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martedì 5 marzo 2013

Parole, Parole


Quella sera Anna era sola in casa, sola con il suo presentimento. L’orologio indicava l’una e qualche minuto di notte, e Lupo era ancora fuori. Aveva provato a prendere sonno, ma i suoi sensi erano più acuti del normale. Riusciva a percepire troppo chiaramente il bagliore della luna piena che penetrava dalle fessure delle persiane e il frinire dei grilli nel bosco intorno alla casa. Era seduta in salotto, illuminata solo da un piccolo abat-jour, e suonava distrattamente il violino. Un pezzo elementare, che potesse suonare senza farci caso, e pensare a Lupo, padre adottivo, amante, fratello maggiore, carnefice. In quel momento sentì una brusca frenata e pochi secondi dopo lui era all’interno della stanza, l’aria trafelata. Si parò davanti a lei e le intimò di ascoltarlo, calcando le mani nelle tasche.
Lupo aveva tante cose da dirle e poco tempo per farlo. E in quel momento, guardandola, diventava tutto più difficile. La guardava ed era come la prima volta, in lei vedeva una bambina spaventata che aveva perso tutto, ma che aveva tutto da guadagnare. Cercò di raccontarle la storia dall’inizio ma le parole si attorcigliavano prima di uscirgli dalla bocca, e in quel momento non poteva neanche esprimersi come faceva di solito, gesticolando in modo molto ampio e teatrale. Anna capì che c’era qualcosa di strano e lo forzò a tirare fuori dalle tasche le mani, coperte di sangue e con le nocche spellate.
“Lupo… cosa hai fatto? Perché l’hai fatto? Come fai a non provare rimorso? Guardami, voglio capire cosa sei diventato, ora chi sei… anzi, che cosa sei.”
“Questo non è importante. Non lo sarà più, a breve…”
“Dici sempre così.”
“Stavolta è diverso.”
“Dici sempre anche questo.”
“Lo è davvero. Ho deciso di provarci, per te. Sei l’unica cosa bella della mia vita, l’unica che valga la pena proteggere e preservare, e le cose cambieranno. Ci sono riuscito. E l’ho fatto per te, perché vali più della vita che facevo. Sei cominciata ma non sei finita, a differenza di quella vita. Sono cambiato.”
“Non è vero. Non cambi mai.”
“Stavolta sì. E l’ho fatto solo per te, sei stata il mio ieri, sei il mio oggi, e sarai il mio sempre, anche se non potrai essere il mio domani.”
“Ti rendi conto che sono le solite promesse di ogni volta? Basta caramelle, Lupo. Non le voglio più.”

Quattordici anni prima, quando si erano conosciuti, Lupo aveva convinto Anna a venire allo scoperto promettendole caramelle che non aveva. Era una notte d’estate serena come quella, e lui stava svolgendo il suo lavoro. Aveva scassinato la porta di una villa e si era introdotto fino al piano superiore. Conosceva le planimetrie della casa, le aveva studiate così come le abitudini dei suoi abitanti: un uomo, una donna, un bambino. Lupo non chiedeva mai il sesso dei bambini, quando si trattava di lavoro. Ciò che gli interessava era poter sapere quanta resistenza avrebbero potuto opporre le sue vittime, e che minaccia potessero rappresentare qualora avessero deciso di farlo. Nel caso dei bambini il sesso non era importante, e lui preferiva saperne il meno possibile. Era uno dei pochi sulla piazza che non si faceva scrupoli a farlo, ma questo non significava che non lo mettesse a disagio. In silenzio entrò nella stanza da letto e puntò la sua pistola con silenziatore ai due corpi che dormivano lì, coperti da un leggero lenzuolo. In un attimo, sulle lenzuola candide iniziarono ad apparire piccole macchie scure, Lupo chiuse la porta alle sue spalle ed entrò nella stanza del bambino. Sparò alla sagoma che intravedeva sotto le lenzuola, ma non ci fu nessuna macchia. Il solito trucco usato dai bambini e dai carcerati dei film, un cuscino sotto le lenzuola. Una finestra che da quella stanza dava sul tetto era socchiusa, Lupo si avvicinò tendendo le orecchie. La voce di una bambina che canticchiava una filastrocca proveniva da fuori. Se le avesse sparato il cadavere sarebbe rimasto sul tetto o caduto giù, e questo avrebbe creato troppi inconvenienti. Controllò il suo blocco note cercando i dati che aveva deliberatamente ignorato, come il nome della bambina. La chiamò dolcemente, promettendole delle caramelle. Anna entrò gli chiese chi fosse. Lui si presentò come un amico e la convinse a seguirlo. Lei non si fece problemi a seguirlo e abbandonare i propri genitori, probabilmente perché le persone che finiscono sulla lista di un killer spesso non sono cittadini esemplari. Arrivati a casa di Lupo, Anna lo guardò e gli chiese dove fossero le caramelle, le lacrime agli occhi. Per non farla piangere, lui le promise un peluche il giorno successivo. Quando glielo portò, lei sorrise, rispondendo che il peluche era un pagamento per l’attesa, e le doveva le caramelle in ogni caso. Quattordici anni dopo, Anna non aveva mai ricevuto quelle caramelle. Lui non gliele aveva mai portate, per tenerla vicino a sé, per avere una ragione di farsi perdonare, per avere una scusa per farle regali. Spesso erano rose, per i suoi diciotto anni le aveva regalato un violino, che lei aveva imparato a suonare con grande maestria. Lei era cresciuta, aveva scoperto da sola che Lupo era l’assassino dei suoi genitori, che era un assassino di professione e che i suoi genitori erano “persone cattive”, aveva iniziato a sedurlo quando il suo corpo e suoi ormoni avevano deciso che era il momento, ed era rimasta sconvolta dalla dolcezza con qui quell’assassino spietato sapesse fare l’amore. All’inizio lui si era rifiutato, ma lei gli aveva ricordato che le doveva ancora delle caramelle. E ora, in quel momento, in quella stanza, lei aveva sciolto il debito che li legava. Ma quella volta non sapeva che lui aveva davvero soddisfatto la sua richiesta.
“Lupo” gli aveva chiesto qualche tempo prima “Smettila con questa vita. I soldi li abbiamo, io voglio solo fare una vita normale.”
Lui aveva pensato tante volte a chiudere con quella vita, ma si era reso conto che non avrebbe saputo adattarsi ad un altro lavoro, ad un altro modo di fare le cose, anche perché sapeva che smettendo si sarebbe trovato faccia a faccia con la sua coscienza. Ma Anna, lei meritava una vita migliore, e c’era un solo modo per darle la possibilità che meritava. L’unica possibilità che l’avrebbe salvata dall’essere considerata complice.

