“Ehi, sveglia, dormiglione! Oggi è il grande giorno!”
“Si, si, ho capito, sono sveglio…”
Le solite urla mattutine penetrano nelle orecchie come un
coltello nel burro. Già, oggi è il grande giorno, il giorno che si aspettava da
una vita. Immagino che creda che io abbia dormito fino ad ora, la verità è che
non ho chiuso occhio. Non so, può essere perché è da giorni che, non avendo
troppo da fare, mi sveglio ogni santa volta all’una del pomeriggio, e quindi
giustamente, ad un certo punto, che vuoi dormire. O forse qualcuno direbbe che
è l’emozione, o stronzate del genere. La verità è che a volte dormire, così
come qualsiasi altra cosa, è semplicemente troppo noioso. Passi la notte steso,
senza pensare a nulla di concreto, finché, a suon di urla, che tradiscono
entusiasmo che dovrebbe contagiarti, vai trascinandoti a passi lenti fino al
bagno.
Solita routine, spazzolino alla sinistra, dentifricio
uguale, lo metti con la destra, spazzoli con la sinistra, agita, sciacqua,
sputa, posa. Controlla un po’ il volto allo specchio per cercare eventuali
imperfezioni perché dio, quello è il grande giorno, non vorrai mica andarci
come uno zingaro. E fatti la barba, e pettinati i capelli, e sta attento a non
tagliarti perché non sia mai, poi quello sfregio si vede su tutte le foto. E io
guardo quello stesso volto ogni giorno, e ci vedo sempre la stessa cosa. Sono
passati quanti anni, cinque? Di più? E vedo sempre la stessa persona, mai
cambiata nel profondo, a volte magari col volto un pochino più stanco, con
quell’accenno di barba incolta, quando si è degnata di cresce, i capelli
sporchi e puliti a giorni alterni, le occhiaie che si scavavano ogni giorno di
più, ogni secondo di più, fino al limite massimo nel giorno programmato. Poi
bum, dormi e si ricomincia da capo, ciclo dopo ciclo, e dentro non rimane
nulla. Non una maturazione, non un cambiamento, è arrivato il “giorno tanto
atteso” e ti senti lo stesso pischello che aveva varcato la porta di quello
stesso bagno quando tutto è iniziato.
Mi sento addosso sorrisi pieni di gioia vera, mentre mi
infilo la “divisa di ordinanza”. Il capo rispettabile, da persona rispettabile
quale sto per diventare. Inutile dire che di quell’abito a stento ho scelto il
colore, che alla fine si è riversato sul normalissimo nero, con camicia bianca
e cravatta rossa. Qualche giorno fa ricordo lo stress perché “Dovevamo comprare
le scarpe” o perché “La cintura non è ancora arrivata” o simili. E io li, come
uno di quei giocattolini con la testa enorme che si agita da sola, a fare si,
no, si, no, a seconda della corrente.
“Ti sta una favola.”
“Mah, si, direi che sta bene.”
Ed eccolo il risultato. Lo specchio sull’anta
dell’armadio mi mostra in tutto il mio splendore. Mi ricordo che non è passato
molto tempo da quando mi vedevo con le spalle strette, il torace piccolo e poco
tonico e i capelli lunghi. Ora calzo un vestito classico, impettito, con l’aria
spaesata di chi sa di non essere troppo a suo agio, mentre mia madre mi guarda
come il più bello degli uomini. Il capello lungo, almeno, è rimasto lo stesso.
Porto con me la busta e in macchina, verso la presidenza.
Nel viaggio, mi risuona continuamente nella testa una frase che mia madre mi
ripeteva sempre, quando ero stanco, abbattuto, distrutto, oberato di lavoro. “Un po’ di pazienza, a mamma, che poi avrai un
sacco di soddisfazioni”, diceva. Sempre la stessa cosa, da madre orgogliosa
che cerca di rincuorare un figlio che sta facendo una strada “difficile e
impegnativa”. Ed ora quella strada è giunta al termine. In quella sala, che sto
per raggiungere, stavolta non ci vado per sperare di essere promosso, non ci
vado col terrore di chi non sa se ha studiato abbastanza, non ci vado con
rassegnazione e cose simili. Ci vado per laurearmi.
La seduta di laurea, già. Una trentina di esami o più, in
x anni, per arrivare poi a quella formalità il cui esito, in fondo, è già stato
scritto in quegli anni pieni di merda. Una formalità, un po’ come la firma di
un contratto, di cui si è già discusso e ridiscusso. Vai la già sapendo cosa ti
aspetta, ma è importante fare bella figura. Da oggi potrò finalmente fregiarmi
del titolo di Dottore, e alla fine questo importa. Non le ore buttate appresso
ad esami di cui non ti è rimasto la benché minima nozione, non il fatto che ci
hai messo magari quell’anno in più preso dalla frustrazione, dai cambi di
programma che si accumulavano sempre di più e che per poco non ti facevano
perdere i capelli, no, l’importante è quello. Essere un Dottore in qualcosa,
una persona rispettabile, l’unica cosa che conta, l’ipoteca per un futuro radioso.
