fatto persino la prima ecografia. Ecografia di cui non ho chiesto il risultato. E’ vero, tecnicamente l’idea del sesso del bambino non dovrebbe cambiare nulla.
Già, non dovrebbe. Ma anche la sola idea di non sapere se è un maschio o una femmina rende il pensiero ancora informe, immateriale, distante da me. Riesco ad evitare di renderlo realtà. Se sapessi che è maschio, cosa mi fermerebbe dal vedere nella mia testa l’uomo che ne uscirà, così simile a me, ma con gli stessi occhi ipnotici della madre? Cosa eviterebbe di immaginarmi una Adrienne più giovane, con i miei stessi capelli che le incorniciano il viso, se sapessi che è femmina? Cosa eviterebbe di immaginarli piombati in questo inferno anche loro, innocenti, schiavi di un regime che li allontana dalla madre e da loro stessi?
Risuonano ancora le sue parole nella mia testa.
Finchè il regime rimane le cose non saranno mai come prima.
Vorrei urlare, alzarmi, unirmi a loro, trovare la forza di combattere, di liberarmi, di liberarci.
Ma la forza è l’unica cosa che mi permette di andare avanti ora. A tempo debito, quando quel calvario sarà finito, tornerò a partecipare alla rivolta, a cercare consensi, a cercare aiuto.
Ora… ora devo aiutare me stesso.
[…]
“IL-CANDIDATO-46219-E’-PREGATO-DI-RECARSI.. “
“Si si si, alla stanza 203, la so la solfa.”
Interrompo la voce robotica e mi fiondo come una furia all’interno del corridoio, col cuore che batte all’impazzata. Ho aspettato tanto questo momento, sei mesi lunghissimi che sono sembrati quasi anni, a vivere come un topo di biblioteca con le lettere come compagne di vita e il libro come cuscino. Le immagini della persona che mi aspetta diventano più vivide ad ogni passo, e questo non fa altro che rendermi più impaziente.
Senza che me ne renda conto, non sto più camminando. Corro, nell’oscurità, inciampando un paio di volte in quel cazzo di terreno a cui non fanno MAI la manutenzione. Mi sembra quasi di vedermi, la prima volta che camminavo nella penombra, cercando la camera 203. Eccola li, un paio di stanze ancora, sulla destra. Eccola, Eccola, ECCOLA.
Sbatto i pugni sulla porta, come per metterle fretta, e finalmente si spalanca. Faccio qualche passo dentro, vedendo una figura muoversi nell’ombra. Sento l’elettricità nell’aria, palpabile.
Un  istante e le luci si accendono. Un istante e gli occhi si abituano. Un istante e la vedo li, come la prima volta, appoggiata al muro. I capelli le sono cresciuti, arrivando quasi alla spalla, ma gli occhi, gli occhi sono quelli.
“Adrienne…”
“Ehi-“
Mi muovo veloce, poggiandole le dita sulla bocca.
“Parliamo dopo.”
La bacio, la tocco, la rendo ancora mia.
[…]
“…”
“…”
“Beh…”
“Si?”
“E’ che…non so cosa dire. Cioè, so cosa dire, Dio santo è passato così tanto tempo, per forza so cosa dire. Ma non riesco ad iniziare. Sono successe così tante cose…”
“Come sta?”
“Chi?”
“Lei. O lui, questo non lo so ancora.”
“Benissimo, dovresti vedere, è adorabile.”
“Come si chiama?”
“L’ho chiamato Steve, anche se non so se gli rimarrà quel nome. Sai come funz..”
“Steve… un maschio…”
“Si. Ti assomiglia molto, sai? Ha i lineamenti spiccicati ai tuoi. E gli stessi occhi, se è per questo.”
“Beh, non so quanto gli convenga…”
“Ma smettila, cretin… ehi, smettila di farmi il solletico.”
“Ma quale solletico, ti sto solo sfiorando.”
“Si ma mi fai il solletico.”
“Mo te lo do io il solletico.”
“Cosa? No, ti prego, AIUTO.”
“Ma sentila come urla. Stavi dicendo?”
“Oh, niente, dicevo…ah ecco, lì va meglio…dicevo che è bellissimo. Non sai quanto vorrei che lo vedessi…”
“A questo ci pensiamo dopo.”
“Che vuoi dire?”
“Lo hai detto tu, no? Lì va meglio.”
“Ma non sai pensare ad altro?”
“Se vuoi farti prendere sul serio, almeno non sorridere.”
“Touché.”
“E ora silenzio, fammi lavorare.”
“…ai suoi…ordini.”
[…]
“Come stiamo messi?”
“Lo vedrai quando arriviamo, fidati di me.”
