Citazioni


mercoledì 5 febbraio 2014

Gelido.



“Ehi, sveglia, dormiglione! Oggi è il grande giorno!”
“Si, si, ho capito, sono sveglio…”
Le solite urla mattutine penetrano nelle orecchie come un coltello nel burro. Già, oggi è il grande giorno, il giorno che si aspettava da una vita. Immagino che creda che io abbia dormito fino ad ora, la verità è che non ho chiuso occhio. Non so, può essere perché è da giorni che, non avendo troppo da fare, mi sveglio ogni santa volta all’una del pomeriggio, e quindi giustamente, ad un certo punto, che vuoi dormire. O forse qualcuno direbbe che è l’emozione, o stronzate del genere. La verità è che a volte dormire, così come qualsiasi altra cosa, è semplicemente troppo noioso. Passi la notte steso, senza pensare a nulla di concreto, finché, a suon di urla, che tradiscono entusiasmo che dovrebbe contagiarti, vai trascinandoti a passi lenti fino al bagno.
Solita routine, spazzolino alla sinistra, dentifricio uguale, lo metti con la destra, spazzoli con la sinistra, agita, sciacqua, sputa, posa. Controlla un po’ il volto allo specchio per cercare eventuali imperfezioni perché dio, quello è il grande giorno, non vorrai mica andarci come uno zingaro. E fatti la barba, e pettinati i capelli, e sta attento a non tagliarti perché non sia mai, poi quello sfregio si vede su tutte le foto. E io guardo quello stesso volto ogni giorno, e ci vedo sempre la stessa cosa. Sono passati quanti anni, cinque? Di più? E vedo sempre la stessa persona, mai cambiata nel profondo, a volte magari col volto un pochino più stanco, con quell’accenno di barba incolta, quando si è degnata di cresce, i capelli sporchi e puliti a giorni alterni, le occhiaie che si scavavano ogni giorno di più, ogni secondo di più, fino al limite massimo nel giorno programmato. Poi bum, dormi e si ricomincia da capo, ciclo dopo ciclo, e dentro non rimane nulla. Non una maturazione, non un cambiamento, è arrivato il “giorno tanto atteso” e ti senti lo stesso pischello che aveva varcato la porta di quello stesso bagno quando tutto è iniziato.
Mi sento addosso sorrisi pieni di gioia vera, mentre mi infilo la “divisa di ordinanza”. Il capo rispettabile, da persona rispettabile quale sto per diventare. Inutile dire che di quell’abito a stento ho scelto il colore, che alla fine si è riversato sul normalissimo nero, con camicia bianca e cravatta rossa. Qualche giorno fa ricordo lo stress perché “Dovevamo comprare le scarpe” o perché “La cintura non è ancora arrivata” o simili. E io li, come uno di quei giocattolini con la testa enorme che si agita da sola, a fare si, no, si, no, a seconda della corrente.
“Ti sta una favola.”
“Mah, si, direi che sta bene.”
Ed eccolo il risultato. Lo specchio sull’anta dell’armadio mi mostra in tutto il mio splendore. Mi ricordo che non è passato molto tempo da quando mi vedevo con le spalle strette, il torace piccolo e poco tonico e i capelli lunghi. Ora calzo un vestito classico, impettito, con l’aria spaesata di chi sa di non essere troppo a suo agio, mentre mia madre mi guarda come il più bello degli uomini. Il capello lungo, almeno, è rimasto lo stesso.
Porto con me la busta e in macchina, verso la presidenza. Nel viaggio, mi risuona continuamente nella testa una frase che mia madre mi ripeteva sempre, quando ero stanco, abbattuto, distrutto, oberato di lavoro. “Un po’ di pazienza, a mamma, che poi avrai un sacco di soddisfazioni”, diceva. Sempre la stessa cosa, da madre orgogliosa che cerca di rincuorare un figlio che sta facendo una strada “difficile e impegnativa”. Ed ora quella strada è giunta al termine. In quella sala, che sto per raggiungere, stavolta non ci vado per sperare di essere promosso, non ci vado col terrore di chi non sa se ha studiato abbastanza, non ci vado con rassegnazione e cose simili. Ci vado per laurearmi.
La seduta di laurea, già. Una trentina di esami o più, in x anni, per arrivare poi a quella formalità il cui esito, in fondo, è già stato scritto in quegli anni pieni di merda. Una formalità, un po’ come la firma di un contratto, di cui si è già discusso e ridiscusso. Vai la già sapendo cosa ti aspetta, ma è importante fare bella figura. Da oggi potrò finalmente fregiarmi del titolo di Dottore, e alla fine questo importa. Non le ore buttate appresso ad esami di cui non ti è rimasto la benché minima nozione, non il fatto che ci hai messo magari quell’anno in più preso dalla frustrazione, dai cambi di programma che si accumulavano sempre di più e che per poco non ti facevano perdere i capelli, no, l’importante è quello. Essere un Dottore in qualcosa, una persona rispettabile, l’unica cosa che conta, l’ipoteca per un futuro radioso.