“Anna, ascoltami, ti prego. Ascolta le mie parole.”
“Parole, parole, sei solo questo. Parole, soltanto parole.
“Mi sa che era scritto nel mio destino. Parlarti come la prima volta, parlare come ad una bambina alla quale non puoi dire le cose come stanno.”
“Non darmi della bambina!”
“Per me un po’ lo sarai sempre, Anna. Ho quarantacinque anni e tu ventuno, potresti essere mia figlia. Ti ho vista crescere, è normale che io mi preoccupi per il tuo futuro. Ti prometto che si metterà tutto a posto.”
“Mi hai detto la stessa cosa quando mi portasti via da casa mia, quando ti chiesi se avrei continuato ad andare a scuola, se avrei mai avuto una vita normale. E non è successo.”
“Non ancora. Ma stasera cambierà tutto.” Lupo tese le orecchie e la abbracciò. “Non dire nulla, c’è la notte che parla.”
E in quel momento Anna sentì i rumori delle sirene, dei freni delle automobili, della polizia che intimava di uscire allo scoperto.
“Sapevo che mi avrebbero preso, prima o poi. Non dire che mi conosci, non dire che mi ami, dì loro che ti ho rapita e tenuta in ostaggio per tutti questi anni. È la vita normale che meriti.”
E la colpì violentemente con un pugno in faccia, facendole sanguinare uno zigomo. La raccolse di forza e la pose tra sé e la porta, con un coltello alla gola, mentre la polizia buttava la porta a terra, mentre le infilava un piccolo oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni con l’altra mano.

“Abbiamo prove schiaccianti contro di te, non peggiorare la situazione. Lasciala andare.”
Lo so bene, pensò Lupo, le ho lasciate di proposito.
E sussurrò all’orecchio di Anna che le cose si sarebbero messe a posto.
“Non ti credo” rispose lei tra le lacrime. “non posso stare bene senza di te, anche queste sono solo parole.”
Ma lui la lasciò andare e gettò il coltello, consegnandosi nelle mani della polizia. Un agente si avvicinò ad Anna, esortandola a seguirli per dichiarazioni, testimonianze e cose del genere alle quali non prestò attenzione.

Mentre entrava nell’automobile, estrasse dalla tasca dei pantaloni un foglio di carta ripiegato su se stesso con un oggetto all’interno. Sul foglio di carta c’era il nome di una banca e un numero di conto, e all’interno c’era una caramella.




5 commenti:

Arhal ha detto...

Molto bello Bob, come sempre! Hai adattato una canzone che ormai si può considerare banale e trash a una situazione molto veloce e in mutamento!
Mi aggrada =3

vorgh ha detto...

Bello! Mi piace l'elemento "nero" in contrasto con il testo della canzone, che tra l'altro ha dei versi bellissimi che scorrono in maniera favolosa nel tuo racconto. Questo rapporto morboso tra il killer e la vittima. Bravo, mi sei piaciuto! Forse l'avrei dettagliato giusto un po' di più.

Il Losco ha detto...

Il solito elemento nero made in Bob :D.
Pochi fronzoli, tanta sostanza, un che di dolce in profondità che sempre sembra far contrasto col tuo modo di scrivere.
Sibbel!

Unknown ha detto...

Il tuo miglior racconto a mio parere.
Stupendo davvero, ho le lacrime agli occhi.
E'... straziante. Dolcemente straziante.

Bob ha detto...

grazie :) se ti interessa leggere qualche altro racconto questo è il mio blog personale gangrenousthoughts.blogspot.hu