Cammino fianco a fianco col colonnello, percorrendo il corridoio ad ampie falcate, nella penombra. L’intero complesso sembra particolarmente animato, stanotte. C’è nell’aria un’elettricità che non ricordo di aver mai sentito prima, e mi sembra di percepire come un brusio di sottofondo, come tanti passi in lontananza, tutti diretti nella stessa direzione.  La stessa in cui andiamo noi.
Camminando faccio per superare una porta, continuando per il corridoio, ma la mano del colonnello mi inchioda sul posto. Il volto barbuto si apre in un sorriso.
“Siamo arrivati, giovane.”
Lo guardo stranito. All’apertura delle porte, invece, divento incredulo.
In passato avevo partecipato ad alcuni comizi, e da poco mi ci stavo riavvicinando. Ma in genere si tenevano in un piccolo spiazzale, magari una vecchia medicheria, a volte addirittura la dispensa. Posti piccoli insomma. La mensa, invece, è enorme, strutturata per ospitare tutti gli ospiti del complesso. Ed è quasi piena.
Riconosco qualche volto, gente con cui lavoro di solito, perfino lo Smilzo era presente.
“Diciamo che mentre stavi appresso ai problemi di cuore noi ci siamo estesi.”
Ride, il colonnello, e io rido con lui. Mai avrei pensato che le operazioni fossero arrivate fino a questo punto.
I consensi erano aumentati per davvero, o per lo meno lo erano gli interessati. Per la prima volta nella mia vita l’idea di poter fuggire da quel posto, di poterci riappropriare delle nostre vite, non mi sembrava più un’utopia.
"Non correre, però. C’è ancora molto lavoro da fare.”
La frase mi colpisce come un pugno allo stomaco, mentre mi giro a guardarlo interrogativo. Il volto del vecchio si fa triste, affaticato.
“E’ vero, le quotazioni sono aumentate, se possiamo dire così. La gente inizia a sentir parlare seriamente di noi, non siamo più sconosciuti, ma comunque la maggior parte delle persone presenti sono semplici curiosi o poco più. E tra i volontari, in ogni caso, le persone pronte all’azione sono insufficienti per avere dei risultati. Stiamo aumentando il ‘giro’, e le persone che si sono unite ultimamente stanno imparando in fretta,  ma ci vorrà ancora del tempo.”
Faccio qualche passo, stranito. Il colonnello rimane a fissarmi.
“Mi dispiace, ragazzo, so che…”
“QUANTO tempo, precisamente?”
Il vecchio rimane interdetto, preso dall’improvvisa domanda. Lo vedo riflettere un po’, come a fare dei conti.
“Un paio d’anni, qualche mese in meno se ci diamo da fare.”
“Troppo. Dobbiamo essere più veloci, dobbiamo cercare di dimezzare almeno il tempo.”
“…ragazzo, lo so che cosa ti passa per…”
“NO, COLONNELLO, LEI NON SA. Immagina, gliene do atto, ma non sa.”
Rimane in silenzio, con un’aria preoccupata. Mi appoggio al muro, sentendo la frustrazione assalirmi.
“Non sono come tutti gli altri che stanno qui, a perdere il tempo, no, non lo sono più. Lei può capirmi, colonnello, lei non è figlio di questo mondo. Lei SA come dovrebbero essere le cose, le ha vissute. Io… io sono diventato padre. Ho un figlio, colonnello, non è una supposizione. Un maschio, di un paio di mesi. Lei sa cosa succede ai bambini, colonnello, lo sa bene. Ho poco tempo. Poco tempo, per Dio. Quando avrà raggiunto l’anno e mezzo di vita, quando potrà essere più gestibile, quando non potrà più essere considerato un neonato… ce lo strapperanno via, colonnello. Il piccolo Steve… e non so nemmeno come è fatto.”
Crollo sulle ginocchia, rimanendo aderente al muro, il volto nelle mani, l’iperventilazione in arrivo.
“Mi deve aiutare, colonnello, lei sa cosa significa. Non posso lasciare che la mia famiglia finisca nelle loro mani. Non posso, Dio, non posso…”
“…Farò il possibile, figliolo…farò il possibile…”
[…]
Vengo accecato dalla luce del sole come un detenuto dopo mesi di isolamento.