Mi siedo accanto a più o meno una decina di persone che
si laureano con me. So già che se mi guardassi attorno potrei vedere i vari
parenti, focalizzati ognuno, come se
fossero dei tifosi di una squadra di pallone, su uno di quei poveri malcapitati
che sta li a sudare freddo e a macinare nella sua testa nozioni su nozioni su
nozioni che ha scritto su quella favolosa tesi rilegata in pelle rossa, blu,
verde o magari addirittura seta. Tesi preparata ad hoc col professore, che ho
anche io, e ricordo quanto a volte mi sia sentito un pappagallo a cui si
insegna a dire l’alfabeto quando andavo a discuterne col prof.
Lancio, tanto per,
uno sguardo ai miei colleghi. Per quanto sia stato di per sè alquanto
assente dalla vita universitaria tipo, un po' tutti mi riconoscono e mi
salutano. E io saluto loro, scambio con loro convenevoli, e di almeno la metà
non ricordo neanche il nome. Noto però una costante nel loro sguardo: sono
tutti nervosi, nessuno escluso. Io? Io non sono particolarmente nervoso, no, in
fondo so che non cambierà il mondo oggi, so cosa devo dire, so cosa mi rimarrà,
e quando è il mio turno mi alzo e tranquillamente espongo la tesi. Se mi
girassi a guardare, probabilmente, vedrei mia madre asciugarsi le lacrime.
Conclusa la seduta, esco con gli altri fuori dall’aula.
Guardo gli altri lasciarsi ai soliti spettacoli. Alcuni che non appena usciti
prendono i loro smartphone e
modificano il loro stato professionale su facebook. Dottore in. Perché alla
fine hai buttato il sangue per questo cazzo di titolo, mi sembra pure giusto
farsi belli, no? Altri invece si lasciano semplicemente fotografare, sorridendo
radiosamente e tronfi con le foglie d’alloro in testa, o magari quei ridicoli
cappellini da laureati. Li ODIO quei cappellini, non so quante discussioni ho
dovuto fare con i miei che volevano per forza che lo mettessi. Alla fine,
almeno in quello, ho vinto io, anche se al photofinish.
“Ehi, Dottore, da questa parte!”
Mi unisco ai miei supporters. Amici, parenti,
compagni di vita, i soliti noti, più
quelli che vogliono lasciare l’idea di esserci stati quel giorno perché ehi, si
è laureato un loro parente/conoscente/sailcazzocosa, mica è una cosa di tutti i
giorni. Ed ecco i Sorridi, i Cheese, il solito cretino che prova a mettere le
corna dietro la mia testa e io che sorrido, sorrido, sorrido, pregando che la
giornata finisca in fretta. E pensandoci freddo, mentre guardo le loro facce e
le loro voci gioiose, quasi mi sento in colpa per non essere preso anche io
dallo stesso entusiasmo.
Già, perché alla fine non è stato tutto tempo buttato. Se
ci penso sopra, ho avuto momenti intensissimi in quell’università. Ricordo
ancora di quando riuscii a prendere quell’esame, anzi l’Esame. Quello per cui
tutta la facoltà ha tremato, me compreso. Ricordo gli sconosciuti abbracciarmi,
come se fossimo una grande famiglia, perché “E’ andata, hai visto?”. E si che
ho visto, e ricordo che la notte stessa mi ubriacai, come da rito, arrivandomi
a dimenticare quasi tutta la giornata. A volte, girando per la facoltà, trovo
ancora alcuni amici che ridono pensando a quella notte, aggiungendo un
dettaglio nuovo ogni volta che ci ritrovavamo a parlarne. Come quando volevo
pisciare in mezzo alla piazza, o quando avevo deciso di andare in giro per la
città senza pantaloni, o addirittura di quella ragazza che mi voleva scopare e
io che me ne fuggivo come un pischello di sedici anni. L’ubriacata dopo
l’Esame. Lo stesso esame per cui lei mi aveva mollato.
Perché alla fine si ritorna sempre li. Ho dovuto
cancellare la mia esistenza per non so quanto tempo, asservendomi al libro, per
il luminoso futuro che mi avevano promesso, e intanto i miei amici addirittura
si sposavano, emigravano, le ragazze andavano, e io ancora li, a farmi il culo
a forma di sedia e la sedia a forma di culo. Perlomeno ne vale la pena, mi
dicevano i più fidati, è quello che vuoi, no?
…
A volte quella domanda me la faccio io. E’ passato così
tanto da quando ho avuto contatto con me stesso, da non ricordare nemmeno che
cosa voglia veramente. So solo che ogni giorno che passava alzarsi da quel
letto era sempre più faticoso, e che l’unica costante era quella sensazione di
arido che mi attanagliava il cuore.
