Citazioni


venerdì 7 giugno 2013

Il silenzio dell'anima - Capitolo III : Anelito


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No. Mai. Non aprirò questa porta. Silenzio, attesa, il cuore in gola e i muscoli in fiamme, mi alzo in piedi e cerco di parlare con voce forte, decisa, non rotta dalla paura.
-Chi sei?
La mia voce mi sembra quella di un estraneo, non la sentivo da quando ho scoperto di essere solo in casa, è quella di un estraneo che mi parla solo nell’orecchio sinistro. È sempre stata così? Dalla porta non arriva alcun suono. Mi arrampico sui mobili che ho usato per bloccarla e avvicino l’orecchio sinistro alla porta, fino a sentire il legno freddo e liscio contro la guancia. Sento chiaramente una voce che sussurra, ma non riesco a distinguere nessuna parola. Un paio di volte mi sembra di sentire il mio nome, ma probabilmente è solo un’illusione. Mi schiarisco la voce, cercando di apparire sicuro:
-So che sei lì fuori! Cosa vuoi?
Nessuna risposta, solo silenzio e angoscia. Silenzio rotto solo dal mio respiro incerto e dal battito del mio cuore, sempre più insistente, più rumoroso, unica difesa contro il silenzio. Afferro un abat-jour e decido di aprire la porta, se devo morire sbranato da mostri, così sia, almeno li affronterò. Non intendo chiudermi in una prigione sempre più piccola. Non intendo morire di paura, non intendo morire di silenzio. Sicuro di me, inizio a disfare la mia rudimentale barricata. Sposto la prima sedia di pochi centimetri, e bussano ancora. Tremo, e capisco che non ce la posso fare, la paura è troppa, troppo densa, troppo pesante, e quel suono, quella bussata lenta, quattro colpi e nulla di più, mi scuote nel profondo. Ancora: toc, toc, toc, toc, silenzio. Spingo di nuovo la sedia, mi ci appoggio con tutto il mio peso, angosciato, spaventato, frustrato, e mi allontano a grandi passi, gli occhi pieni di lacrime di nervosismo. Cosa ha importanza ora? Dalila, che non posso più contattare? Le porte, che non posso più aprire? L’oggetto in cui inciampo, che al buio non posso più riconoscere? Il sapore del pavimento dove cado, quello è importante. Lecco il pavimento, lo abbraccio, perché almeno lui è lì e mi accoglie sempre, lui non è come le stanze che si allungano o come le porte che si bloccano o come le chiavi che girano da sole. Lui è lì, ha il sapore di pavimento e del mio sangue e di fallimento e di pazzia incombente. Mi rannicchio, non importa in che punto della stanza io sia, e ascolto il mio cuore. Ogni tanto battono ancora sulla porta, non importa più. Mi sto calmando, forse mi sto rassegnando alla prigionia, alla pazzia, al buio e al silenzio, il mio cuore finalmente inizia a rallentare. Bussano alla porta: toc, toc, toc, toc. Bussano ancora novantasette battiti di cuore dopo. E ottantacinque battiti dopo. E settantasette battiti dopo. E sessantaquattro battiti dopo, e poi il mio cuore si stabilizza e loro bussano ogni sessanta battiti. Il ritmo del mio cuore e della porta mi culla, non so se i miei occhi sono aperti o chiusi, lentamente scivolo nel sonno.

Quando apro gli occhi vedo la luce e capisco che è stato solo un sogno. Con le palpebre semichiuse, mi godo lo spiraglio di luce che bagna la mia vista, apro la bocca per far sì che la luce mi disseti, mi stropiccio gli occhi e li apro, e ciò che vedo è l’incontro tra il pavimento e il balcone, la persiana lievemente sollevata, quanto basta per capire che è mattina. Mi alzo e mi guardo intorno, sconvolto dall’incubo, che sembrava reale quanto la vita vera. Come sono arrivato a terra? Il letto è al suo posto, il materasso anche, riconosco nella penombra le sagome della sedia dei mobili dell’abat-jour, tutti al loro posto. Cammino e tocco, sollevato, mi accorgo di avere fame. Tantissima fame. Sorrido con me stesso, la porta è aperta e tutto è al suo posto. Vrr, vrr, vrr. Una luce nel buio. Il mio cellulare vibra tre volte prima dell’inizio della suoneria, e il cellulare è in bella vista sulla cassettiera dove lo lascio ogni sera. Appena lo afferro, smette di squillare. Era Dalila, ho diciotto chiamate perse. Le telefono, ansioso di sentire la sua voce. Uno squillo, due squilli, il suono di qualcuno che solleva la cornetta, il segnale della batteria scarica. Osservo il cellulare, buio come la mia casa, muto come la notte. Bisogna metterlo in carica. Ma prima, decido di alzare la persiana e ridere del mio incubo. Lo sforzo che faccio per cercare invano di alzarla rende più acuto il dolore all’orecchio sordo, al dente scheggiato, alla mano coperta di sangue.