Ed effettivamente, pensandoci, non si è così lontani dalla realtà. L’aria fittizia, coi suoi aromi pseudo naturali, riempie i miei polmoni, lasciandomi quella sensazione di freschezza. Non so se è questa combinazione di sensazione, o quello che sto, stiamo per fare, ma mi sento vivo.
Guardo intorno, cercando di distinguere le varie facce che mi circondano, cercando quel paio di occhi.
Mi avvicino a piccoli passi, gli occhi fissi su una figura seduta all’ombra di un albero.
Non cerco di nascondere il rumore, non ne ho bisogno. Qualche secondo e lei mi guarda. Gli occhi si spalancano per un istante, per poi distogliersi dai miei.
Mi appoggio all’albero, vicini quel che basta per sentirci parlare.
“Ciao.”
“Si può sapere che fine avevi fatto?!”
“Ho avuto un po’ da fare.”
“Sono due mesi che ti invio lettere senza avere risposte. Di un po’, hai idea di che cosa mi è passato per la testa? Sono due mesi, porca puttana. Pensavo ti avessero scoperto, o chissà che altro-“
“Lo sai che se mi avessero scoperto sarebbero arrivati anche a t-“
“-e poi, dal nulla, una lettera, ieri, per dire di vederci qui, all’ombra di sto cazzo di albero, e non so nemmeno per quanto. Secondo te è così facile per me muovermi ora che ho Steve? Ho dovuto lasciarlo ad una delle mie vicine, così, all’improvviso. Tutto perché…non lo so perché, e ora, ORA mi devi spiegazioni.”
“Non guardarmi così, lo so, non mi sono fatto sentire per un po’, ma credimi, è l’ultima volta.”
“Ti aspetti che ti creda?”
“Devi farlo, perché è quasi finita. Ce la stiamo facendo, Adrienne, manca poco, veramente poco-“
“Poco per cosa?”
“Perché io, te, il piccolo Steve finalmente diventiamo una famiglia. Tra due giorni c’è la nostra occasione. Non so i dettagli, il colonnello non mi riferisce molto. Per proteggermi, dice. Ma il regime cadrà. E’ certo. Tra due giorni io e te ce ne andiamo, ci liberiamo. Ti porto nel nostro complesso, lontano dai guai, lontano dai disordini, dove tutto quello che dobbiamo fare è aspettare.”
“…Non ci credo…”
“Devi, piccola mia, finalmente sta per finire l’agonia-”
DON. DON. DON. DON.
“…dobbiamo andare.”
“Dopodomani, all’incrocio che ti ho scritto sulla lettera. Vieni li, dove i complessi confin-“
“Si, si, ho capito. Ehi…”
“Cosa?”
“Ti ho portato un regalo. Ora devo andare.Dopodomani allora.”
“…si…dopodomani, senz’altro.”
Stringo in mano una busta, mentre la vedo allontanarsi, perdendosi tra la folla.
[…]
Manca poco ormai.
Sto li da poco più di un quarto d’ora, ma mi sembrano passate ore. O secondi. Scorro la mano sulla parete di quell’apparente vicolo cieco, sentendo sotto le mie mani, ben nascoste, i segni del lavoro degli uomini del colonnello. Fessure quasi microscopiche, che delineano una grezza porta, dietro al quale sta per arrivare lei. E lui.
Pochi minuti, e non dovrò più aspettare, pochi minuti e non ci sarà più nessuna stanza 203, nessun candidato 46219, niente di tutto questo. Solo un uomo e una donna. E il loro bambino.
Stringo nelle  mani ancora quella busta, tirandone per l’ennesima volta fuori il contenuto. Mi perdo a guardare ancora quelle foto, quel viso così giovane, con pochi dentini, incorniciato da quei ciuffi biondi. Un innocente lello che sorride, forse senza rendersi nemmeno conto per davvero di cosa sta vivendo. E’ strano guardarlo e sapere che tra poco lo potrò stringere tra le mie braccia, fuggendo da questo inferno di lamiere.
Dei passi? Mi è sembrato di sentire come un fruscio. Mi guardo attorno, cercando di notare anche il minimo movimento. No, non c’è nessuno. Forse…
Spalanco la porta, spingendola forte, e affacciandomi su un’immagine speculare dello stesso corridoio. Ma non c’è nessuno. Nessuno… aspetta…
Vedo finalmente qualcuno girare l’angolo. Una donna, bellissima, imbacuccata in teli scuri che fanno vedere solo gli occhi del suo volto, e quelli mi bastano. La vedo portare in braccio un piccolo fagotto, che immagino essere lui. Il volto mi si illumina di gioia, e vedo anche il suo sguardo brillare.