Tutti fanno sacrifici, nella vita, ed è giusto che anche
io, che mi ritrovo ora con uno spumante in mano a bere dalla bottiglia mentre
il cerchio di persone mi applaude festosa, abbia la mia dose di merda. Ma a
volte ti ritrovi a chiederti quale fosse effettivamente la scelta. Provo a
pensare al percorso che mi ha portato fino a li, e non riesco a non pensare che
fosse quasi pilotato. Ero bravo, più bravo di molti, e dovevo rendere per
quanto valevo, dicevano. E giù le pressioni, perché ogni secondo che passava
quel senso di inadeguatezza aumentava, mentre i risultati stentavano. Così come
l’interesse. Così come la curiosità.
Mi ritrovo a volte ad invidiare quelle persone che un giorno si svegliano, con un fagotto pieno di speranze e la chitarra in mano dicendo di voler fare il musicista. Una scelta coraggiosa, a tratti assurda, visto che la società ci insegna ormai da una vita che il gioco troppe volte non vale la candela, e che il benessere viene prima di tutto. E tu vieni schiacciato da quella macchina mediatica, inizi a pensare che è quella la felicità, che è quella l'unica cosa che conta, e non fa niente se ti senti frustrato a volte, perchè devi fare il conto con la realtà, e la realtà dice che il piatto a tavola non lo porti con i sogni. E quindi, in fondo, la scelta finale è quella di adeguarti al mondo che ti circonda. Ed è così per tutti. O almeno, dovrebbe.
Mi ritrovo a volte ad invidiare quelle persone che un giorno si svegliano, con un fagotto pieno di speranze e la chitarra in mano dicendo di voler fare il musicista. Una scelta coraggiosa, a tratti assurda, visto che la società ci insegna ormai da una vita che il gioco troppe volte non vale la candela, e che il benessere viene prima di tutto. E tu vieni schiacciato da quella macchina mediatica, inizi a pensare che è quella la felicità, che è quella l'unica cosa che conta, e non fa niente se ti senti frustrato a volte, perchè devi fare il conto con la realtà, e la realtà dice che il piatto a tavola non lo porti con i sogni. E quindi, in fondo, la scelta finale è quella di adeguarti al mondo che ti circonda. Ed è così per tutti. O almeno, dovrebbe.
Ma non lo è per
loro, loro hanno il fuoco dentro, l’argento vivo, e possono rischiare anche di
diventare il nuovo Crocodile Dundee della città, il barbone pazzo col pupazzo
di coccodrillo che porta al guinzaglio, se questo significa sentire di non
avere alcun rimpianto, aver seguito il cuore.
Ed è quella la cosa che fa più male alla fine. Io ho
fatto i loro stessi sacrifici, entrando in un ambiente difficile, per cercare
di fare qualcosa di buono nella vita, e poi? E poi ti rendi conto che ti è
mancato il fuoco. E che ti manca ancora, dio santo. Il fuoco. Quella sensazione
che ti fa mettere la sveglia e ti fa svegliare qualche minuto prima impaziente
di iniziare la giornata, come quando eri un bambino e aspettavi la mezzanotte
per i regali sotto l’albero di natale. Che ti fa sentire VERAMENTE realizzato,
e non semplicemente il fantoccio che ha perso la sua identità dietro i vari
modelli di perfezione e benessere che ti sono stati impartiti.
E arrivi con la stessa amarezza con cui ti sei svegliato
a letto, puzzando di alcool dopo la festa di laurea, e cerchi di spegnere i
pensieri, di chiudere gli occhi, di dormire finalmente, e di sentirti riposato,
energico, di non ricordare che domani sarà una giornata come tutte le altre, di
sperare che è solo il momento, e che ora viene il bello. Ma sinceramente... non
penso che sia così.
Ripenso ancora alle parole di mamma, ancora, ancora e
ancora.
“Un po’ di pazienza, a mamma, che poi avrai un sacco di
soddisfazioni”.
Sempre le stesse.
Avrò un sacco di soddisfazioni eh?
Sinceramente, ma'?
Per il momento, non ho niente.
4 commenti:
già sai :D
Da universitaria frustrata, condivido tutto ciò che hai scritto, veramente, sono contenta che al mondo ci sia qualcuno che ci pensa quanto me.
love <3
Sono solo al primo anno, e ti dirò la verità: il tuo racconto mi ha un attimo spiazzata.
A volte anche a me capita di pensare: "Ma cosa sto facendo? Cosa voglio diventare? Cosa voglio fare della mia vita?"... ed ora che ci penso non mi sono mai risposta.
@lice: Purtroppo al giorno d'oggi penso che sia una problematica relativamente comune. Il mestiere dello studente, soprattutto universitario, è un mestiere infame, poco chiaro, non retribuito e genitore di frustrazioni incredibili, data anche dalla sua ambiguità.
Ah, per onor di cronaca, non sono laureato ;) Buona fortuna per i tuoi studi, e speriamo di non fare questa fine qui :)
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