Mi siedo accanto a più o meno una decina di persone che si laureano con me. So già che se mi guardassi attorno potrei vedere i vari parenti,  focalizzati ognuno, come se fossero dei tifosi di una squadra di pallone, su uno di quei poveri malcapitati che sta li a sudare freddo e a macinare nella sua testa nozioni su nozioni su nozioni che ha scritto su quella favolosa tesi rilegata in pelle rossa, blu, verde o magari addirittura seta. Tesi preparata ad hoc col professore, che ho anche io, e ricordo quanto a volte mi sia sentito un pappagallo a cui si insegna a dire l’alfabeto quando andavo a discuterne col prof.
Lancio, tanto per,  uno sguardo ai miei colleghi. Per quanto sia stato di per sè alquanto assente dalla vita universitaria tipo, un po' tutti mi riconoscono e mi salutano. E io saluto loro, scambio con loro convenevoli, e di almeno la metà non ricordo neanche il nome. Noto però una costante nel loro sguardo: sono tutti nervosi, nessuno escluso. Io? Io non sono particolarmente nervoso, no, in fondo so che non cambierà il mondo oggi, so cosa devo dire, so cosa mi rimarrà, e quando è il mio turno mi alzo e tranquillamente espongo la tesi. Se mi girassi a guardare, probabilmente, vedrei mia madre asciugarsi le lacrime.
Conclusa la seduta, esco con gli altri fuori dall’aula. Guardo gli altri lasciarsi ai soliti spettacoli. Alcuni che non appena usciti prendono i loro smartphone e modificano il loro stato professionale su facebook. Dottore in. Perché alla fine hai buttato il sangue per questo cazzo di titolo, mi sembra pure giusto farsi belli, no? Altri invece si lasciano semplicemente fotografare, sorridendo radiosamente e tronfi con le foglie d’alloro in testa, o magari quei ridicoli cappellini da laureati. Li ODIO quei cappellini, non so quante discussioni ho dovuto fare con i miei che volevano per forza che lo mettessi. Alla fine, almeno in quello, ho vinto io, anche se al photofinish.
“Ehi, Dottore, da questa parte!”
Mi unisco ai miei supporters. Amici, parenti, compagni di vita, i soliti noti,  più quelli che vogliono lasciare l’idea di esserci stati quel giorno perché ehi, si è laureato un loro parente/conoscente/sailcazzocosa, mica è una cosa di tutti i giorni. Ed ecco i Sorridi, i Cheese, il solito cretino che prova a mettere le corna dietro la mia testa e io che sorrido, sorrido, sorrido, pregando che la giornata finisca in fretta. E pensandoci freddo, mentre guardo le loro facce e le loro voci gioiose, quasi mi sento in colpa per non essere preso anche io dallo stesso entusiasmo.
Già, perché alla fine non è stato tutto tempo buttato. Se ci penso sopra, ho avuto momenti intensissimi in quell’università. Ricordo ancora di quando riuscii a prendere quell’esame, anzi l’Esame. Quello per cui tutta la facoltà ha tremato, me compreso. Ricordo gli sconosciuti abbracciarmi, come se fossimo una grande famiglia, perché “E’ andata, hai visto?”. E si che ho visto, e ricordo che la notte stessa mi ubriacai, come da rito, arrivandomi a dimenticare quasi tutta la giornata. A volte, girando per la facoltà, trovo ancora alcuni amici che ridono pensando a quella notte, aggiungendo un dettaglio nuovo ogni volta che ci ritrovavamo a parlarne. Come quando volevo pisciare in mezzo alla piazza, o quando avevo deciso di andare in giro per la città senza pantaloni, o addirittura di quella ragazza che mi voleva scopare e io che me ne fuggivo come un pischello di sedici anni. L’ubriacata dopo l’Esame. Lo stesso esame per cui lei mi aveva mollato.
Perché alla fine si ritorna sempre li. Ho dovuto cancellare la mia esistenza per non so quanto tempo, asservendomi al libro, per il luminoso futuro che mi avevano promesso, e intanto i miei amici addirittura si sposavano, emigravano, le ragazze andavano, e io ancora li, a farmi il culo a forma di sedia e la sedia a forma di culo. Perlomeno ne vale la pena, mi dicevano i più fidati, è quello che vuoi, no?