Faccio per aprire bocca, chiamarli, ma l’orrore si impadronisce di me, quando vedo un’ombra nera apparire dietro di lei dall’oscurità. Poche scintille, e la vedo cadere a terra.
“No…No. NO. ADRIENNE! STEV-“
Poche scintille, e cado a terra anche io.
[…]
“Ma…cosa…cosa diavolo sta succedendo. EHI, RISPOND-“
“ORA le domande le facciamo noi.”
La voce mi zittisce con fermezza. Le luci improvvisamente si accendono. Abbasso la testa, accecato, cercando di abituarmi in fretta. Mi guardo, trovandomi legato ad una sedia. Legato bene, aggiungerei, visto che non riesco a muovere nemmeno un muscolo. Alzo lo sguardo lentamente, e vedo un uomo, con un vestito bianco elegante,  dietro ad una scrivania, frapposta fra noi, che mi fissa, lo sguardo coperto da un paio d’occhiali da vista. Ci metto qualche secondo a riconoscerlo. Di tutta risposta sputo sulla scrivania.
“Non la passerai liscia, maledetto bastardo. I tuoi giorni lassù stanno per finire e-“
Vengo fermato da un suo gesto, e vedo con orrore una testa mozzata rotolare. Quasi mi sembra di poter sentire la sua risata bonaria, mentre vedo il volto del colonnello deturpato dal terrore.
“Immagino che le tue speranze fossero tutte chiuse dietro questo omuncolo qui. Il capo della ribellione, uno degli intermediari tra noi e voi. Una buona pedina, senza dubbio, ma spero vivamente che non credeste di avere veramente la situazione tutta sotto controllo.”
Rimango allibito, mentre sento il calore correre via dal mio volto. Tremo, e non so se sia per il terrore o per altro. L’uomo si alza, avvicinandosi a me, a piccoli, piccolissimi passi.
“C’eravate andati vicini, ve ne do atto. Ho visto che stavate preparando qualcosa di grosso. Se ce ne fossimo accorti qualche giorno dopo, forse sareste veramente riusciti a metterci in crisi. Ma ciò non è avvenuto.”
Si siede sulla scrivania, e sento il suo alito su di me. Sorride, ma il volto non esprime nessuna emozione.
“In fondo forse dovrei ringraziarti. Sai, non c’è più grande colpo al coraggio di un popolo del vedere una grande speranza, che sembrava potesse diventare realtà, cadere miseramente su se stessa in piccoli, insulsi pezzi. Sapevamo da tempo che prima o poi avreste cercato di ribellarvi, era solo una questione di tempo. Ora, di tempo ce ne sarà ancora di più…”
Si ferma per qualche secondo, fissandomi senza un battito di ciglia. Quindi scoppia a ridere.
“Stai tranquillo, ragazzo caro, non ti ucciderò. Non offrirò al popolo un martire. No, tu e il tuo insulso tentativo di rovesciare tutto, tu e la tua ribellione, tu e il tuo tentativo di provare persino amore, tu e il tuo fallimento rimarrete d’esempio. Sei l’uomo attorno al quale è girato tutto questo disordine, tutta questa speranza fittizia. E tornerai come un rudere a strisciare, sotto il mio regime. In fondo sei giovane, un ottimo lavoratore, nonché un ottimo modello genetico, a giudicare da tuo figlio. Mi sarai più utile da distrutto che da morto.”
Non so a quel punto come reagire. Sento come un caos di emozioni, tra lo sconforto di quello che era come un padre per me, al sollievo nel sapere che sono salvo, alla vergogna per il fatto stesso di sentirmi sollevato, quando in molti sono morti per il mio egoismo. Per me e per…un attimo.
“Aspetta un secondo. E Adrienne?”
“Adrienne? Ah, forse intendi quella lavoratrice che abbiamo catturato insieme a te. Oh, lei non ha avuto lo stesso privilegio. Non c’era nessuna utilità nel mantenerla in vita. Aveva superato i trentacinque anni, anche se avessi voluto utilizzarla ancora nelle camere di replicazione avremmo rischiato dei bambini deformati, o chissà che altro. Oltretutto sapeva troppo, ed è meglio lasciare il compartimento femminile nell’ignoranza, d’altronde è quello che meno ci sta dando problemi. L’ho fatta giustiziare sul posto, non ci serviva più.”
Silenzio. Disperazione. Battiti che si fermano. Poi il buio…