Era tutto reale.
Hanno aperto la porta.
Hanno rimesso tutto a posto.
Sono entrati.
E non mi hanno fatto niente.

Mi abbandono contro il muro e scivolo a terra, forse dovrei smettere di oppormi, di fuggire, di tenerli lontani. Mi hanno dimostrato di poter entrare dove e quando vogliono, ma non mi hanno fatto nulla di male. Sono troppo dolorante per arrabbiarmi, troppo affamato per pensare lucidamente, troppo stanco, troppo in gabbia, senza cellulare, senza elettricità, senza nulla di ciò che componeva la mia vita. Magari, queste cose che vivono con me potrebbero essere la mia salvezza: mi hanno privato della vita monotona e frustrante che tutti finiscono per odiare. Non sono andato al lavoro: mi è forse dispiaciuto? Se non lavoro non potrò pagare le bollette, ma è rilevante ora che non ho più acqua né elettricità? E i rapporti interpersonali, mi dispiace non dovermene più curare? I vecchi amici con le loro insopportabili insistenze e invasioni dei miei spazi, la nonna e il suo Alzheimer che l’ha resa qualcos’altro che ormai è solo lo stesso involucro di carne che conteneva mia nonna, anche Dalila, che nonostante io stesso abiti qui da pochissimo già fa come fosse casa sua e vuole tenere le sue cose qui quando neanche io ci tengo ancora tutte le mie. Mi dispiace davvero abbandonare tutto?

Percorro lentamente lo spazio che mi separa dallo sgabuzzino, avanzando a tentoni e aiutandomi dagli scarsi raggi di luce che penetrano dalle finestre, forse sono fantasmi che vogliono portare anche me in una dimensione in cui non ci sono preoccupazioni. Apro la porta, forse accogliendoli a braccia aperte tutto questo finirà. Nello sgabuzzino è buio pesto e mentre cammino uno due tre passi penso a quanto è facile devastare la mente di un essere umano: bastano porte chiuse e rumori nella notte. Mentre cammino quattro cinque sei passi rifletto sul fatto che nessuno mi ha fatto del male: io ho spaccato il bicchiere perdendo l’uso di un orecchio, io ho corso fino ad urtare la porta, io mi sono arrabbiato e ho preso a pugni la parete. E loro, loro cosa sono? Loro sono solo rumori. Mentre cammino sette otto nove passi ricordo che loro sono solo rumore di risate e passi e ringhi alle mie spalle, rumore di colpi contro la porta e di chiavi che girano, rumore di sussurri e di bussate: toc, toc, toc, toc. La mia mano tocca la parete, allora mi volto e torno indietro. Chissà se sarei ancora spaventato se prendessi un coltello dalla cucina, uno di quelli lunghi sottili e affilati e mi bucassi anche l’altro timpano. Finito il rumore, finita la paura: tornerò a sentire il silenzio della mia anima, il silenzio più profondo che io abbia mai sentito, perché non ci saranno più nemmeno le impercettibili onde sonore prodotte dal battito del mio cuore o dal respiro più leggero. Hanno nove otto sette sei passi per venire da me, devono farlo ora e se non lo faranno andrò in cucina e prenderò il coltello e renderò eterno il silenzio che sento. Cinque quattro tre due uno zero passi e sono fuori dallo sgabuzzino e non so se essere sollevato o meno. Un minuto dopo sono con la faccia immersa nello specchio del corridoio, ma la luce è troppo fioca per distinguere qualcosa che non siano il contorno e le sporgenze del mio volto, e la cucina sullo sfondo, un quadrato di muro alla fine del corridoio vagamente più chiaro del resto dello sfondo. Mi concentro sulla mia mano e sul coltello che impugna e che si avvicina lento e inesorabile al mio timpano, unica difesa contro il silenzio. Chiudo gli occhi per una frazione di secondo, e quando li riapro il sangue mi si gela nelle vene. I peli mi si rizzano, la mano si blocca e il coltello cade a terra.


I miei occhi immobili sono fissi sul riflesso del muro della cucina, sulla sagoma immobile di una persona con due cani al guinzaglio.

3 commenti:

vorgh ha detto...

Come già mi ero reso conto dallo spoiler che mi hai fatto l'altra sera, è proprio figo questo capitolo. Hai saputo riprendere gli elementi introdotti da me e Ro La e incanalarli in una strada senza stravolgere, anzi mi è piaciuto il fatto che tu abbia rivalutato la parte più "riflessiva" sulla quale si direzionava il mio capitolo senza perdere quella più "horror" introdotta da Ro La. Brav'!

Arhal ha detto...

La situazione da ansiosa inizia a farsi interessante.

ANSIA E INTERESSE, ANSIA E INTERESSE!

Il Losco ha detto...

A te l'arduo compito di mettere dei binari alla storia.
A te il compito di mettere tutto in un minimo ordine.
Risultato:10 e lode.
Begli spunti, ansia sempre ripresa, ma lo psicologico che ne è venuto è la chicca.