A volte quella domanda me la faccio io. E’ passato così tanto da quando ho avuto contatto con me stesso, da non ricordare nemmeno che cosa voglia veramente. So solo che ogni giorno che passava alzarsi da quel letto era sempre più faticoso, e che l’unica costante era quella sensazione di arido che mi attanagliava il cuore.
Tutti fanno sacrifici, nella vita, ed è giusto che anche io, che mi ritrovo ora con uno spumante in mano a bere dalla bottiglia mentre il cerchio di persone mi applaude festosa, abbia la mia dose di merda. Ma a volte ti ritrovi a chiederti quale fosse effettivamente la scelta. Provo a pensare al percorso che mi ha portato fino a li, e non riesco a non pensare che fosse quasi pilotato. Ero bravo, più bravo di molti, e dovevo rendere per quanto valevo, dicevano. E giù le pressioni, perché ogni secondo che passava quel senso di inadeguatezza aumentava, mentre i risultati stentavano. Così come l’interesse. Così come la curiosità.
Mi ritrovo a volte ad invidiare quelle persone che un giorno si svegliano, con un fagotto pieno di speranze e la chitarra in mano dicendo di voler fare il musicista. Una scelta coraggiosa, a tratti assurda, visto che la società ci insegna ormai da una vita che il gioco troppe volte non vale la candela, e che il benessere viene prima di tutto. E tu vieni schiacciato da quella macchina mediatica, inizi a pensare che è quella la felicità, che è quella l'unica cosa che conta, e non fa niente se ti senti frustrato a volte, perchè devi fare il conto con la realtà, e la realtà dice che il piatto a tavola non lo porti con i sogni. E quindi, in fondo, la scelta finale è quella di adeguarti al mondo che ti circonda. Ed è così per tutti. O almeno, dovrebbe.
 Ma non lo è per loro, loro hanno il fuoco dentro, l’argento vivo, e possono rischiare anche di diventare il nuovo Crocodile Dundee della città, il barbone pazzo col pupazzo di coccodrillo che porta al guinzaglio, se questo significa sentire di non avere alcun rimpianto, aver seguito il cuore.
Ed è quella la cosa che fa più male alla fine. Io ho fatto i loro stessi sacrifici, entrando in un ambiente difficile, per cercare di fare qualcosa di buono nella vita, e poi? E poi ti rendi conto che ti è mancato il fuoco. E che ti manca ancora, dio santo. Il fuoco. Quella sensazione che ti fa mettere la sveglia e ti fa svegliare qualche minuto prima impaziente di iniziare la giornata, come quando eri un bambino e aspettavi la mezzanotte per i regali sotto l’albero di natale. Che ti fa sentire VERAMENTE realizzato, e non semplicemente il fantoccio che ha perso la sua identità dietro i vari modelli di perfezione e benessere che ti sono stati impartiti.
E arrivi con la stessa amarezza con cui ti sei svegliato a letto, puzzando di alcool dopo la festa di laurea, e cerchi di spegnere i pensieri, di chiudere gli occhi, di dormire finalmente, e di sentirti riposato, energico, di non ricordare che domani sarà una giornata come tutte le altre, di sperare che è solo il momento, e che ora viene il bello. Ma sinceramente... non penso che sia così.
Ripenso ancora alle parole di mamma, ancora, ancora e ancora.
“Un po’ di pazienza, a mamma, che poi avrai un sacco di soddisfazioni”.
Sempre le stesse.
Avrò un sacco di soddisfazioni eh?
Sinceramente, ma'?
Per il momento, non ho niente.

4 commenti:

Bob ha detto...

già sai :D

Arhal ha detto...

Da universitaria frustrata, condivido tutto ciò che hai scritto, veramente, sono contenta che al mondo ci sia qualcuno che ci pensa quanto me.

love <3

Unknown ha detto...

Sono solo al primo anno, e ti dirò la verità: il tuo racconto mi ha un attimo spiazzata.
A volte anche a me capita di pensare: "Ma cosa sto facendo? Cosa voglio diventare? Cosa voglio fare della mia vita?"... ed ora che ci penso non mi sono mai risposta.

Il Losco ha detto...

@lice: Purtroppo al giorno d'oggi penso che sia una problematica relativamente comune. Il mestiere dello studente, soprattutto universitario, è un mestiere infame, poco chiaro, non retribuito e genitore di frustrazioni incredibili, data anche dalla sua ambiguità.
Ah, per onor di cronaca, non sono laureato ;) Buona fortuna per i tuoi studi, e speriamo di non fare questa fine qui :)