“Fratello?”
Una voce mi fa sussultare dallo stato di trance in cui ero entrato. Mi guardo attorno, vedendo gli sguardi fissi su di me. Rimango stranito, chiedendomi cosa ci sia da guardare, perché diavolo mi osservino.
“Fratello… tu non sei più lo stesso da troppo ormai.”
Vedo il capo del comizio scendere dal tavolo, avvicinandosi a me.
“Lo sappiamo tutti che la morte del colonnello ha colpito più te di chiunque altro. Era un grande uomo, e un caro amico, e tu eri come un figlio per lui. Quella notte… si, non serve che ti racconti gli orrori che ho visto quella notte, quando ci fu l’imboscata che ci ha tagliato le gambe. Ma guardati attorno, le forze sono tornate, siamo di nuovo qui. Lui… lui vorrebbe certamente che tu andassi avanti. Fratello-“
“Fratello? FRATELLO?!”
Esplodo, di un’ira che non sentivo animarmi da troppo.
“Come osi chiamarmi così? Chi sei mai stato tu per me, eh? Non so nemmeno come ti chiami, per Dio. E mi chiami fratello, pretendi di capire che cosa ho passato, che cosa ancora passo, cosa mi ferma magari, eh? TU NON SAI NIENTE.”
Mi alzo di scatto, muovendomi ad ampi gesti, fuori di me.
“Guardati attorno, guardati veramente attorno. Credi veramente di essere anche solo lontanamente vicino a raggiungere VERAMENTE le forze necessarie per rovesciare questo governo del cazzo? Sei un illuso. Ecco i tuoi cari fratelli. Spaventati. Curiosi. Nullafacenti. Gente che si trova qui quasi per caso. Gente che non sa cosa aspettarsi, che non è unita, che non ha nessun collante. Vuoi sapere cosa succederà? Succederà che alla prima testa mozzata tutti quanti fuggiranno nelle loro celle, nascondendosi alla vista, e pregando vivamente che non sia anche il loro turno. E’ questo l’esercito che tieni per mano. Un esercito di egoisti, ignoranti e impreparati omuncoli che non tarderà a voltarti le spalle quando le cose si faranno serie.”
“Adesso stai esagerando, frat-“
“Ancora FRATELLO? Ideali come la fratellanza, la famiglia, la fiducia nel prossimo sono finiti, caro mio, FINITI. Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Ci sono attorno a me almeno dieci coetanei, bastardi senza natali che potrebbero tranquillamente venire dalla stessa madre o addirittura dallo stesso padre senza che nessuno di loro abbia qualsiasi mezzo per poterne avere la certezza. Come pretendi di fare una rivoluzione, quando non c’è unità, non c’è discendenza, non c’è NIENTE. Chi di noi ha guardato nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre uno sconosciuto e un solitario?”
Tutti tacciono, impietriti. La verità li colpisce al volto come pietra, ed eccolo li, il popolino, che si guarda attorno con dubbio e diffidenza, cercando risposte a domande che non sanno a chi porre.
Sospiro, calmandomi. So bene che non serve a niente, so bene che sto solo perdendo tempo.
“Cosa vorresti da me? Che ti dia una mano? Che guidi con te questa gente? Mi dispiace, non posso farlo. Non a queste condizioni, non con questi rischi. E’ una strada che ho già percorso, una strada di cui ho visto la fine, e mi ha reso quello che sono. Un fantasma. No… non contare su di me, ‘fratello’.”
Esco velocemente dalla mensa, contornato da silenzio e sguardi spenti. Mi sembra di risentire nella mia testa tutte le parole che si sono abbattute come macigni su quei poveri idioti che hanno fatto l’unico errore di cercare una speranza in un mondo che non farà altro che distruggerli. Come hanno distrutto me.
Corro, corro senza rendermene conto. La mente vaga, facendomi rivedere tutto. Rivedo i sorrisi. Rivedo i pianti. Le nocche fratturate su un muro di lamiera. La carta bruciata. Il coraggio che viene a mancare ad un passo dal farla finita. Rivedo tutto, tutto quello che mi ha reso quello che sono ora. E i piedi corrono, corrono, come se fossero animati per conto loro, e mi ritrovo di nuovo li, di fronte all’Area Verde di quel giorno di più di venti anni fa, più morto che vivo, sotto il peso di ricordi che rendono ancora più invivibile il presente.
E alla fine decido.
Stringo forte i pugni, sentendo lacrime di ira scendere sulle guance. Ogni passo è pesante, come se ai piedi avessi pilastri di cemento. Ogni respiro è affannoso, come se non ci fosse abbastanza aria intorno. E comunque, con estrema, quasi paradossale facilità, la porta cede sotto i miei calci.
Mi appoggio di nuovo con la schiena sotto quell’albero, e sento ancora la busta con le foto di Steve nella mia mano, e la rivedo allontanarsi, per l’ultima volta.
Sorrido amaro, facendomi forza. Per quanti anni siano passati, il mio tempo è finito lì, e ormai non mi rimane che aspettare
Già, il mio tempo è finito, ma loro, quegli stolti che stanno li a farsi riempire la testa di slogan alla ricerca di un sogno, loro, nella loro ignoranza, sono ancora vivi. E darò loro qualcosa di vero, qualcosa che li unisca davvero. Il mio regalo d’addio, a loro… e a tutto il resto.
E’ col sorriso sulle labbra che accolgo i pesanti passi della milizia. In un istante, tutte le luci sono puntate sul mio volto, mentre mezza dozzina di uomini armati puntano verso di me.
“Alza le mani, bastardo! Lo sai che non si può entrare qui, specialmente durante il coprifuoco. La nostra pazienza è finita!”
Urla , quello che sembra il capo della combriccola. Mi riconosce, ma io non riconosco lui. E sinceramente, poco importa. Ho ottenuto quello che volevo. Sento altre migliaia di passi e qualche volto che si affaccia, curioso, per capire quello che sta succedendo. Tutti volti che pochi minuti prima stavano rintanati nella mensa.
“ALZA LE MANI HO DETTO!”
Fingo di fare quel che mi viene detto, per poi infilare una mano di scatto nella casacca. Un movimento brusco, e una tempesta di scintille si libera dai fucili, lasciandomi a terra, sanguinante, agonizzante.
Sento urla, grida, i miliziani parlare animatamente tra di loro.
“NON HO DATO ORDINE DI SPARARE, CRETINI!”
“Ma signore, si era mosso di scatto, temevamo…”
Non sento più nulla, ma alla fine poco importa. Per quel che vale, alla fine ho vinto io. Perché la voce girerà. Girerà, dicendo dell’uomo che è morto solamente per aver tirato fuori dalla propria casacca un semplice libro. Girerà, e si ricorderanno improvvisamente di tutto quello che stanno subendo da troppo tempo. Girerà, e sarà la scintilla, la goccia che farà finalmente traboccare il vaso, perché tutti i grandi cambiamenti richiedono dei martiri. Un innocente, un poveraccio, un perduto, e dal vento compianto, fantasma.



ANGELO, GUARDA  IL PASSATO
...un sasso, una foglia, una porta introvata; di una foglia,
un sasso, una porta. E di tutti i volti dimenticati.

Nudi e soli siamo venuti all'esilio. Nel buio del suo ventre,
non conoscevamo il volto di nostra madre; dalla prigione
della sua carne siamo venuti nell'indescrivibile
e incomunicabile prigione di questa terra.
Chi di noi ha conosciuto suo fratello? Chi di noi ha guardato
nel cuore di suo padre? Chi di noi non è rimasto per sempre
tarpato dalla prigione? Chi di noi non è per sempre
uno sconosciuto e un solitario?

O perduto, e del vento compianto, fantasma, torna.

3 commenti:

vorgh ha detto...

Come concetto e idea non mi è dispiaciuto, anche se è stato inflazionata (vedi 1984 e Brave New World). L'ho trovato un po' troppo lungo nello sviluppo della storia, con troppi pochi avvenimenti, il che rallenta un po' la lettura. Il finale mi è piaciuto, l'ho trovato abbastanza spontaneo e senza paura di non essere originale.

Bob ha detto...

ho da dire davvero poche parole:
davvero bello. credo sia il tuo migliore fino ad ora.
tanto di cappello.

Arhal ha detto...

Vabbè, sarà che sono donna e quindi emotiva, ma ho pianto tutte le mie lacrime.
Soprattutto sul finale dove dice che muore per aver tirato fuori un libro.
E' vero, l'argomento è inflazionato, ma è fatto bene, cazzo, è fatto bene! Fossi in te ci farei un sequel!
Perché Steve è ancora vivo *__* E sarà lui a capeggiare la rivolta yeeee!